ALCOA Le verità nascoste.

ALCOA Le verità nascoste.

La globalizzazione dell’informazione rende spesso quasi inutile il dover scrivere qualcosa. Qualcuno lo ha già fatto. E riportare una notizia, un articolo o lo scritto di qualcun altro, essendone d’accordo, non credo possa considerarsi un plagio o un illecito. Citandone la fonte e l’autore. Se poi si tratta di articoli e pensieri il cui scopo è di far conoscere verità nascoste, diventa quasi doveroso fare un copia incolla e fornire il link a quante più persone possibile. Se così non fosse, e per qualunque ragione, l’autore decidesse di volerne la rimozione, no problem.

Ecco un articolo di Sergio Di Cori Modigliani dal suo blog

Lasciamo perdere le commemorazioni e le piatte rimembranze retoriche e passiamo subito al sodo che ci interessa, oggi e a casa nostra.

Parliamo dunque dell’Alcoa e di Portovesme in Sardegna.
Di conseguenza, parliamo di scelte strategiche militari e di investimenti di speculazione finanziaria sui derivati nelle commodities del settore minerario.
Quella che si sta combattendo in Sardegna è guerra vera, ma non lo dicono.
Quando parlo di “guerra vera” intendo dire carri armati, bombardieri, ecc.
E di un flusso di cassa permanente di soldi per la criminalità organizzata.
Una brevissima pausa tanto per ricordare quel martedì atroce dell’11 settembre.
Non quello delle torri gemelle nel 2001.
Bensì quello del 1973, quando la Alcoa, la Enron, la ITT e la Citicorp diedero il via definitivo ai fascisti cileni per impossessarsi del potere in Sudamerica con la violenza. Avevano bisogno del controllo economico e finanziario di tutta la produzione estrattiva delle miniere di rame in Cile, del controllo della produzione di alluminio, carbone e zinco nella zona tra Il Cile, il Perù, l’Uruguay e il Paraguay. Fu quella la ragione e il motivo.

39 anni dopo la Alcoa sta di nuovo in prima fila nella gestione del riassestamento strategico delle sue aziende.

L’ufficio operativo marketing europeo nacque e si costituì a Milano, nel 1967, e da lì, grazie all’appoggio dei ceti più conservatori della politica italiana, iniziarono a tessere le fila per il golpe in Sudamerica nei primi anni’70, come tonnllate di documenti hanno ampiamente provato da decenni.

Ho ritenuto opportuno, oggi, quindi, spiegare chi sia la Alcoa.
Chi la dirige, chi la gestisce. Chi c’è dietro.
Per comprendere che non si tratta di una “normale” battaglia sindacale.

Si tratta del nuovo scenario dell’oligarchia finanziaria planetaria da applicare all’Azienda Italia per affossare definitivamente il paese.
Dietro l’Alcoa c’è la Citicorp che ne gestisce la finanza in un fondo creativo il cui management operativo è affidato al nucleo di Black Rock Investment, garantito da Royal Bank of Scotland e amministrato, in ultima istanza, dal quartiere generale di Goldman Sachs (è tutta robbetta ricavata da files pubblici gentilmente offerti nel 2010 e nel 2011 dalla ditta wikileaks di Julian Assange) che in questo 2012 sovrintendono, gestiscono e stabiliscono gli investimenti produttivi nel settore energetico nel pianeta.
Ecuador, Bolivia, Uruguay, Islanda, Australia, Spagna, Italia.
Queste sono le nazioni “strategicamente” più interessanti per Alcoa negli ultimi 10 anni.
Queste sono le nazioni nelle quali, nell’ultimo triennio, Alcoa ha avuto dei seri guai (oltre che perdere ingenti profitti ai quali erano abituati).
Nelle prime quattro nazioni il problema è stato risolto dai governi locali e vi spiegherò come. In Australia è stato affrontato e risolto dal Commonwealth in 36 ore tra il 28 e il 29 giugno del 2012, evitando una pericolosa crisi politica britannica venti giorni prima dell’inizio delle olimpiadi. In Spagna e in Italia (considerate ormai in tutto il mondo le due nazioni più conservatrici, più arrese, più arretrate dal punto di vista politico, completamente commissariate dai colossi finanziari) è stata scelta la linea colonialista, sapendo che in Italia e Spagna, in questo momento, è possibile fare tutto ciò che si vuole perché non esiste nessuna opposizione reale, avendo cancellato l’esercizio dell’informazione giornalistica.

Nessuno spiega chi è Alcoa, che cosa fanno, che cosa vogliono da noi, e perché se ne vanno via, dove, come, a fare che.
La prima botta per Alcoa è venuta dall’Islanda.
I guai per Alcoa (si fa per dire) iniziano in Islanda, agli inizi del 2007, quando un esponente del partito socialista islandese, membro della commissione salute e sanità del parlamento islandese, Helgi Hjorvar, fa una interpellanza parlamentare contro Alcoa sostenendo che “sta ottenendo sovvenzioni statali grazie alle quali ha assunto il totale controllo dell’erogazione di energia elettrica nella nostra isola praticando un prezzo ai consumatori dell’850% superiore a quelli di mercato e a quelli praticati in altre nazioni”. Da lì nasce una tremenda querelle che porterà poi Alcoa, prima a scusarsi, poi a patteggiare e infine, travolta dallo scandalo di corruzione delle multinazionali emerso in seguito al default islandese, a pagare un dazio e poi scappare via.
Ma pochi mesi dopo, alla fine del 2008 arriva la botta dell’Ecuador. Il nuovo governo di Rafael Correa fa arrestare l’intero management di Petroecuador attaccando per corruzione internazionale la società svizzera Glencore, sì proprio quella che la cupola mediatica italiana sostiene oggi sui media blaterando “c’è un cliente interessato all’acquisto”, è proprio quella che –toh guarda caso- è però la stessa azienda; perché, attraverso incroci azionari, rispondono entrambe all’interesse della Citicorp di New York. Fernando Villavicencio, esperto sudamericano a Quito di analisi finanziarie, rivela come e perchè l’azienda locale di Alcoa e Glencore, a Quito, sia stata nazionalizzata e l’azienda buttata fuori dal marketing operativo. Il tutto dopo che in data 9 Febbraio 2007, in Bolivia, il presidente Evo Morales aveva dichiarato “insostenibile” il monopolio di Glencore e Alcoa nel settore argento, oro, zinco, alluminio attraverso la “Empresa metalurgica Vinto” nella regione di Oruro e la Sinchi Wayra (capitale finanziario Deutsche Bank e Citicorp) grazie alla corruttela dei precedenti governi, i cui esponenti sono finiti in galera. Nella stessa data, il parlamento boliviano vara un decreto legge in virtù del quale confisca le aziende di Alcoa e Glencore senza alcun indennizzo, nazionalizza le dodici aziende minerarie, e le espelle entrambe dal paese vietandone l’accesso al mercato. Da notare che il presidente della Glencore (uno degli uomini più ricchi al mondo) Marc Rich, è stato indagato in Usa per truffa, aggiotaggio, riciclaggio, sottoposto ad auditing davanti al Senato Usa nel febbraio del 2001 in diretta televisiva, processo concluso in maniera negativa sia per Rich che per la Glencore che per la Alcoa, ritenute colpevoli. La sentenza definitiva venne stabilita per il successivo aprile. Ventiquattro ore prima della notifica, il presidente George Bush intervene personalmente (potendolo legalmente fare) chiedendo, pretendendo e ottenendo un “perdono giuridico del Congresso” in quanto tali aziende erano costrette a non rivelare la “vera natura del proprio business operativo essendo coinvolte in attività di natura strategica militare coperte dal segreto di Stato”. Il presidente garantì per loro. Nel 2005 l’interpol fa arrestare l’intero management di Glencore, di Alcoa e di African United Mines company nella Repubblica del Congo per riciclaggio internazionale di capitali, aggiotaggio e associazione con membri della criminalità organizzata legata ai cartelli narcos colombiani. E’ tuttora aperta la vicenda nella Repubblica dello Zambia, nella regione di Mopani, dove, approfittando della corruzione dei governanti locali le miniere vengono gestite senza rispettare alcuna norma di sicurezza o di rispetto ambientale. Come l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rivelato in un documento ufficiale presentato a Ginevra da Greenpeace in data 2010, in Zambia, “nella zona prospiciente la regione di Mopani, cinque milioni di persone rischiano la vita in seguito a piogge acide, all’avvelenamento di tutta la falda acquifera dato che la popolazione beve acqua non sapendo che essa non è potabile perché contiene una percentuale di piombo e alluminio superiore del 6.000% al livello massimo di rischio: sono tutte condannate a morte”. L’inchiesta è ancora lì.

In Paraguay, il vescovo Lugo, in quanto presidente regolarmente eletto, in data marzo 2012 aveva annunciato che avrebbe confiscato le miniere di Glencore e di Alcoa nel giugno del 2012 dando loro la possibilità di iniziare un piano di disinvestimento progressivo. Un mese dopo c’è stato il suo defenestramento sostituito da un governo tecnico che ha abolito il decreto affidando alle due aziende il controllo delle miniere del paese.
E così nel 2012 la Alcoa stabilisce che il quadro internazionale sta cambiando e decide di “spostare strategicamente tutte le attività estrattive, produttive e commerciali dal Sudamerica, Europa e Australia nel libero territorio dell’Arabia Saudita” paese medioevale dove c’è la possibilità di avere a disposizione mano d’opera che lavora quasi gratuitamente. Secondo il management dell’Alcoa c’è la opportunità di concentrare tutta la produzione mondiale di minerali fossili in Arabia Saudita con un prezzo di produzione minimo in modo tale da poter avere il monopolio nel mondo. E quindi dettare legge.
In Spagna (dove si trova la più grande azienda in Europa) gli va di lusso. Attraverso le sue consociate finanziarie, il gruppo Citicorp possiede pacchetti azionari di Caixa Bank, Banco Santander, Bankia e Banco Hispanico e quindi controlla il sistema finanziario delle banche erogatrici di credito a tutto il comparto dell’indotto nella provincia dell’Andalusia. 50.000 famiglie finiscono tutte sul lastrico per la chiusura delle miniere, alle quali vanno aggiuntre circa 2.000 micro aziende dipendenti, che porteranno la Andalusia a dichiarare default nell’agosto del 2012 chiedendo l’intervento dello stato centrale.
Ma è in Australia che gli va male, ragion per cui sceglie e opta per la chiusura in Italia.
Avviene tutto nel giugno del 2012 quando Alcoa decide di chiudere le miniere nel Queensland, licenziando 2.000 persone che coinvolgono altre 3.600 persone operative nell’indotto. E qui c’è la sorpresa, a dimostrazione che –quando esiste la volontà politica, l’informazione e l’intelligenza- c’è sempre una possibilità di uscita. La Alcoa comunica che chiude le sue miniere e si trasferisce in Sudafrica. 48 ore dopo, il gruppo wikileaks australiano di Julian Assange inonda la rete australiana con notizie, informazioni (e trascrizioni di conversazioni tra diplomatici americani, inglesi, arabo-sauditi, italiani) relative soprattutto all’attività di un tedesco considerato un grande genio, Klaus Kleinfeld, la mente dietro Alcoa, l’uomo la cui immagine vedete qui in bacheca. Nato nel 1957 si laurea a pieni voti nella prestigiosa università di Gottinga e poi prende anche un dottorato di ricerca nell’università di Wurzburg in “amministrazione gestionale di aziende multinazionali” e inizia presto la sua attività, prima come consulente finanziario per Goldman Sachs nei primissimi anni’80 e poi a Duisbrug, Wiesbaden e infine a Francoforte, come responsabile degli investimenti finanziari in Europa per conto del gigante statunitense Citicorp. A metà dergli anni’90 entra in Alcoa diventando presidente dal 1996 al 2001, gestendo in prima persona “l’operazione Italia di Portovesme” (dal punto di vista finanziario) prima con l’accoppiata Romano Prodi/Massimo D’Alema nel 1996 e 1997 e poi con l’accoppiata Silvio Berlusconi/Ignazio La Russa nel 2001. Dopodichè viene inviato in Usa dove diventa amministratore delegato della Siemens tedesca, gigantesca multinazionale strategica in campo militare e delle telecomunicazioni. Ma in Germania iniziano le contestazioni contro di lui all’interno del mondo imprenditoriale per i suoi modi autoritari e per l’indecoroso trattamento degli impiegati e degli operai tedeschi nelle fabbriche tedesche. Per anni, Kleinfeld è al centro del mirino della stampa tedesca finchè non finisce indagato, accusato di corruzione, abuso di potere e addirittura “atteggiamento autoritario e lesivo della dignità umana dei propri dipendenti” ed è costretto a dimettersi nel 2007, scomparendo nel nulla (ovvero, rientrando come consulente operativo finanziario dentro Citicorp).
Alcoa in Italia nasce nel 1967 a Milano quale ufficio di rappresentanza e commerciale per la gestione delle vendite di materiale di produzione statunitense ed europea alla clientela italiana e del Bacino Mediterraneo. Ma Kleinfeld gestisce, insieme a Citicorp e Goldman Sachs, l’acquisizione della ALUMIX (gruppo EFIM) di proprietà dell’Italia; un’operazione gestita da Prodi e D’Alema che consegnano nelle mani del consorzio Citicorp e Goldman Sachs un pezzo strategico fondamentale per la sovranità e l’indipendenza nazionale senza aver mai fornito dettagli sull’operazione. Alain Belda (personalmente scelto da George Bush, Dean Rumsfeld e Dick Cheney) nel 2001 diventa presidente della Alcoa e chiude un accordo con il governo italiano prima nel 2002 (Berlusconi/La Russa) poi di nuovo nel 2007 (Prodi/D’Alema) e infine il più succoso in assoluto quello del 2009 (Berlusconi/La Russa) che consente alla Alcoa di godere di sovvenzioni governative come “rimborso relativo all’uso dell’energia elettrica” per un totale di 2 miliardi di euro nel 2009, più 1 miliardo e mezzo nel 2010 che raggiungono i 4,5 miliardi di euro nel 2011, a condizione di “garantire l’occupazione permanente e il prosieguo dell’attività produttiva nel territorio sardo”. Quei soldi, in verità, sono finiti nella Citicorp, investiti nei derivati finanziari. Neanche lo vendono l’alluminio: lo producono, lo accatastano, lo immagazzinano e lo danno in garanzia per avere soldi da investire in derivati speculativi.
L’Italia è stata una pacchia per gli speculatori, soprattutto tra il 2007 e il 2011, perché attraverso la malleveria politica ogni multinazionale e grossa azienda –con scusanti varie- si è appropriata di ingenti risorse dello stato centrale (cioè i nostri soldi) per investirli poi a Londra, New York, Francoforte, Honk Kong.
Ma i profitti lucrati non sono mai rientrati in Italia.
Neppure un euro.
Come dicevo sopra, nel giugno del 2012 Alcoa decide di chiudere in Australia “rompendo” il consueto patto: mi dai sovvenzioni statali e io ti garantisco piena occupazione nel settore. Ma in Oceania, la manovra non passa. Fa da ariete Julian Assange (e wikileaks) da due giorni finito dentro l’ambasciata dell’Ecuador, e in Australia monta il dibattito su Alcoa. Perché sul web australiano, sui blogs e sulla stampa mainstream cominciano a comparire valanghe e fiumi di notizie sulla Alcoa, sulla Glencore e sulle loro attività finanziarie. Il primo ministro australiano interviene e risolve il tutto in tre giorni. Telefona alla regina Elisabetta e le dice “Maestà, se queste 4.000 famiglie verranno buttate in mezzo alla strada, riterrò politicamente responsabile la Corona d’Inghilterra e lei personalmente ne trarrà le conseguenze. Sulla base del nostro diritto io denuncio quindi la questione al Commonwealth, pretendendo un’aperta discussione anche all’interno del parlamento britannico a Londra”. Lo fa anche per iscritto. Invia una lettera a Elisabetta (bypassando David Cameron) ma la copia la invia anche ai responsabili del Partito Laburista Britannico (i partiti servono, eccome se servono; il problema non sono i partiti, in Italia, ma la qualità delle persone che li compongono, il che è un altro dire) i quali si incontrano con la regina e risolvono la questione in un semplice colloquio, peraltro informale. La Legge britannica obbliga la regina a non mettere bocca su quello che fa il suo primo ministro (a meno che lei non lo sfiduci) ma il primo ministro non si impiccia del Commonwealth che la Corona sovrintende (Canada, Australia, Bahamas, Bermudas, ecc.). Il ministro degli esteri inglesi viene avvertito e invitato a chiedere alla Merkel che intervenga; evento che si verifica. Kleinfeld viene raggiunto e viene chiuso un nuovo accordo. La Corona mette subito 40 milioni di sterline per pagare gli stipendi dei minatori per due mesi e nel frattempo garantisce che la Alcoa rimane lì e seguiterà a produrre, oppure, nel caso se ne voglia andare, restituisce i soldi che ha avuto e la Corona d’Inghilterra si fa garante, oltre a farsi carico della spesa di riconversione, assumendosi la responsabilità di avere a suo tempo dato il via all’operazione.
Trovate tutto il racconto sul sito (per gli amanti dei link) news.ninemsn.com.au

Perché non farlo anche in Italia?

L’Alcoa o rimane (e ringrazi il cielo) oppure deve restituire i soldi che ha avuto, li deve restituire subito, cash really cash, sufficienti a garantire la tenuta dell’occupazione e riconvertire con un abile piano industriale la zona rilanciando lavoro e occupazione. Si tratta di circa 8 miliuardi di euro, praticamente una manovra economica.
Lo sapete che non esiste una fattura, un bilancio, una documentazione, una ricevuta di quei soldi?
Lo Stato italiano per anni ha dato i soldi dei contribuenti a un’azienda gestita da una pattuglia che rispondeva agli ordini di Dean Rumsfeld (ex ministro della Difesa Usa) uomo costretto alle dimissioni in Usa e scomparso nel nulla per pudore, e assiste passivo e silente dinanzi a ciò che sta accadendo?
Perché i sindacati non raccontano la storia vera di Alcoa?
Perché i sindacati non raccontano chi c’è e c’è stato dietro Alcoa?

Corrado Passera sostiene che c’è “un interesse” di Glencore. Ma questa è un’azienda finanziaria che si occupa di investimenti su derivati, l’uno è il braccio dell’altro: che cosa fanno? Un ufficio vende la propria azienda a un’altra stanza dello stesso ufficio?
Ci avete presi per deficienti cerebrolesi?

Il sole24 ore poi viaggia su un delirio da cupola mediatica: “c’è un forte interesse da parte di un’industria svizzera, la Klesh”.

Peccato che anche questa sia una società finanziaria della Citicorp, gestita da Goldman Sachs, già operativa dentro la Alcoa, ex socia di Halliburton, Enron e Pimco Pacific insieme al vice-presidente Usa Dick Cheney, gestita da un management “discutibile” dato che l’intero consiglio amministrativo è composto da individui indagati, denunciati, alcuni condannati per riciclaggio, aggiotaggio, violazione delle norme fiscali, retributive e associative, tra cui falso in bilancio, coinvolti in continui scandali finanziari.

In Sudamerica stanno cercando di liberarsi di questa gente. Quando e se possono, li sbattono fuori dal paese, o li mettono in galera.
In Australia, il governo è intervenuto subito coinvolgendo tutta la city di Londra, minacciando sfraceli. Ha ottenuto un risultato in 48 ore.
E in Italia?

I lavoratori della Alcoa hanno il sacrosanto diritto di combattere per la salvaguardia del loro posto di lavoro, che era stato garantito da accordi inter-governativi di tipo militare.

Ma hanno il dovere civico di chiedere ai sindacalisti “ragazzì….com’è sta storia della Alcoa?” e pretendere da loro che raccontino chi c’era dietro, quali accordi hanno stipulato, quali erano le garanzie reciproche, pretendere l’esibizione di tutta la regolare documentazione dello scambio tra Alcoa e governo, con nomi e cognomi, date e cifre. Se era legale, dovrebbe essere tutto documentato. Se non è documentato, allora vuol dire che non è legale e il Diritto consente di sequestrare gli impianti come si fa con la mafia.

Soprattutto pretendere che si sappia che cosa c’è dietro, oggi, adesso. Ora.

Nella Guerra Invisibile, la battaglia per il controllo delle risorse energetiche è fondamentale.

Gli operai sardi devono chiedere “Perché l’Alcoa chiude, adesso? Dove sono andati a finire i miliardi di euro che hanno ricevuto? Che cosa hanno dato in cambio?”

Ma soprattutto avere il coraggio civile, e civico, di chiedere “A chi hanno dato in cambio qualcosa? Quando? Come? Quanto?”.

Perché di questo si tratta.

Ecco il vero volto dell’attuale governo in carica: gestire e pilotare la crisi per spingere all’angolo della disperazione sociale chi lavora e poi presentarsi e dire: “o finite in mezzo alla strada oppure vi possiamo salvare vendendo questa azienda a Mr. Pinco Pallino perché noi siamo buoni” obbligando la gente (e le aziende) ad accogliere a braccia aperte Mr. Pinco Pallino senza sapere chi diavolo sia. Così entra la criminalità organizzata, e così penetrano le società finanziarie, il cui unico, dichiarato scopo, consiste nella de-industrializzazione delle nazioni.

Vogliamo sapere le condizioni di vendita all’Alcoa scritte nel 1996. Chi stabilì allora il prezzo? Quali parametri vennero usati e applicati?
Vogliamo sapere quali condizioni e postille e clausole c’erano negli accordi strategici sottoscritti dal governo nel 2001, nel 2007 e nel 2009.
Vogliamo sapere come sia possibile che l’Italia nel 1992 era tra le nazioni leader al mondo nella produzione di lingotti di alluminio e adesso è sparita dal mercato.
Coloro che hanno gestito queste manovre sono le stesse persone che oggi pretendono di guidare il presupposto cambiamento.
Stanno tutti in parlamento.
E voi vi fidate di gente così?

“Devono andare tutti alle isole Barbados”.

 

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21 Dicembre 2012 la fine della Coca Cola

21 Dicembre 2012 la fine della Coca Cola

 

Tutti i complottisti, i catastrofisti, i santoni, i guru, gli psico-archeologi, hanno torto. Non ci sarà la fine del mondo. Addio Nibiru, buchi neri e allineamenti planetari.

Sarà solo la fine della Coca Cola.

Almeno in Bolivia.

Parola di presidente.

 

 

Ecco la dichiarazione di David Choquehuanca, ministro degli esteri della  Repubblica di Bolivia:

 

“Yo digo que el 21 de diciembre del 2012 tiene que ser el fin del egoísmo, el fin de la división, el fin de la desarmonía y tiene que ser el comienzo de la armonía, el comienzo de la unidad, de la hermandad, tiene que ser el fin del miedo. El 21 de diciembre tiene que ser el fin de la mentira y tiene que ser el comienzo de la verdad y tiene que ser el fin de los alimentos producidos artificialmente”, manifestó el Canciller durante la inauguración del Taller “Rumbo al 21 de diciembre por el despertar de la conciencia, cerrando el siglo XXI al no tiempo y recibiendo el tiempo de equilibrio y armonía de la madre tierra”.

Il 21 dicembre 2012 sarà l’inizio della fine dell’egoismo e l’inizio della fine della divisione. In tale occasione verrà applicata la nuova Legge in materia sanitaria che segna anche la fine della presenza della multinazionale Coca Cola, di cui verrà vietata la produzione, la distribuzione e la vendita. E’ anche la data dell’inizio del Mocochinchè (Bevanda tradizionale al gusto di pesca e frutti tropicali). Tutto ciò avverrà per amore di Pachamama, la nostra Madre Terra che tutti noi rispettiamo”.

Riportata così, la notizia potrebbe sembrare una sorta di sbruffonata alla sudamericana. Almeno così ci riportano le notizie i media italiani e europei. Ma se guardiamo agli antefatti ecco emrgere un quadro ben diverso.

Non bere Coca Cola magari per qualcuno sarà veramente la fine del mondo. Ma se il calendario Maya, come affermano i più, indica l’inizio di una nuova era, sbagliano anche loro. Perchè nel sud del mondo, questa nuova era è già iniziata da qualche anno. Ma in Italia, e in Europa, le notizie importanti, si sà,  non contano. Tralasciando Ecuador e Argentina, già nel 2008, l’allora presidente presidente boliviano Evo Morales, per porre fine allo strapotere dei trafficanti di coca, indisse un referendum per nazionalizzare la produzione di foglie di coca dichiarando:

“è arrivato il momento di porre fine alla immonda piaga della presenza della criminalità organizzata gestita dalla Cia per contrabbandare la cocaina nel mondo. Le foglie di coca sono patrimonio vegetale del territorio naturale della Bolivia, ragion per cui i cocaleros (ndr. contadini che lavorano le foglie della coca lavorandola e trasformandola nella pasta bianca che noi chiamiamo cocaina) hanno il diritto di essere legittimi proprietari delle proprie terre, delle proprie piante, del proprio diritto al lavoro pagato secondo le tabelle sindacali. Di conseguenza, indico un referendum per legalizzare la produzione, diffusione e distribuzione delle foglie di coca, compresi tutti i loro derivati”.

Inutile ricordare che il referendum passò  a grande maggioranza. Le coltivazioni furono nazionalizzate e le multinazionali che controllavano la produzione agricola di coca e la successiva trasformazione (in panetti di cocaina) furono bandite dal territorio boliviano. Dalla Bolivia furono espulse circa 1500 società finanziarie (al 55% statunitensi, al 30% italiane e al 15% misto olandesi-belgi) che in realtà si occupavano di gestire gli ingenti profitti derivanti dalla produzione, distribuzione e vendita delle foglie di coca. Tra le aziende che acquistavano le foglie di coca c’era la Coca Cola Company, a detta di Evo Morales. E’ ovvio che la coca cola ha sempre negato l’uso delle foglie di coca nella sua bibita. Ma alle richieste di argomentare scientificamente davanto all’OMS, ha sempre negato schierandosi dietro al segreto industriale.  Da qui il bando della vendita della famosa bibita in tutto il territorio boliviano e la messa in commercio di un’altra bibita a base di foglie di coca; la Coca Colla. Con due elle. Las Collas sono i discendenti di una antica tribù Maya originaria delle Ande Boliviane che facevano uso ( come tutti gli abitanti delle zone andine) delle foglie di coca. Anche in Perù, me lo conferma il mio amico Jonathan da Lima, sta avendo un gran successo la Inka Cola.  Sconfitta per la grande industria ? Certamente sì, e la grande festa organizzata in sud america in occasione del solstizio d’estate ( da loro è estate) il 21 Dicembre 2012, non sevirà soltanto a dare risalto e propagandare la nuova bibita.

Sarà la festa, e qui si deve riflettere molto, che date le premesse e cioè : la cacciata delle multinazionali amero-europee, la nazionalizzazione delle industrie, dell’agricoltura, la democrazia partecipata con referendum, che sancirà “la fine del capitalismo come modello di vita”.

Ma da noi, queste notizie, non sono passate e non passeranno. Per cui, se non sono vere le previsioni dei catastrofisti & C. per il 21 Dicembre 2012, ci auguriamo che siano vere le previsioni di chi parla dell’avvento di una nuova era. Almeno quella della giustizia sociale e e della democrazia.

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Sindrome da Primo Giorno di Scuola

 Sindrome da Primo Giorno di Scuola

Rieccoci. Dopo la lunga pausa vacanziera, riprendere orari e ritmi cosiddetti ” normali” è spesso un dramma sottovalutato. Certamente a soffrirne di più sono gli adolescenti, i più piccoli. Ma attenzione. Anche i più grandi possono nascondere o celare l’ansia del rientro. Inappetenza, malumore, nervosismo, stanchezza e mal di testa. Ecco i sintomi più comuni. Nei bambini si possono aggiungere anche mal di pancia e crisi di panico.

Se accompagnati da una preparazione di base, i genitori, possono facilmente fornire il giusto apporto per rendere facile il rientro ai ritmi invernali. Ma ai sintomi più comuni, e gestibili, dobbiamo aggiungere anche vere e proprie patologie. Come ad esempio la sindrome di Hikikomori ( dipendenza da  computer che si traduce in un vero e proprio isolamento sociale), o disturbi di apprendimento (dislessia e altri), oppure la paura di subire ( o ri-subire) molestie e atti di bullismo , o si sta vivendo un  momento di particolare fragilità emotiva che rende  impossibile l’idea di separarsi dall’ambiente familiare.

In questi ultimi casi è sempre consigliabile  l’intervento esterno, in sintonia con la famiglia, per risolvere nel migliore dei modi il problema. Ma in ultima analisi, è sempre il giusto rapporto e il giusto comportamento dei familiari, che dà l’equilibrio per affrontare le ansie e la sindrome da primo giorno di scuola.

Un rapporto  corretto e bilanciato, pone al centro la comunicazione. E l’isolamento, purtroppo presente oggi in modo allarmante, all’interno delle mura domestiche, impedisce la pratica della conversazione. La conversazione è ciò che arricchisce da sempre l’uomo, con la parola, con il linguaggio della quotidianità,  con il quotidiano scambio di esperienze, pensieri, affetti. E all’interno della famiglia, in primo luogo, si creano i presupposti per la costruzione della persona umana, dei progetti di vita e tutto.

La relazione familiare, la conversazione matura, il rendere partecipi  e rendersi disponibili al confronto, il misurarsi coscientemente e con chiarezza, giornalmente, sulla quotidianità e della quotidianità , senza preconcetti e con naturalezza, previene qualunque stress.

L’argomento è complesso nella sua semplicità. Spesso basta solo un piccolissimo sforzo, in particolare dal lato genitori, per ottenere risultati eccellenti. E non dimenticate che spesso, la soluzione, sta nel saper dare le motivazioni. Una piccola motivazione può risolvere un grande problema.

Ecco il racconto di un genitore M.G.:

“L’anno scorso, siamo all’inizio dell’anno scolastico 2011/2012,nell’ultima settimana di agosto, terminate le vacanze al mare,  mio figlio cominciò ad avere dei malesseri che non riuscivo a comprendere appieno. Taciturno, un pò triste, con poca voglia di uscire e anche agli amici  raccontava senza tanto entusiasmo i giorni della sua estate. Da premettere che era uno strano comportamento e ho faticato non poco per riuscire a instaurare un discorso approfondito. La cosa che mi apparve evidente era il cambio discorso appena si accennava all’apertura della scuola. L’inizio seconda media è un anno difficile per i ragazzi. Hanno appena superato l’impasse del salto dalle elementari, ma si ripresentano le paure tipiche del primo anno. Pian piano riuscìi a capire che non aveva ancora superato la paura di quella cosa di cui tutti abbiamo paura: la matematica. Arrivai al punto, con molta pazienza, di fargli spiegare i motivi dei suoi timori, che non erano affatto legati a paura dell’insegnante, adesso prof e non più maestra o maestro, ma alla reale difficoltà di poter seguire, con serenità, argomenti che gli apparivano molto più complessi, rispetto alle semplici regole imparate forzosamente alle elementari. Sembrerà strano, ma a queste paure sono soggetti molti ragazzi della sua età.

A questo punto, ho solo cercato di rassicurarlo, sia sulle sue capacità, sia sul supporto che avrebbe avuto non solo dall’insegnante, ma soprattutto nella sua famiglia.

In realtà ero molto preoccupato anche io. Lo sappiamo tutti che il calcolo, il computo, sono sempre state le bestie nere di tutte le generazioni. A parte qualcuno che abbiamo sempre considerato ” un mostro “. A quel punto ho cercato di saperne di più su come intervenire. E dal confronto, sia con  insegnanti, che amici e  conoscenti, la conclusione a cui arrivavo era: trovare una motivazione. Cioè riuscire a motivare mio figlio, facendogli superare il duro scoglio, croce di generazioni.

Anche la rete sembrava non darmi giuste indicazioni. Psicologi, studiosi, siti specializzati. Poi ecco la soluzione. Già pronta. Strana, affascinante, incredibilmente semplice.  In una scuola del centro italia era attivo un piccolo progetto sulla matematica, basato su un manualetto che sembra un’illuminazione. Un metodo diverso, antico quanto nuovo, di fare calcoli a mente, con pochi semplici passi. Risolvere le operazioni base senza tanti fronzoli e metodi aggressivi.  Divertente quanto semplice nel risolvere moltiplicazioni e radici quadrate, divisioni e sottrazioni con regolette così semplici da sembrare banali. Facilissimo da apprendere anche per piccoli.  Mi sono informato con l’insegnante e mi ha fornito questo link: Io Il Genio Della Matematica

Dopo essermi fornito del manualetto e iniziato la lettura,  il flash. Sono rimasto colpito. Ho chiamato mio figlio per farlo partecipare. Iniziata la festa. In una settimana tutta la famiglia era coinvolta. Facevamo le gare a chi rispondeva prima a quanto fa 96 X 94, 107 X 92, la radice quadrata di 2704….

La scuola è iniziata, mio figlio non vedeva l’ora di incontrare il suo insegnante di matematica per confrontarsi con lui ( addirittura) … Beh, la motivazione l’ho trovata, e non solo per lui.

A volte basta solo avere un poco di pazienza.”

Ed essere un genitore attento aggiungo io.

 

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