Disparità e disuguaglianze in una Italia povera

Disparità e disuguaglianze in una Italia povera

clochard

Una delle cose più sottovalutate in Italia è probabilmente la disparità sociale, con ciò che le ruota attorno; col passare degli anni, abbiamo assistito a un accrescersi delle diseguaglianze, con tutto ciò che ne consegue. Ma appunto: cosa ne consegue?

Sono proprio le conseguenze a essere sottovalutate, con pericolosi rischi per la stabilità sociale.

Innanzitutto va detto che mai le diseguaglianze sono state così ampie, e sono andate acuendosi a partire dalle riforme liberiste degli anni Settanta, che si sono mischiate alla scoperta dei primi limiti fisici, ovvero ambientali, della crescita “materiale”. Non solo era finito il modello di crescita keynesiano, ma il modello di sviluppo del boom industriale si stava avviando verso una saturazione del mercato dei beni durevoli e a uno scenario di scarsità di risorse, ovvero di aumento dei prezzi delle materie prime.

Questo ha conseguenze non secondarie: mentre prima le teorie neoliberiste del “dare i soldi ai ricchi affinché possano spendere”, seppur smentite agevolmente dalla teoria macroeconomia keynesiana, potevano apparentemente funzionare all’interno di un trend di crescita continua, veloce e inarrestabile, il rallentamento dell’economia le ha esposte a tutti i loro limiti.

Mentre il potere d’acquisto dei salariati diminuiva, la rendita del capitale (il profitto) aumentava a dismisura, portando all’incremento delle diseguaglianze. Mentre prima la “classe media” rincorreva rapidamente i “ricchi”, riducendo il distacco mentre tutti diventavano più ricchi, si è passati a una classe di “super-ricchi” che aumenta sempre di più il distacco dal resto della società, mentre le fasce basse della società non solo non stanno al passo coi ricchi e super-ricchi, ma retrocedono: i salari calano, la disoccupazione aumenta e il potere d’acquisto cala.

La situazione è evidementemente grave: mentre una parte della popolazione diventa sempre più povera, e la spesa pubblica necessaria all’assicurazione di standard minimi di dignità e vita cresce ancora di più, un’altra parte accumula sempre più reddito e ricchezza. 

Accumulo che avviene per motivi naturali: ottenuta una posizione, questa vuole essere conservata, e dal momento che il reddito appare incerto, l’unico modo per sentirsi “sicuri” è mettere da parte un patrimonio tante, tante volte maggiore del reddito stesso. E questo è un patrimonio improduttivo: se fosse investito, ci sarebbe il rischio di perderlo. Ma questo sottrae inevitabilmente ricchezza al resto della società, che paga in diversi modi:

 

  • Nella tendenza a incrementare il profitto, calano i salari, ovvero il potere d’acquisto. Le famiglie diventano sempre più povere, ma spesso in modo graduale, il che produce una distorsione nell’analisi della situazione. La capacità di risparmiare si annulla.
  • Le famiglie continuano a fare quello che facevano prima, ovvero a indebitarsi per acquistare beni particolarmente costosi; anzi, dal momento che non riescono più a risparmiare, ricorrono sempre più spesso a mutui o acquisti a rate.
  • I “capitalisti”, intesi come gli investitori di capitale, ragionando sul profitto immediato e personale, investono dove il costo del lavoro è minore per aumentare i profitti. In questo modo, però, fanno tracollare il potere d’acquisto nel paese natio, senza crearne altrettanto nei paesi dove delocalizzano. Così, nel medio periodo, le loro aziende perdono profitti in quanto nessuno nel paese d’origine può permettersi di acquistare i prodotti che prima vendevano.
  • Quando il potere d’acquisto è tracollato, senza che nessuno ne abbia tenuto conto, i consumi crollano. Inizia una crisi come quella odierna. Crisi di minore entità si sono verificate per tutti anni ’90 e nei primi anni nel nuovo secolo, ma su scala nazionale, tutte sopratutto come crollo delle Borse e bolle edilizie: si era continuato a speculare e costruire senza tener conto che le famiglie non sarebbero più state in grado di acquistare.

Una crisi in cui in un primo momento a pagare sono soprattutto coloro che non hanno delocalizzato, e quindi “nostri” salariati e imprenditori, ma che a seguire causano un collasso anche del mercato da esportazione estero: pensiamo alla Cina, che non riesce più a vendere molte merci perché noi europei non riusciamo più ad acquistarle.
Non dimentichiamo poi altri prodotti della povertà: cresce la spesa pubblica perché cresce l’uso dei beni pubblici a discapito di quelli privati e gli ammortizzatori sociali necessitano di nuovi fondi;diminuiscono le entrate perché il crollo dei redditi, dei consumi e della produzione causa un crollo del gettito fiscale. Si reagisce spendendo in deficit, senza ricordarsi di riportare il bilancio in attivo nei periodi di crescita (in questo i Paesi scandinavi sono stati molto accorti), oppure con l’austerity, tagliando la spesa e aumentando le entrate, generando nuova povertà.

Proprio qui è la questione sociale: un travolgimento, uno scivolamento verso il basso di buona parte della società, che a causa della ricerca di enormi profitti porta molti a perdere sia il lavoro che i profitti, e pochi ad accumulare ricchezze esagerate.

Anche per questo bisogna distinguere “crescita” da “sviluppo”: mentre quest’ultimo è un reale progresso della società, la prima indica semplicemente un incremento di alcuni dati macroeconomici. Un paese può crescere senza che la sua popolazione diventi più ricca, se tutta la nuova ricchezza viene fagocitata da pochi ricchi sempre più ricchi.

Si rischia una frattura sociale, un ritorno a una situazione di poveri poverissi e ricchi ricchissimi, come la Francia del ‘700, dove c’era la società aristocratica e quella “popolana” che non avevano nulla da condividere. Ancor più grave, si rischia che questa frattura sia male interpretata, e che diventi uno scontro generazionale: il nuovo contro il vecchio, anziché gli impoveriti contro gli accumulatori.
Forse è proprio questo il paradosso della questione sociale e la vera vittoria del liberismo: oggi, i giovani chiedono principalmente lo smantellamento dei privilegi dei “vecchi”, e non di ciò che ha creato questa disparità di trattamento.

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Flessibilità del mercato del lavoro. La favola del protezionismo.

Flessibilità del mercato del lavoro.

La favola del protezionismo.   WorkersRidurre le protezioni dei lavoratori italiani non serve a rilanciare la crescita. Perché è dimostrato che la flessibilità del mercato del lavoro non accresce l’occupazione; perché il mercato del lavoro italiano non è certo più rigido della media europea; perché non è vero che i nostri lavoratori a tempo indeterminato sono più protetti di quelli tedeschi o francesi. Ridurre i diritti dei lavoratori può solo allargare la precarietà e portare a ulteriori riduzioni salariali; certo non serve a rimettere in moto l’economia. La Repubblica.it, 25 ottobre 2014 (“Contratti e protezione dei lavoratori: Italia meno rigida della Germania”, di Raffaele Ricciardi) L’analisi di Realfonzo: secondo i dati Ocse i contratti a tempo indeterminato italiani proteggono i lavoratori meno di quanto accada in Germania o Francia. Anche guardando alla sola voce del reintegro, centrale nella disputa sull’articolo 18, il mercato tedesco è più rigido. MILANO – E’ vero che i lavoratori italiani sono superprotetti? Per alcuni economisti no, anzi il sistema italiano è molto meno rigido di quelli additati come modelli da seguire, a cominciare dalla Germania. Tanto che si può parlare di “favola della superprotezione”. Uno dei sostenitori della tesi è Riccardo Realfonzo, dell’Università del Sannio, che ne ha scritto di recente sulla rivista economiaepolitica.it. Utilizzando i dati Ocse, che mettono a confronto i Paesi dell’area, si può ricostruire il grado di protezione dei lavoratori attraverso l’Employment Protection Legislation Index (Epl), a sua volta suddivisibile nell’indice che riguarda i contratti a tempo indeterminato (Eprc) e quelli a termine (Ept).L’Organizzazione parigina misura una sensibile riduzione dell’Epl nel corso dell’ultimo quarto di secolo e Realfonzo sottolinea che l’Italia è tra i paesi che hanno attivato maggiormente la leva della flessibilità, riducendo le tutele di oltre il 40%, dal valore 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013. Manca, in questa riduzione, l’impatto del decreto Poletti che verrà incluso dal prossimo anno, quando determinerà verosimilmente una nuova flessione dell’indice. Ma il dettaglio più interessante è la fotografia dei contratti a tempo indeterminato, che sarebbero appunto i “superprotetti” armati dell’articolo 18, con la tutela del reintegro in caso di licenziamenti illegittimi. tab1 La relativa graduatoria dell’Ocse sembra però smentire la tesi di un mercato estremamente ingessato in Italia, che come si vede si pone alle spalle di Paesi quali Germania e Francia. L’analisi dell’economista si fa più stringente quando si scompone l’indicatore di protezione dei lavoratori assunti a tempo indeterminato nelle sue voci. Le componenti dell’indice di protezione(fonte Ocse) tab2 Limitando lo sguardo al reintegro, quello disciplinato proprio dall’articolo 18, emerge un livello inferiore di protezione rispetto alla Germania. Nel complesso, le voci della “difficoltà di licenziare” sono comunque maggiori rispetto all’economia tedesca, ma inferiori di quella francese. “Questi dati non devono stupire”, dice Realfonzo “anche perché colgono l’evoluzione della normativa italiana e il pesante depotenziamento del principio del reintegro nel nostro Paese, cui abbiamo recentemente assistito. Il riferimento è naturalmente alla cosiddetta ‘riforma Fornerò del 2012. Il database Ocse registra infatti che, a seguito di quella riforma, l’indicatore del grado di protezione relativo al reintegro è passato dal valore 6 degli anni precedenti (il più alto della scala) al valore 2 del 2013, scendendo al di sotto del dato tedesco”. Da qui l’idea di una “favola dei superprotetti”.Per l’economista, questa analisi s’intreccia con le scelte che il governo ha fatto anche in sede di definizione della Legge di Stabilità. “Non è dimostrabile che il taglio dell’Irap, la decontribuzione delle nuove assunzioni, da associare alla maggiore flessibilità in uscita, siano da stimolo agli investimenti privati”. Per Realfonzo, che condivide una netta posizione neokeynesiana, “sono manovre finanziate con il taglio della spesa pubblica: si rinuncia a un certo volano di sviluppo (la spesa) per qualcosa di incerto. Quello che servirebbe è investimento pubblico, considerando che dal 2007 l’ammontare di questa voce si è ridotto del 30%”.Anche la previsione che la decontribuzione triennale dei nuovi tempi indeterminati possa generare 800mila assunzioni, per Realfonzo “è infondata”. L’obiezione alla richiesta dell’economista di aumentare la spesa pubblica è ovvia: l’Europa non lo permetterebbe, visto che già chiede correttivi per limare maggiormente il deficit strutturale rispetto alle previsioni della Stabilità. “In realtà si dovrebbe avere più coraggio, infrangere anche la soglia del 3% del deficit/Pil e azzerare l’avanzo primario perché allo stato c’è solo un’attenuazione dell’austerità, ma non un cambio di passo”. – See more at: http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-sindacato/25-ottobre-la-battaglia-per-i-diritti-continua/#sthash.SBSPLC3x.dpuf

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Partire dal lavoro per rimettere in moto l’economia

Partire dal lavoro per rimettere in moto l’economia

Luigi Pandolfi – 21 ottobre 2014

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Crisi, crescita, occupazione. E’ il trinomio che va per la maggiore nell’analisi della “situazione reale” oggigiorno. C’è da chiedersi, però: qual è l’effettiva relazione tra i tre termini? Viene prima la crescita e poi, di conseguenza, l’occupazione oppure è la stessa occupazione che può innescare processi di crescita? Ancora: c’è sempre una correlazione funzionale tra crescita ed occupazione oppure si può avere crescita senza occupazione? Domande non retoriche, che rimandano alla speciale situazione che ha generato la grande crisi in cui ancora siamo immersi ed a questa nuova fase del capitalismo nei paesi cosiddetti avanzati. Se ci riferiamo, nello specifico, ai paesi Ue o, per ragioni di ulteriore omogeneità fiscale, a quelli dell’Eurozona, non c’è dubbio che diverse politiche pubbliche, espansive, avrebbero potuto, già nel breve periodo, favorire un incremento apprezzabile della ricchezza nazionale, quindi anche dell’occupazione. Ipotesi non scontata, tuttavia, soprattutto se ci si riferisce al recupero dei posti di lavoro persi negli ultimi anni[1] (jobless recovery). Ci sono fattori, come l’innovazione tecnologica, l’aumento della produttività del lavoro, le delocalizzazioni produttive, cambiamenti nella struttura produttiva di un paese indotti dalla stessa crisi, disallineamenti tra domanda ed offerta di lavoro, che, da questo punto di vista, potrebbero agire da freno ad una ripresa occupazionale anche in presenza di una crescita dell’economia. Nel caso europeo è ormai conclamato, in ogni caso, che a frustrare il mercato del lavoro, anche nei paesi dove ci sono stati segnali di ripresa dell’economia, è stato soprattutto il crollo della domanda aggregata per effetto delle politiche di austerità. La controprova è data dal caso americano. Com’è noto gli Usa hanno reagito alla crisi con misure di stimolo all’economia (quantitative easing) che, ad oggi, hanno rivelato una certa efficacia: Pil in crescita e tasso di disoccupazione (a settembre sotto il 6%) a livelli pre-crisi (10 milioni di nuovi occupati in 5 anni). Dati che, al di là della qualità dei nuovi posti di lavoro creati, danno l’idea di come politiche monetarie espansive, investimenti pubblici in settori chiave (ARRA, American Recovery and Reinvestment Act), un’oculata gestione del credito, possano rivelarsi molto efficaci nel contrastare il ciclo economico negativo. L’Europa potrebbe emulare, seppur tardivamente, gli Stati Uniti? No, almeno nelle condizioni date. Non potrebbe farlo perché l’Europa non è uno stato sovrano, con una banca centrale che, come la Fed, ha nella sua mission il perseguimento della piena occupazione mediante la conduzione della politica monetaria. Affrontare in termini europei il tema della disoccupazione presenta poi un altro inconveniente: la disomogeneità del dato relativo, paese per paese. Si va dal 4,8% dell’Austria al 26,4% della Grecia (Germania al 4,9%)[2]. E’ evidente che da parte dei vari partner non potrà esserci la stessa “sensibilità” per il problema. D’altro canto l’Europa è l’Europa degli stati che la compongono, non un’entità politica, men che meno uno stato federale (utopia?). Eppure in alcuni paesi, tra cui l’Italia, quello della disoccupazione è ormai una piaga sociale di dimensioni insopportabili. Da noi, com’è noto, il tasso di disoccupazione è vicino al 13% (giovanile oltre il 44%)[3], un esercito di oltre 6 milioni di persone. Al sud siamo ai livelli di Spagna e Grecia: 21,7% nel primo trimestre del 2014 (giovanile al 60,4%). Se guardiamo al tasso di partecipazione alla forza lavoro (Forza lavoro/ Popolazione attiva), l’Italia, con il 49%, si colloca agli ultimi posti nella classifica mondiale dei paesi più avanzati[4]. In breve: nel “bel paese” una quota significativa della popolazione ha rinunciato del tutto a ricercare un posto di lavoro regolare. Questi dati, letti in relazione all’andamento dell’economia ed alle stime future sul Pil (il paese e ritornato in recessione; per il 2014 si prevede un calo del Pil dello 0,3%, mentre per il 2015 è atteso un misero +0,6%[5]), ci dicono che per i prossimi anni una ripresa occupazionale, e il recupero dei posti di lavoro persi dall’inizio della crisi (rispetto al 2007 nel nostro Paese la percentuale dei senza lavoro è più che raddoppiata), non potranno verificarsi, automaticamente, per effetto di una crescita che, quantunque ci fosse, sarebbe, come lo stesso governo ammette, nell’ordine dello zero virgola. Anche dando per scontata, in linea teorica, una consecutio tra crescita ed occupazione, se ne deduce, pertanto, che tale circostanza non potrebbe verificarsi nel breve periodo per l’assenza o l’insufficienza di uno dei due termini. Che fare, allora? Certamente non quello che ha in mente il governo in carica: ancora flessibilità nel mercato del lavoro e riduzione di tasse per le imprese (del bonus degli 80 euro è inutile parlare, vista l’asimmetria tra costi e ricadute). Come se il poter licenziare più liberamente ovvero il pagare meno tasse potessero compensare il crollo della domanda interna che si è registrato in questi anni. Eppure non è difficile capire che il lavoro dipende dal fatturato delle imprese: se nessuno compra per chi si produce? Perché investire ed assumere? Due potrebbero essere le strade, dunque: aumento della spesa pubblica per investimenti o creazione diretta di lavoro da parte dello stato. In entrambi i casi si agirebbe dal lato della domanda, con la differenza che nel secondo caso sarebbe proprio il reddito da lavoro a sostenerla, innescando, di conseguenza, un processo di crescita dell’economia. Beninteso, le due opzioni potrebbero camminare di pari passo, ma non c’è dubbio che per il tempo perso in questi anni, per l’ampiezza del fenomeno disoccupazione e per le condizioni generali della nostra economia (deflazione, recessione) alla seconda andrebbe data, a questo punto, la prevalenza. E la risorse? Anche qui le strade sono due: spesa in deficit, anche con sforamento del tetto del 3%, e utilizzo mirato dei fondi europei. Proprio la nuova programmazione dei fondi strutturali per il sessennio 2014-2020 potrebbe costituire l’occasione per canalizzare considerevoli risorse comunitarie verso l’obiettivo della creazione diretta di nuovi posti di lavoro. D’altro canto la «promozione di un’occupazione sostenibile e di qualità» e «la lotta alla povertà ed alla discriminazione» costituiscono gli obiettivi prioritari della nuova politica europea di coesione[6]. L’ammontare delle risorse finanziarie destinate ai 28 Stati membri per il periodo di riferimento è pari a 325 miliardi di euro, tra Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), Fondo sociale europeo (FSE) Fondo di coesione (FC) ed altri strumenti per iniziative a favore dell’occupazione giovanile. All’Italia spettano circa 30 miliardi di Euro, ai quali si aggiungono 24 miliardi che il governo ha messo nella legge di stabilità per la quota di cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali e 54 miliardi che vanno a costituire la dotazione Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (exFondo per le aree sottoutilizzate, FAS). Si tratta di risorse ragguardevoli, che, al netto della quota da destinare necessariamente ad interventi infrastrutturali, alla ricerca ed alla formazione, potrebbero essere concentrate in un grande piano decentrato (su base regionale, ma con una cabina di regia nazionale) per il reclutamento diretto di almeno un milione di persone, nel settore ambientale e del riassetto del territorio, in quello dei beni culturali e dell’assistenza alla persona. Un’operazione che farebbe ripartire i consumi e l’economia, inducendo di nuovo le imprese ad assumere (effetto moltiplicatore). Al punto in cui siamo, l’unica operazione che potrebbe dare risultati in tempi brevi e dare una scossa al paese

 

[1](ILO, International Labour Organisation), Global Employment Trends 2014: The risk of a jobless recovery/Report/21 January 2014 [2] Fonte: Eurostat

[3] ibidem

[4] Fonte: ILO, International Labour Organisation

[5] Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, Nota di Aggiornamento del DEF 2014

[6] Guida sui Fondi strutturali europei 2014-2020/ http://ec.europa.eu/ 

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Area Euro. Deflazione o LowFlation ?

Area Euro. Deflazione o LowFlation ?

Il 4 Marzo 2014, su IMF diect, è stato pubblicato un interessante aricolo sull’area euro che metteva in risalto alcuni punti salienti della bassa inflazione e sulla deflazione. I redattori Reza Moghadam , Ranjit Teja  e Pelin Berkmen, hanno fatto una documentata analisi con la quale cercano di far capire come la bassa inflazione e una lieve deflazione, possa contribuire al rilancio o quanto meno, alla possibilità di rilancio economico nel medio lungo periodo.  Chiaramente, a distanza di mesi e con il perdurare della così detta ” lowflation “, non solo in alcuni paesi periferice come l’Italia, si è entrati in vera e propria deflazione, ma si è dimostrato che la lowflation ha gli stessi effetti della deflazione.

Anche Paul Krugman aveva contestato questo studio, e adesso ne abbiamo la prova, che l’Europa era già in una trappola lowflationary, qualitativamente lo stesso di una trappola deflazionistica. Riporto l’intero articolo con traduzione google, abbastanza comprensibile. Link all’originale QUI

 

Parlare di deflazione nell’area dell’euro ha suscitato due tipi di reazioni. Da una parte ci sono coloro che si preoccupano per la prospettiva associata di recessione prolungata. D’altro sono coloro che vedono il rischio come esagerata. Questo blog e il video qui sotto vagliare entrambi i lati del dibattito per discutere il seguente: Anche se l’inflazione-headline e core-è caduto ed è rimasto ben al di sotto del 2% il mandato di stabilità dei prezzi della BCE, finora non vi è alcun segno di deflazione classico, vale a dire, di cali diffusi, auto-alimentazione, prezzo. Ma anche ultra bassa inflazione-chiamiamolo “lowflation”, può essere problematico per l’area dell’euro nel suo complesso e per i paesi finanziariamente stressati, dove essa implica maggiori titoli di debito reale e tassi di interesse reali, al netto di adeguamento dei prezzi relativi, e una maggiore disoccupazione . Insieme con l’esperienza del Giappone, che ha visto la deflazione worm si nel sistema, questo sostiene la necessità di un approccio più preventivo da parte della BCE.

I. Esiste deflazione?

Mario Draghi ha descritto la deflazione nell’area dell’euro come una situazione in cui si verificano cali del livello dei prezzi (1) in un numero significativo di paesi; (2) in un numero significativo di merci; e (3) in modo che si autoavvera. Secondo questa definizione, il termine “deflazione” è probabilmente un’esagerazione. In primo luogo, sulla portata geografica, le recenti variazioni di prezzo sono stati positivi in ​​tutti, ma 3 paesi (rispetto a 12 paesi di recente, nel 2009). eur-update_feb2014_deflation-blog-002 In secondo luogo, per quanto riguarda l’incidenza attraverso beni e servizi, il calo dei prezzi definitive rappresentano solo un quinto del paniere dello IAPC – non una quota elevata e, di nuovo, non più rispetto al 2009, quando l’evento passò senza conseguenze deflazionistico. eur-update_feb2014_deflation-blog-003 In terzo luogo, è che c’è una inflazione corrente “si autoavvera” dinamica, nel senso che prevede che l’inflazione futura sta trascinando verso il basso? Qui la risposta è meno ovvia. Se per l’inflazione attesa in futuro intendiamo tassi a lungo termine, allora la risposta è no: l’inflazione atteso 5-10 anni fuori è piatta e quindi non potevano essere la causa del calo dell’inflazione corrente. Ma se consideriamo l’inflazione 2-4 anno di anticipo previsto, l’orizzonte temporale rilevante per molte decisioni di spesa e le trattative salariali, questi sono in calo e potrebbe essere che interessano l’inflazione corrente. Detto questo, l’inflazione effettiva è stabilizzata nel mese di febbraio al 0,8%. eur-update_feb2014_deflation-blog-004

II. Ma se non è “deflazione”, qual è il problema?

Nel contesto europeo attuale, anche molto bassa inflazione può far naufragare il recupero nascente e la pressione dei paesi più fragili. Problema # 1 Sia la deflazione e meno-che-precedentemente previsto l’inflazione aumenta l’onere reale del debito esistente ed il tasso di interesse reale che i mutuatari pagano. Come spesso accade, i paesi con la deflazione / inflazione bassa, segnato rosso nel grafico qui sotto, capita anche di essere quelli con oneri del debito già elevati tassi (privato + pubblico) e reali, e comprendono tutti i paesi che sono stati sotto pressione del mercato durante la crisi. eur-update_feb2014_deflation-blog-005

Problema # 2

Mentre deflazione / inflazione più bassi in paesi ad alto indebitamento è doloroso per loro, almeno migliora prezzi relativi, e quindi le esportazioni e sostenibilità delle partite correnti. Purtroppo, quando l’inflazione si trasforma basso ovunque nella zona euro, ogni unità di deflazione / bassa inflazione subita dai paesi indebitati offre meno adeguamento dei prezzi rispetto ai paesi eccedentari. Oppure, in altre parole, ogni punto di aggiustamento dei prezzi relativa deve essere acquistato a costo di una maggiore deflazione del debito. Problema # 3 Quando la domanda si riduce ei salari nominali sono appiccicosi, il colpo di disoccupazione è attutito da qualsiasi inflazione in corso, che riduce efficacemente i salari reali che le imprese pagano. Quel cuscino è ormai assolutamente necessario. In Spagna, si vede nella tabella che, dopo la crisi, la distribuzione dei salari sbattuto contro la barriera di zero, con il 30% della distribuzione concentrata lì. Dato salari nominali appiccicose, nei pressi di inflazione pari a zero in Spagna non aiuta a risolvere il problema della disoccupazione grave lì. eur-update_feb2014_deflation-blog-006III. Quali sono le lezioni dall’esperienza del Giappone? Ci sono almeno due.

Lezione # 1

Uno non dovrebbe prendere troppo conforto nel fatto che le aspettative di inflazione a lungo termine sono positive (oltre il 2% nell’area dell’euro). Aspettative di inflazione a lungo termine alla vigilia di tre episodi di deflazione in Giappone erano anche rassicurante positivi. Ma le aspettative più vicino termine girato più pessimista, alimentando la spesa e le decisioni dei salari e la distribuzione di deflazione reale. Le aspettative a lungo termine regolati troppo poco e troppo lentamente per essere una guida utile per la politica monetaria. L’asporto: non – così – le aspettative di inflazione a lungo termine, che abbiamo visto sono in calo nella zona euro, anche bisogno di essere tenuto in debita considerazione. eur-update_feb2014_deflation-blog-008 eur-update_feb2014_deflation-blog-009

Lezione # 2

Bisogna agire con forza prima serie di deflazione in. Come mostrato di seguito, la Banca del Giappone è stato relativamente lento nel ridurre i tassi ufficiali e far aumentare la base monetaria. Nel caso, si è dovuto ricorrere a sempre crescente stimolo, una volta impostato in deflazione (aree grigie ombreggiate nel secondo grafico). Due decenni, che lo sforzo è ancora in corso. eur-update_feb2014_deflation-blog-010 eur-update_feb2014_deflation-blog-011

IV. Conclusione

Si può avere troppo di una cosa buona, tra cui una bassa inflazione. Molto bassa l’inflazione può beneficiare importanti segmenti della popolazione, in particolare i risparmiatori netti. Ma nel contesto attuale dei diffusi problemi di indebitamento, si sta lavorando a scapito della ripresa nell’area dell’euro, soprattutto nei paesi più fragili, dove viene vanificando gli sforzi per ridurre il debito, recuperare competitività e affrontare la disoccupazione. La BCE deve essere sicuro che le politiche siano uguali ai compiti di invertire la deriva verso il basso dell’inflazione e prevenire il rischio di una diapositiva in deflazione. Si dovrebbe quindi considerare ulteriori tagli del tasso di politica e, soprattutto, cercare modi per aumentare sostanzialmente il suo bilancio, sia attraverso ORLT mirati o di quantitative easing (acquisti di asset pubblici e privati).

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18 segni che la crisi economica globale sta accelerando !!!

18 segni che la crisi economica globale sta accelerando !!!

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Un sacco di persone con cui parlo in questi giorni vogliono sapere “quando accadranno le cose  di cui vediamo i segni”. Beh, ci sono certamente alcuni tempi difficili all’orizzonte, ma tutto quello che dovete fare è aprire gli occhi e guardare per vedere la crisi economica globale dispiegarsi. Come si vedrà in seguito, anche i banchieri centrali hanno deciso di emettere avvertimenti spaventosi sulle “pericolose nuove bolle speculative” e perfino la Banca Mondiale sta dichiarando che “ora è il momento di prepararsi” per la prossima crisi.

La maggior parte degli americani tendono a prendersi cura solo di ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, ma la verità è che la grave difficoltà economica è in pieno svolgimento in Sud America, in tutta Europa e in potenze asiatiche come Cina e Giappone.

E i conflitti senza fine in Medio Oriente potrebbero sfociare in una grande guerra regionale in ogni momento. Viviamo in un mondo che sta diventando sempre più instabile. I seguenti 18 punti sono segni che la crisi economica globale sta accelerando e accadrà  nella seconda metà del 2014.

# 1 La Banca dei Regolamenti Internazionali(Bank for International Settlements) ha pubblicato un nuovo rapporto che avverte che “pericolose nuove bolle speculative” si stanno formando, che potrebbe potenzialmente portare ad un altra grave crisi finanziaria. I banchieri centrali sanno qualcosa che noi non sappiamo, o stanno solo cercando di dare la colpa a qualcun altro per il pasticcio gigante che hanno creato?

# 2 Argentina ha perso ed ha un pagamento del debito di 539 milioni dollari ed è sull’orlo del suo secondo default del debito importante in 13 anni.

# 3 La Bulgaria sta cercando disperatamente di calmare una corsa massiccia sulle banche che minaccia una spirale fuori controllo.

# 4 Il mese scorso, i prestiti per la casa in zona euro sono diminuiti al tasso più veloce mai registrato. Perché le banche europee tengono al loro denaro così tanto in questo momento?

# 5 Il numero di disoccupati in cerca di lavoro in Francia è appena salito a un nuovo record.

# 6 Le Economie di tutta Europa non stanno mostrando crescita o si stanno riducendo. Basta controllare ciò che un recente articolo di Forbes aveva da dire sulla questione.

Economia in Italia si è ridotta dello 0,1% nei primi tre mesi del 2014, corrispondenti alla media dei tre trimestri precedenti. Dopo l’espansione dello 0,6% nel 2 ° trimestre 2013, la Francia ha registrato una crescita pari a zero. Portogallo si è ridotto dello 0,7%, dopo i numeri positivi nei nove mesi precedenti. Anche se i dati non erano disponibili per la Grecia e l’Irlanda in Q1, nessuno dei due paesi sta mostrando progressi. PIL greco è sceso del 2,5% negli ultimi tre mesi dello scorso anno, e l’Irlanda zoppicando davanti allo 0,2%.

# 7 Pochi giorni fa è stato segnalato che i prezzi al consumo in Giappone stanno aumentando al ritmo più rapido degli ultimi  32 anni.

# 8  spesa per generi di prima necessità in Giappone sono in calo dell’8 per cento rispetto a un anno fa.

# 9 aziende statunitensi stanno annegando in enormi quantità di debito, ma la bolla del debito societario in Cina è così male che l’importo del debito delle imprese in Cina ha in realtà ormai superato l’ammontare del debito societario negli Stati Uniti.

# 10 Un revisore cinese avverte che fino a 80 miliardi di dollari di prestiti in Cina sono assistiti da transazioni in oro falsificati. Cosa si potrà fare per il prezzo dell’oro e la stabilità dei mercati finanziari cinesi appena scoppierà questa bolla?

# 11 Il tasso di disoccupazione in Grecia è attualmente assestato al 26,7 per cento e il tasso di disoccupazione giovanile è del 56,8 per cento. Come in Italia.

# 12 il 67,5 per cento delle persone che sono disoccupati in Grecia sono stati disoccupati da oltre un anno.

# 13 Il tasso di disoccupazione nella zona euro nel suo insieme è 11,8 per cento – solo timidamente più basso del record storico del 12,0 per cento.

# 14 La Banca centrale europea è così disperato per ottenere i soldi al punto di dover introdurre tassi di interesse negativi.

# 15 Il FMI sta prospettando che c’è una probabilità del 25 per cento che la zona euro scivoli in deflazione entro la fine dell’anno. In Italia lo si è già da 3 trimestri.

# 16 La Banca Mondiale avverte che “ora è il momento di prepararsi” per la prossima crisi.

# 17 Il conflitto economico tra gli Stati Uniti e la Russia continua ad aumentare. Questo ha causato che la Russia ha fatto una serie di mosse per prendere le distanze dal dollaro USA verso le altre principali valute. Questo avrà gravi conseguenze per il sistema finanziario globale.

# 18 Naturalmente l’economia americana sta lottando in questo momento . Essa si è ridotta a un tasso annuo del 2,9 per cento nel primo trimestre del 2014, che è molto peggio di quanto chiunque avesse previsto.

In questo momento, i cittadini del pianeta hanno più di 223.000 miliardi di dollari di debito, e “troppo grandi per fallire” le banche di tutto il mondo hanno almeno 700 miliardi di dollari di esposizione ai derivati.

L’intero sistema è uno schema di Ponzi intrinsecamente viziato che inevitabilmente è destinato a crollare sotto il proprio peso.
Ma si dovrebbe essere assolutamente folli pensare che la più grande bolla del debito nella storia del mondo non stia per scoppiare.

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Gli economisti deviati e la crisi del capitalismo

Gli economisti deviati e la crisi del capitalismo

Roberto Panizza* – 14 ottobre 2014 daEconomia e Politica

financecrisis

Ho letto su questa rivista l’articolo di John T. Harvey di cui condivido molte delle idee enunciate, iniziando dal fatto che l’economista Christine Romer, a capo del board del presidente Obama, è purtroppo condizionata dalla sua formazione neoclassica, simile a quella di molti di coloro che hanno contribuito – nell’arco degli ultimi anni, a partire dall’inizio del nuovo millennio – a innescare crisi drammatiche sia sul piano produttivo sia sul piano finanziario. Qualcuno addirittura sostiene che i loro risultati finali siano addirittura peggiori di quelli generati dalla Grande Depressione degli anni ’30, con la differenza che, mentre nel passato, le scelte del presidente Roosevelt e dei suoi collaboratori, come il britannico John M. Keynes o lo statunitense Adolf A. Berle, contribuirono a lanciare politiche pubbliche radicali, oggi non viene formulato nulla di innovativo e vengono soltanto peggiorate le già difficili condizioni economiche.
Il mio intento è quello, invece, di riscoprire il grande insegnamento dei classici, esaltando la loro avversione verso gli economisti ancorati a schemi molto limitativi, come evidenziato da Adam Smith quando si scagliò contro gli interessi monopolistici o quelli dei fisiocratici francesi, sostenitori esclusivamente del ruolo della natura, oppure dallo stesso David Ricardo che teorizzò infinite possibilità di soluzioni all’interno del commercio internazionale o, infine, da Ferdinando Galiani, oggi poco conosciuto ma che, nel 1751, enunciò le possibilità alternative nella gestione della moneta, a seconda delle differenti circostanze storiche.
Oggi, invece, gli economisti hanno spesso condizionato in modo negativo le scelte governative, contribuendo ad imporre, alle più prestigiose università dell’Occidente, modelli superati e distorsivi, fondati su schemi teorici astratti e dominati dalla preoccupazione esclusiva di definire i prezzi, tralasciando di cogliere l’importanza dei livelli di redditi o di altre variabili, come le interdipendenze strutturali, che vanno studiate simultaneamente a causa della complessità della realtà odierna. I loro modelli, praticamente, impongono in maniera elementare – già a partire dalla fine della seconda guerra mondiale – il mantenimento dell’equilibrio, della stabilità e della razionalità. E così che paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti sono stati progressivamente indeboliti rispetto a quando dominavano quasi tutto il mondo sviluppato, come ha avuto modo di evidenziare già J. Stiglitz nel suo libro Freefall (2010).
Negli Stati Uniti, in particolare, a partire dall’amministrazione Carter, venne insediato a capo della Fed, Paul Volcker, convinto monetarista che indebolì pesantemente – a causa degli alti tassi di interesse da lui praticati − l’economia statunitense, tanto da indurre il nuovo presidente Reagan, a sostituirlo con Alan Greenspan nel 1987.
Seguì l’adozione di una politica monetaria più accomodante: in effetti, qualche anno più tardi, questa decisione convinse Clinton a teorizzare la new economy, nel senso che le operazioni sui mercati finanziari avrebbero assicurato nuovi guadagni anche ai cittadini meno privilegiati, venendo utilizzati nel settore impiegatizio e lavorativo. Gli operatori dei mercati finanziari assicurarono una relativa stabilità per qualche anno, ma a fine mandato presidenziale le vendite dei titoli posseduti finirono per deprezzare le quotazioni, con ricadute preoccupanti sui mercati.
Non c’è dubbio che a dare il via al preoccupante declino siano state prima di tutto le regole imposte dai marginalisti e dai neoliberisti, a capo sia degli staff della Casa Bianca sia di altri governi occidentali, e anche da molti dei teorici keynesiani, che non furono però in grado di comprendere fino in fondo il grande insegnamento dell’economista di Cambridge.
Occorre ricordare che l’ultimo presidente americano a perseguire politiche di sostegno del sistema produttivo del suo paese fu Richard Nixon, indirizzato fortemente dal suo Segretario di Stato Kissinger, aprendosi al commercio internazionale con la Cina e con l’Unione Sovietica. Poi, un “provvidenziale” impeachment pose fine al consolidamento dell’economia statunitense, che finì per privilegiare, invece, investimenti finanziari e numerose guerre lunghe e costose. Tali scelte furono adottate anche dai paesi europei, e ciò si tradusse in uno smantellamento progressivo del sistema industriale dell’Occidente, con le imprese produttive, soprattutto più innovative, purtroppo cedute a capitali stranieri, in particolare cinesi. Non è più sufficiente oggi elogiare il ruolo della Silycon Valley o di qualche altra eccezione di carattere marginale; esse non sono più in grado, da sole, di sostenere l’intera economia mondiale, come a suo tempo già sostenuto da E. Todd, nel suo libro Dopo l’impero (2002).
Il mancato stimolo alla crescita delle attività produttive ha finito, nel tempo, con il privilegiare ulteriormente quelle finanziarie, fondate su un sofisticato complesso di modelli molto articolati tra loro, ma purtroppo costruiti sul nulla.
Questo sistema, non più legato alle attività reali della produzione, si è tradotto in scelte teoriche astratte non fondate su ipotesi valide, e nelle quali hanno finito per trionfare gli analisti che hanno creato potenzialità di investimenti: questi ultimi, anche se gestiti in modo egregio, hanno però garantito elevatissimi utili solo a coloro che erano già molto ricchi, impoverendo pesantemente, invece, i meno avveduti. Così mentre i privilegiati guadagnavano moltissimo, guidati nelle scelte di acquisti o vendite, gli altri investitori perdevano a dismisura, indebitandosi fortemente e creando condizioni di forte instabilità dei mercati. Masse enormi di denaro (circa 500mila miliardi di dollari) venivano accumulate negli anni: mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna smantellavano il loro sistema industriale, i loro mercati borsistici disponevano di risorse di 10 o addirittura 20 volte maggiori dei Pil dei loro paesi. Mentre esplodevano la disoccupazione e la povertà, e si registrava la caduta delle quotazioni degli immobili, una sparuta minoranza di grandi privilegiati, grazie ai sotterfugi e agli imbrogli degli operatori della finanza, accumulava quantità enormi di ricchezze: questa arroganza può ancora portare al rischio che si possano verificare, nel prossimo futuro, e come già previsto sempre da Stiglitz, massicci cedimenti di questi mercati.
Purtroppo non ha retto la speranza di sostenere operazioni speculative su tali titoli, poco credibili nella sostanza. E’ proprio questo il timore di coloro che non credono in questo tipo di manovre non fondate su strutture reali. Le minacce di tali crolli, come è stato spiegato da pochi analisti ben informati, sono molto elevate e le conseguenze preoccupanti, dato che i paesi capitalistici occidentali sono privi di una effettiva struttura produttiva in grado di affrontare la crisi e di far ripartire la crescita.
E’ mia convinzione che le scelte sbagliate condotte da economisti “deviati” da modelli astratti e avulsi dalla realtà, stiano contribuendo a minacciare il mantenimento dello stesso sistema capitalistico, così come inteso nel mondo occidentale. Questi anni di crisi, che hanno progressivamente indebolito tutte le prospettive di crescita del nostro sistema economico (e i dati positivi dell’attuale economia statunitense sembrano un po’ sopravvalutati) non hanno indotto gli economisti a intervenire per modificare radicalmente i loro insegnamenti. Continuare a proporre modelli di stabilità è deleterio quando – in realtà –sempre più frequentemente si diffondono condizioni di disequilibrio. Inoltre, di fronte ai crolli dei mercati borsistici, come possiamo ancora illuderci che si ritrovino i vecchi equilibri? Così come appare illusorio parlare di una razionalità dei soggetti economici che spesso non sono più in grado, data la complessità dei mercati, di operare in modo corretto.
D’altra parte, dato il ripetersi, come in questi giorni, di crolli di Borsa e il permanere di criticità molto gravi, gli economisti non possono continuare a riproporre modelli teorici che non rispondono più alle nuove realtà dei nostri tempi: con essi e con le loro astrattezze non si può pensare di risolvere le crisi.
*Ordinario di economia internazionale nell’Università di Torino

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Mediopoli, terra di tutti, terra di nessuno.

Mediopoli, terra di tutti, terra di nessuno.

Dal blog di Sergio Di Cori Modigliani.

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L’importanza di quanto scritto merita di essere riportata per la massima diffusione. Come anche gli altri bellissimi scritti che invitiamo a leggere.

di Sergio Di Cori Modigliani

Abbiamo avuto tangentopoli, poi abbiamo avuto calciopoli, poi abbiamo avuto il bunga bunga, poi la serie dei tesorieri allo sbaraglio. Purtroppo, il cittadino italiano medio ha incorporato -giustamente- l’idea (in maniera più o meno inconscia) che il marciume in questa nazione è ormai endemico, strutturale, ne compone la spina dorsale, e quindi, per poter sopravvivere, ha prodotto un sistema immunitario psicologico di salvaguardia dei limiti minimi di tolleranza, per cui quando qualcuno urla allo scandalo, come reazione alla richiesta di arresto dell’on.Pinco o dell’on. Pallino, la reazione è “Ah!” e si ritorna a occuparsi delle proprie mansioni esistenziali.

Chi mi segue sa che non sono certo tenero con i miei connazionali, ma questa volta devo dire che questa assuefazione al ribasso, questa indifferenza alla quotidiana sequela di denunce, non è imputabile solo al cinismo degli italiani, a mancanza di sensibilità o alla scarsa consapevolezza sulle nostre mestizie paesane. La responsabilità sta anche nei media, nella loro gestione, nella loro espressione, nella loro permeazione.
E’ quella che di solito definisco “cupola mediatica”, a ben donde.

In teoria, mediopoli, potrebbe essere la grande mamma di tutti gli scandali.
Tranquilli, non si verificherà mai.
E’ una mamma che è già stata sterilizzata e quindi non partorirà mai.
Lo si può comprendere anche intuitivamente.
Come sarebbe mai possibile che venissero diffuse delle notizie tali per cui, automaticamente, chi le diffonde finisce in galera, oppure -se va bene- licenziato e quindi disoccupato, chi lo sa per quanto?
Da questo punto di vista bisogna ammettere che hanno gestito molto bene i meccanismi di esercizio di potere e di produzione di consenso in questo paese.
Quelli che noi amiamo definire “i poteri forti” gongolano e dormono sogni tranquilli.
Essi sanno, con certezza matematica, che tanto più si diffonde in Italia la corruttela, la malafede, la produzione di falsi ben congegnati nel campo dell’informazione di massa, tanto più saranno in grado di controllare le leve di potere nel nostro paese, riuscendo ad assumere un Monti al posto di Berlusconi oppure un Letta al posto di Monti, quando a loro serve ed aggrada.
Chi mai potrebbe avvertire la cittadinanza di ciò che accade se i media sono pilotati?
Quindi, mediopoli, non si verificherà mai.
E’ bene saperlo.
E non è saggio coltivare illusioni infantili.
Nel frattempo, ciò che è possibile fare, è condividere e dibattere sulla necessaria comprensione di alcuni meccanismi per allargare sempre di più lo spettro della consapevolezza e quindi diminuire sempre di più lo spazio dell’inganno collettivo ai danni della collettività.
E’ il motivo per cui siamo a livelli così bassi (l’ultimo paese dell’Unione Europea) per quanto riguarda la libertà di stampa in Italia.
In verità, la maggior parte delle persone non si rende conto della gravità del fatto, di quanto incida nel peggiorare il quadro economico, lo scenario politico dei diritti, distruggendo ogni possibilità di ripresa.
Ufficialmente si può parlare di tutto, il che è vero.
Il punto non sta in ciò che viene detto, bensì in ciò che non viene detto.
E per quanto riguarda ciò che viene detto, “come” viene detto e “perché”. Vi cito un brevissimo esempio: questa mattina ho acceso la televisione su Rainews24, e in basso, sulla striscia, orizzontalmente, passava la notizia che recitava così: “+0,7% la produzione industriale nel mese di agosto, prevale ottimismo in borsa”. Che notizia è?
Comunque, dopo circa un’ora, compare sul sito di borsa italiana il seguente comunicato
http://www.borsaitaliana.it/borsa/notizie/radiocor/prima-pagina/dettaglio/nRC_10102014_1228_272196995.html

INDUSTRIA: CSC, PRODUZIONE -0,2% SETTEMBRE, PEGGIORA CALO TERZO TRIMESTRE

A -0,6% e fermo il quarto trimestre (Il Sole 24 Ore Radiocor) – Roma, 10 ott – Il Centro studi di Confindustria stima un calo della produzione industriale dello 0,2% a settembre su mese (+0,3% mensile ad agosto). Nel terzo trimestre, si rileva una flessione della produzione dello 0,6% sul precedente, in ulteriore peggioramento rispetto al -0,4% che si era registrato nel secondo trimestre e al -0,1% nel primo. Il quarto trimestre eredita dal terzo una variazione congiunturale nulla

Secondo il CsC, si tratta di una dinamica “coerente con un marginale calo del Pil anche nei mesi estivi”.
bab

(RADIOCOR) 10-10-14 12:28:42 (0272)NEWS 3

Già messo così non si capisce niente, ma è già qualcosa.
Ma la notizia del giorno (vera bomba dal punto di vista mediatico) non viene commentata, se non all’estero e negli ambienti economici e finanziari di tutta Europa.
Si riferisce al fatto che Mediaset sta fallendo, che hanno già iniziato licenziamenti in massa di giornalisti, che la Mondadori sta precipitando e forse non c’è più nessuna possibilità di salvarla dal fallimento e che tutto ciò è il frutto di ciò che è accaduto negli ultimi 45 giorni di cui l’intero sistema mediatico italiano ha poco se non per nulla riferito.

Ciò che è accaduto è stato considerato talmente grave da spingere la BCE, la Francia, la Germania e il London Stock Exchange a intervenire sull’Italia questa mattina con il pugno di ferro della legalità.
Qui di seguito ho postato tre articoli apparsi oggi su questo evento clamoroso, uno sulla Reuters, l’altro su Milano Finanza e il terzo su Ilsole24ore, il quotidiano di Confindustria.
Vi posso dare una confortante notizia per la vostra autostima: se leggendo questi articoli vi preoccupate perché non capite niente, date retta a me, non avete nessun problema di comprensione. Sembrano scritti apposta per non spiegare, per non far comprendere, per impedire di fare le connessioni.

(Il Sole 24 Ore Radiocor) – Milano, 10 ott – Mediolanum in una nota prende atto del comunicato stampa di Fininvest, relativo al provvedimento di Banca d’Italia che prevede che Fininvest stessa inizi un processo per la dismissione della partecipazione in Mediolanum eccedente il 9,9%. Mediolanum mantiene e persegue la sua stabile e consolidata presenza nel mercato, cosi’ come avvenuta e riconosciuta in questi anni, forte della garanzia e della continuativa partecipazione della famiglia Doris, che detiene oltre il 40% delle azioni. Mediolanum proseguira’ la sua attivita’ nel rispetto delle strategie e dei principi che hanno sempre contraddistinto questo gruppo. In virtu’ del consolidato rapporto tra la famiglia Doris e Silvio Berlusconi esprimiamo totale solidarieta’ a quest’ultimo anche in questa circostanza.

com
http://www.borsaitaliana.it/borsa/notizie/radiocor/prima-pagina/dettaglio/nRC_10102014_0955_156928473.html
 

Bankitalia: Fininvest deve cedere oltre il 20% di Mediolanum. Berlusconi ha perso i requisiti di onorabilità

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-10-10/bankitalia-fininvest-deve-scendere-99percento-mediolanum–082326.shtml
Fininvest scenderà al di sotto del 10% nel capitale di Mediolanum. Lo ha annunciato questa mattina la stessa holding della famiglia Berlusconi come conseguenza al procedimento relativo all’iscrizione di Mediolanum nell’Albo dei Gruppi bancari e a seguito della sopravvenuta perdita dei requisiti di onorabilità in capo al proprio controllante indiretto Silvio Berlusconi.
È stata la Banca d’Italia, d’intesa con l’istituto di vigilanza sulle assicurazioni Ivass, ha disporre con provvedimento del 7 ottobre (pervenuto ieri) a disporre la dismissione della partecipazione in Mediolanum Spa eccedente il 9,9%. L’atto potrà anche avvenire mediante il conferimento in un trust ai fini della successiva alienazione a terzi entro 30 mesi dalla data della sua istituzione. A seguito di tale misura, viene meno l’efficacia del Patto di sindacato tra Fininvest e Fin.Prog. Sapa di Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum.In ballo azioni pari al 20% del capitale azionario
«Il Cda di Fininvest – si legge nella nota della holding – si riunirà per la valutazione e l’esame del suddetto provvedimento e l’adozione delle conseguenti deliberazioni, anche tenuto conto delle caratteristiche e dell’entità della partecipazione in oggetto e della rilevanza di Mediolanum Spa per il mercato, per i suoi clienti e per i suoi azionisti». Il provvedimento riguarda oltre il 20% del capitale della banca. La holding della famiglia Berlusconi ha infatti il 31,1 per cento. Immediata la reazione in Borsa, dove le azioniMediolanum cedono oltre il 2% in avvio di seduta (-1,4% per Mediaset). Il mercato si interroga probabilmente su quale destinazione prenderanno le azioni targate Fininvest: in passato, peraltro, lo stesso Ennio Doris aveva detto a più riprese di voler rilevare la quota in mano alla holding.Mediolanum: proseguiremo la nostra attività
In un comunicato in cui prende atto del provvedimento della Banca d’Italia, la stessa Mediolanum afferma di mantenere e perseguire «la sua stabile e consolidata presenza nel mercato, così come avvenuta e riconosciuta in questi anni, forte della garanzia e della continuativa partecipazione della famiglia Doris, che detiene oltre il 40% delle azioni».
«Mediolanum proseguirà la sua attività nel rispetto delle strategie e dei principi che hanno sempre contraddistinto questo gruppo», si legge ancora tra le righe del comunicato, nel quale si esprime anche «totale solidarietà» a Silvio Berlusconi nella presente circostanza.
http://it.reuters.com/article/topNews/idITKCN0HZ0GK20141010ROMA (Reuters) – 
di Stefano Bernabei.
Fininvest ha comunicato che dovrà dismettere la quota della sua partecipazione in Mediolanum che eccede il 9,9% in conseguenza delle disposizioni di Bankitalia, che ha applicato le nuove norme sui conglomerati finanziari e considerato la perdita dei requisiti di onorabilità di Silvio Berlusconi, indiretto controllante del gruppo assicurativo fondato con Ennio Doris.
Secondo una fonte vicina al dossier, entro tre mesi dovrà essere costituito il trust in cui conferire queste quote eccedenti, pari a circa il 20%, che poi dovranno essere vendute entro un massimo di 30 mesi, come dice anche la nota di Fininvest.
In una nota Mediolanum, del fondatore e amico di Berlusconi Ennio Doris, “prende atto” della notizia e esprime a Berlusconi “totale solidarietà anche in questa circostanza”.
Il titolo Mediolanum ha reagito con una forte flessione alla notizia e poco dopo le 10,30 perde il 3,6% a 4,9740 euro in un mercato debole. Alcuni analisti hanno detto di aspettarsi ancora tensioni fino a che non si chiariranno i termini di questa importante operazione di dismissione.
“Crediamo che la famiglia Doris [l’altro socio fondatore e azionista rilevante di Mediolanum] possa acquistare una quota, ma non superiore al 5% per l`ovvia esigenza di non concentrare tutto il patrimonio in un singolo asset”, commenta un analista che vede “un significativo overhang” sul titolo.
Anche Icbpi dice di aspettarso “pressioni sul titolo, in attesa che vengano chiariti termini e tempistiche”.
Devo dire che negli altri paesi -intendo dire quelli evoluti, cioè quasi tutti, se paragonati a noi- un evento come quello che descrivo è considerato inconcepibile, impossibile da verificarsi. Certamente ogni nazione ha i propri banditi, le proprie gatte da pelare, i propri polli illegali, le proprie miserie nazionali. Ma esistono dei parametri di riferimento collettivi che in tutto il pianeta Terra vengono (quantomeno formalmente) rispettati, o fatti rispettare, altrimenti si afferma la legge della giungla e vince soltanto il più forte, al di là della Legge.Tutto deve essere iniziato quasi due mesi fa, quando i ragionieri e i contabili di Berlusconi gli presentano i conti delle sue aziende. Una vera catastrofe. La perdita di potere politico, l’assottigliamento elettorale, l’affermazione del suo erede (il caro leader che sembra cresciuto alla sua scuola) hanno messo in ginocchio il suo impero, pieno di debiti, zeppo di buchi: aziende decotte. Basterebbe soltanto questo per dimostrare che non è (e non è mai stato) un grande imprenditore. E’ stato molto abile nel saper sfruttare i meccanismi di una società corrotta come quella italiana, ma quando si arriva a fare i conti con il concetto di “gestione aziendale dell’impresa” dove bisogna applicare i codici del mercato, va espressa la competenza tecnica e i manager utili non sono più i servi deferenti ma quelli in gamba che sanno fare il loro lavoro, lì crolla l’intera impalcatura.
Perché senza l’appoggio politico, Mediaset, Fininvest, Mondadori, dimostrano di non valere nulla.
Alla fine di agosto scatta quindi il piano, che appare viaggiare su tre linee: quella politica, dove si va dal caro leader e si accetta qualunque prezzo, qualunque richiesta, purché si garantisca che verranno varati specifici provvedimenti, come impedire di ripristinare il falso in bilancio, mettere il bastone tra le ruote dei magistrati che indagano e garantirsi una via d’uscita per le sue aziende. Renzi, con il suo consueto infantile cinismo va in brodo di giuggiole e il PD pure. La seconda linea è chiara e consiste nell’iniziare i licenziamenti, avvalendosi della complicità del settore mediatico, per fare in modo che non si sappia troppo in giro, non si faccia troppo clamore. E così viene lanciato il nuovo trend di mercato, lo chiamano “esternalizzazione razionale”.  A casa mia ha un altro termine: “schiavismo”. Vengono licenziati ben 232 giornalisti che percepivano una media di circa 50.000 euro l’anno, ai quali verranno poi proposti contratti a progetto, senza garanzie di durata e sottopagati. Tanto, grazie alla disoccupazione, c’è un tale esercito di riserva che basta fare un fischio e arrivano a migliaia, anche per meno di 12.000 euro l’anno.
Più aumenta la disoccupazione -e quindi la disperazione- tanto più si diffonde la cinesizzazione del lavoro (anche del lavoro intellettuale) e aumenta la possibilità di avere operatori che pur di guadagnare delle briciole, sono disposti a stare zitti, scrivere qualunque schifezza e applaudire qualunque obbrobrio raccapricciante. Non è più necessario usare le forme rozze e primitive, messe in atto dal partito fascista ai tempi di Mussolini, quando la dissidenza veniva bastonata e i riottosi obbligati con la violenza a bere l’olio di ricino.
Oggi sono più eleganti.
Pare che entro il mese di ottobre ne licenzieranno altri 500 e 6.000 entro la fine dell’anno.
La terza linea seguita è quella che verosimilmente ha fatto reagire gli ambienti finanziari europei e ha finito per produrre la dichiarazione di “disonorabilità e inaffidabilità” di Berlusconi, che tradotto vuol dire: “voi italiani non siete stati in grado e non avete voluto eliminare quest’uomo dal mercato, lo facciamo noi a nome vostro”. L’ordine, infatti, viene dall’Unione Europea, fortemente appoggiato da Mario Draghi, il quale ha dichiarato che “proprio in questi giorni in cui stiamo concludendo gli stress test dell’intero sistema bancario dei paesi componenti l’Unione Europea, non sono tollerabili atteggiamenti e comportamenti all’interno del sistema bancario e degli interventi privati in borsa che non siano perfettamente in linea con i parametri legali determinati dall’unione bancaria”.
Tradotto vuol dire (il messaggio è indirizzato agli sciacalli che lui ben conosce): “signori, siamo in totale emergenza, quindi pochi scherzi e rispettiamo i codici”.
E così, il nostro Berlusconi lancia la sua campagna sul campo.
Gli dà una mano il  compagno di tante avventure, che si chiama Goldman Sachs. Ne hanno fatte tante insieme, coprendosi a vicenda e addirittura costruendo società miste, come nel 2006, 2007 e 2009 quando acquistarono Endemol, capitale Goldman Sachs e Mediaset (50% ciascuno) e poi rivenduta nel novembre del 2012 con Berlusconi stracotto e una massa debitoria intorno a circa 6 miliardi di euro di cui nessuno ha mai chiesto ragguagli in merito.
Non si dice mai di no a un vecchio socio.
E così, Goldman Sachs comincia a diffondere la voce -nel senso che invia per iscritto delle note ai propri facoltosi clienti- che attribuisce a mediaset una imminente resurrezione in borsa e fa abboccare anche Morgan Stanley e poi ci entra anche J.P.Morgan e alla fine di agosto sono tutti pronti e danno il titolo (viaggiava allora intorno ai 2,90 in borsa) a 4/4,50 euro ad azione per la fine di settembre. L’annuncio viene spalmato in tutte le banche italiane dove alcuni solerti funzionari spiegano ai loro clienti la mervaviglia finanziaria dell’ultima ora. C’è un’unica azienda, tra quelle grosse che operano nel settore finanziario, che non accetta. Anzi. Va in contro-tendenza e alla fine di agosto diffonde un proprio comunicato in cui spiega ai propri clienti che investire sul titolo mediaset “è fortemente sconsigliato perchè si tratta di un valore azionario altamente speculativo e chi compra o vende lo fa a proprio rischio e pericolo”. Si tratta della più antica società di consulenza finanziaria del mondo. Ha sede a Francoforte e si chiama Beremberg. Ha una particolarità unica: è stata fondata intorno al 1526 dal Duca di Beremberg, un aristocratico della Sassonia. Sono trascorsi, da allora, 500 anni. In questi secoli, la proprietà non è mai cambiata. Ancora oggi, 2014, l’amministratore delegato è un Beremberg. Ha quindi una credibilità (se non altro per esperienza) altissima, essendo sopravvissuti a tutto ciò che è accaduto in Europa dal 1526 a oggi. E i tedeschi, gli olandesi, i danesi, gli australiani, e gran parte deglin imprenditori statunitensi se ne fregano di Standard & Poor’s, di Moody’s o del Fondo Monetario Internazionale; loro si rivolgono alla Beremberg & figli.
E così, nell’ambiente finanziario circola la voce di questo scontro tra colossi della finanza intorno al baldanzoso nome di mediaset.
Arriva quindi quella che considero la ciliegina sulla torta, la prima settimana di settembre, quando l’avvocato, legale rappresentante di Berlusconi, regala alla nazione il vispo annuncio che, secondo me, serve a sostenere l’intera baracca strategica di mediaset, ovvero: siamo lieti di annunciare che l’Alta Corte di Giustizia di Strasburgo ha deciso di prendere in esame l’intero incartamento relativo alla condanna dell’ex cavaliere perché hanno preso atto che esistono dei punti oscuri che vanno chiariti. In Italia viene diffuso un lancio d’agenzia e l’intero sistema mediatico lo condivide pigramente, senza commenti specifici. Va da sé che il titolo vola e da 2,90 sale a 3 e poi a 3,20 e 3,40, arriva fino a 3,60 e c’è chi sottoscrive contratti e paga anche 4,50 perché si è fidato dei colossi finanziari e della notizia. E così la mediaset raggranella qualche centinaia di milioni di euro sul mercato dei capitali. Quando arriva l’annuncio ufficiale della corte di Strasburgo, la quale dichiara di non aver mai accettato il ricorso presentato dai legali di Silvio Berlusconi e di considerare destituite di ogni fondamento le notizie relative a una presupposta accettazione da parte della corte del ricorso, il titolo comincia a scendere, va da sè.
O meglio, va a picco.
Da 3.60 va a 3.40, poi a 3, 2.90, 2.80, arriva a 2.70 mentre Mondadori precipita.
Soltanto a Milano sono stati investiti circa 200 milioni di euro in una settimana che sono diventati 110 due settimane dopo.
Un trionfo per la Beremberg.
Un colpo da maestro per Mediaset.
Un grande applauso da parte mia (sincero) all’avvocato Longo che ha dimostrato di essere davvero un avvocato fedele e abile e sa come salvaguardare gli interessi del suo cliente.
Una catastrofe per la credibilità dell’Italia.
Panico e fuga di investitori dalla borsa di Milano che perde in due settimane il 15%.
Fine della storia.

In qualunque paese evoluto del mondo, tutto ciò non sarebbe accaduto.
Né si parla del crollo verticale dell’impero mediatico berlusconiano, che stanno svendendo in pezzi diversi agli spagnoli, ai francesi, agli emiri, ai tedeschi, agli australiani.
E’ comprensibile: uno dei legali di Berlusconi, l’avv.Ghedini, sta scrivendo insieme all’on. Boschi tutta la parte della riforma della giustizia relativa al conflitto di interessi, truffa in bilancio, intercettazioni, manipolazione del mercato, aggiotaggio, ecc.
L’Europa lo sa.
I tedeschi lo sanno.
Gli investitori pure.
E’ l’idea di mondo insegnata alla classe dirigente politica e imprenditoriale da Cesare Previti e Marcello Dell’Utri.

Per questo ci puniscono, ci insultano, ci prendono in giro, ci svillaneggiano.

Possiamo dar loro torto?

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La battaglia contro l’austerità continua

La battaglia contro l’austerità continua

Comitato promotore del referendum “Stop austerità

stopausterita

Ancheil nostro sito ha sostenuto il referendum “Stop austerità”. Non poteva essere diversamente, considerato che da sempre abbiamo sempre avversato le politiche fiscali restrittive adottate in Italia e in Europa, e mostrato in che modo esse accentuano il profilo della crisi. Anche noi continueremo la battaglia contro l’austerità, provando a dare un contributo critico e scientifico a favore di una svolta di politica economica espansiva, che possa rimettere in moto la crescita e puntare alla piena occupazione.

Comunicato stampa del Comitato referendario Stop Austerità

Sedici europeisti, seppur con orientamenti politici e culturali diversi tra di loro, uniti nella critica all’attuale politica economica prevalente nel continente, dopo le elezioni europee hanno deciso di promuovere un referendum, “Stop Austerità”, per modificare la legge 243/2012, recante disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81 della Costituzione. È così che è cominciata la nostra battaglia all’ottusa austerità, con due idee forti di fondo a guidarci. La prima è che non eravamo convinti che la ripresa europea fosse iniziata né che gli effetti depressivi dell’austerità fossero finiti. Avevamo ragione, come ha dimostrato il crescente drammatico andamento della disoccupazione e l’avvio della deflazione in Italia e in Europa. La seconda era la convinzione della necessità di trovare un modo per far pronunciare il popolo italiano, facendogli esprimere il suo giudizio su quelle politiche di austerità approvate in Parlamento la vigilia di Natale del 2012, in tutta fretta e di nascosto. Il rischio era quello che l’attuale crisi economica si legasse sempre più ad una crisi sociale ed entrambe ad una vera e propria crisi della democrazia. Un rischio sempre più reale col passare del tempo. Nel mese di luglio è partita la raccolta delle firme nel silenzio dei mezzi di comunicazione. Da settembre siamo riusciti ad attirare sul referendum l’attenzione crescente dell’opinione pubblica, anche a fronte del peggiorare persistente delle condizioni economiche in cui versano il Paese e l’Europa. Il quesito su cui abbiamo raccolto più firme (quello che intende abrogare la corrispondenza dell’equilibrio di bilancio con l’obiettivo a medio termine concordato in sede europea) ne conta circa 400.000. I quattro quesiti hanno raccolto, nel loro complesso, poco più di 1.500.000 firme. Il nostro ringraziamento va a tutti i cittadini che si sono impegnati con la loro firma ed il loro lavoro affinché l’iniziativa avesse successo. E’ un risultato importante che ci porta a non desistere e a rilanciare, per sostenere una linea di politica economica alternativa per l’Europa e l’Italia. Una politica economica espansiva, necessaria per i paesi europei ma anche per il mondo intero. Molti sondaggi ci confortano: la propensione di disponibilità a votare i nostri referendum è fra le più alte, negli ultimi vent’anni, tra tutti i referendum abrogativi testati (ed è significativamente più alta della partecipazione alle ultime elezioni europee). L’attuale volontà di non rispettare appieno i dettami del Fiscal Compact, specie in Francia ed in Italia, mentre conferma la giustezza ed il tempismo della nostra iniziativa, non deve illudere: rimane nei programmi pluriennali inviati alla Commissione europea da parte di questi Governi l’ottuso annuncio di rientri a tappe forzate, nei prossimi anni, a forza di maggiori tasse e minori investimenti pubblici. Non è possibile che la domanda interna di consumi e investimenti privati ritrovi slancio all’interno di annunci così ambigui e poco rassicuranti. La sola soluzione efficace rimane quella della sospensione senza se e senza ma della costruzione del Fiscal Compact. Per tutti questi motivi non possiamo che rilanciare la battaglia contro l’austerità, anche con l’appoggio alla raccolta di firme a sostegno della legge di iniziativa popolare per riscrivere l’articolo 81 della Costituzione, ad iniziative analoghe di modifica che dovessero essere promosse in questa direzione in sede parlamentare nazionale ed europea per rivedere radicalmente il Fiscal compact. Il Comitato promotore proseguirà inoltre nei prossimi mesi la sua azione contro l’austerità con una serie di iniziative politiche su tutto il territorio, fra le quali eventualmente anche la raccolta di firme. Per continuare a chiedere uno STOP ALL’AUSTERITA’. La battaglia per un’Europa capace di innovare e crescere nella solidarietà reciproca non si ferma.

 

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Learning from Europe – Paul Krugman

Learning from Europe – Paul Krugman

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Una attenta ulteriore analisi apparsa sul New York Time dal premio Nobel Paul Krugman. L’Europa insegna come si gestisce male una crisi. Ecco il testo originale:

https://www.thesolver.it/pdf/LearningfromEurope.pdf

Ora che anche il Fondo Monetario Internazionale( FMI) sembra essere arrivato alle conclusioni di necessarietà di una politica quasi keynesiana e incita la BCE e Mario Draghi al QE ( Quantitative Easing), non riusciamo a capire il motivo di un accanimento italiano nel perseguire austerity, se non con la sudditanza alle politiche della Merkel, finchè reggerano e certamente ancora per poco,  oppure alla volontà massonica di un disegno ” gelliano”.

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La BCE a Napoli e il cavallo di Keynes

La BCE a Napoli e il cavallo di Keynes

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Se vi è una periferia delle periferie dell’eurozona, quella è Napoli. La distanza tra il dibattito che il Consiglio direttivo della BCE sta svolgendo nel Palazzo Reale di Capodimonte e la vita di ogni giorno nelle periferie europee non può essere colmato solo dalla politica monetaria. Napoli è la prova migliore di come una politica monetaria, anche accomodante, sia destinata a fallire se non è coordinata con una politica fiscale espansiva. La BCE si riunisce a Napoli e tocca con mano i limiti delle misure che essa ha varato per rimettere in moto la crescita*. Napoli è, infatti, una delle capitali di quelle periferie d’Europa – al pari di Atene o Lisbona – che perdono sempre più contatto dalle aree centrali del Continente. Da queste parti, l’azzeramento del costo del denaro e le operazioni straordinarie di rifinanziamento a favore delle banche commerciali non hanno minimamente arrestato la decrescita. C’è un problema di fondo nelle politiche della BCE e ha radici antiche. Dopo l’iperinflazione della Repubblica di Weimar, quando in Germania si stampavano banconote del valore di migliaia di miliardi, i tedeschi si dotarono di una Banca Centrale – la Bundesbank – indipendente dal potere politico, indisponibile ad assecondare i governi e finanziare la spesa pubblica, attenta esclusivamente alla stabilità dei prezzi. La storia italiana è diversa, anche se una “svolta tedesca” si ebbe nel 1981, quando la Banca d’Italia “divorziò” dal Tesoro e si stabilì il principio che essa non fosse più tenuta ad acquistare titoli del debito pubblico. Anche per questo, fu pacifico accettare che l’Unione Monetaria si dotasse di una BCE simile alla Bundesbank: una banca “conservatrice” – nel gergo degli economisti – che non finanzia la spesa pubblica e che ha nel controllo dei prezzi il suo obiettivo statutario. Eppure lord Keynes aveva spiegato che una banca così concepita espone l’economia a un grave rischio. Finché il circuito economico non conosce intoppi, infatti, questo modello di banchiere centrale può funzionare. Ma quando scoppia la crisi sono guai. In questo caso, la banca centrale può anche impegnarsi ad abbassare il costo del credito e aprire i cordoni della borsa; tuttavia, come ricordava il buon Keynes, si può portare l’acqua al cavallo, ma non si può costringerlo a bere. Fuor di metafora: perché gli imprenditori dovrebbero indebitarsi, sia pure a tassi bassissimi, se non c’è chi compra le loro merci? La politica monetaria, nel suo splendido isolamento, è largamente inefficace nel rimettere in moto l’economia e nel frenare la deflazione. Siccome poi è unica per tutti, e la sua azione è guidata da valori medi, può ancora meno per le periferie. Gli americani hanno appreso una parte della lezione keynesiana e si sono ben guardati dal dotarsi di una banca “conservatrice”. Dopo la crisi, Obama ha messo in campo il Recovery Act: oltre 800 miliardi di dollari finanziati per lo più con biglietti appena stampati dalla Banca Centrale e indirizzati verso politiche industriali mirate, la costruzione di grandi infrastrutture, il sostegno al reddito dei disoccupati. Insomma, la banca centrale che finanzia la spesa pubblica, politiche fiscali e monetarie coordinate, con la crisi che già è uno sbiadito ricordo. L’alternativa, è la recessione che viviamo in Europa.

*Prima stesura pubblicata dal Corriere del Mezzogiorno del 2 ottobre 2014 con il titolo “Le politiche della BCE e il cavallo di Keynes”

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La bufala del colesterolo buono e cattivo

La bufala del colesterolo buono e cattivo.

Il colesterolo è un agente curativo, prodotto dal corpo

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Scopri dalle tue analisi del sangue che il livello del colesterolo è a 300 . Ti viene il panico mentre ascolti le istruzioni del tuo medico riguardo la necessità di abbassare immediatamente il livello dell’LDL, il colesterolo “cattivo”! Medicine? Esiti, perché hai sentito parlare degli effetti negativi delle statine sulla salute, ad esempio sul cuore, sul fegato, poi della perdita di memoria ….. forse dovresti evitare di mangiare le uova ed i grassi saturi, poi forse andrà meglio….? Magari pensi di dover prendere anche degli integratori che abbassino il colesterolo.

 

La realtà è che questa convinzione deve FINIRE ! Dopo tutto, si tratta della TUA SALUTE. Al centro della questione non ci deve essere né il tuo medico, nè l’industria alimentare nè le aziende farmaceutiche. I dati scientifici riguardo al colesterolo testimoniano una storia diversa da quella che hai probabilmente sentito dal tuo medico. Ecco ciò che è più importante sapere quando hai il livello di colesterolo alto:

 

“La questione è: perché il sangue di alcune persone contiene più colesterolo rispetto al sangue di altre persone e perché i livelli di colesterolo delle prime variano più volte durante la giornata? Perché i livelli cambiano secondo le stagioni? Perché in inverno i livelli salgono ed in estate scendono? Perché il livello del colesterolo sale a dismisura nei pazienti appena dopo un’operazione chirurgica? Perché il livello di colesterolo sale quando è in atto un infezione? Perché sale dopo un trattamento dentale? Perché sale quando siamo sotto stress? Perché si normalizza quando siamo rilassati e ci sentiamo bene?

 

La risposta a tutte le domande è la seguente: Il colesterolo è un agente curativo prodotto dal corpo.” (Natasha Campbell–McBride)

 

Il legame tra colesterolo e infiammazione

Il corpo produce più colesterolo di riflesso quando insorge una infiammazione. Quindi il problema non è il colesterolo: è invece la soluzione che sta usando il corpo per cercare di guarirsi. Il vero pericolo è l’infiammazione delle pareti delle arterie e se questo viene ignorato, crea gonfiore che potrebbe ostacolare il flusso del sangue verso il cuore o verso il cervello, cosa che puo’ causare un attacco cardiaco o un’ictus.

 

Quali sono le fonti di infiammazione nel corpo?

Quando nel corpo c’è un livello alto di ossidazione, contemporaneamente si avvia, nei tessuti, l’attività dei radicali liberi. Il colesterolo LDL si ossida nel corpo per via del consumo di grassi artificiali, oli parzialmente idrogenati, oli vegetali, cibi geneticamente modificati, una dieta con molti zuccheri raffinati , alcool e tabacco. Il colesterolo dannoso si trova nelle uova polverizzate, latte polverizzato (aggiunto al latte scremato per creare densità) e nelle carni e grassi cotti ad alte temperature attraverso friggitura o altri procedimenti ad alta temperatura. Livelli elevati di colesterolo LDL possono essere anche causati da tossicità da metalli pesanti, da tossicità o stress epatico, ipotiroidismo e malfunzionamento dei reni.

 

Colesterolo “cattivo” e “buono”? Non esistono!

La LDL (low density lipo-protein, lipo-proteina a bassa densità) è il “portatore” del colesterolo e lo distribuisce nelle varie parti del corpo, secondo la necessità.

HDL (high density lipo protein, lipo proteina ad alta densità) riporta il colesterolo al fegato.

 

LDL ed HDL non possono essere descritti come “buono” o “cattivo” poiché entrambi sono semplicemente colesterolo.

Comunque, non appena le aziende farmaceutiche si resero conto che potevano produrre con facilità una medicina per abbassare il colesterolo e con ciò, trarne dei profitti enormi, hanno semplicemente comprato e pagato per avere le prove delle loro teorie. Ecco come è nato l’inganno riguardo il colesterolo “buono” e “cattivo” e perché da anni questa menzogna è continuamente alimentata, attraverso i programmi di marketing.

 

I livelli bassi di colesterolo HDL riflettono uno stile di vita sedentaria. I medici ed altri che promuovono la disinformazione circa la necessità di aumentare i livelli di HDL, omettono di far sapere che gli HDL più alti di 75, sono, di fatto, correlati a dei processi di autoimmunità. Questa possibilità è ancora più evidente se i livelli dei trigliceridi sono bassi (meno di 40). Il consumo in eccesso di alcool, droghe, la presenza di ipotiroidismo e la produzione in eccesso di estrogeni può causare un incremento dei livelli di HDL.

 

I livelli del Colesterolo ed il loro significato

Il colesterolo con molto siero non offre indicazione su quanto colesterolo è contenuto nei tessuti. Quando le persone cominciano a guarire e a correggere i loro squilibri metabolici, il livello di colesterolo nel sangue può salire, perché sta lascando i tessuti. Non basta considerare soltanto i livelli alti e bassi di LDL e di HDL. Tra i valori da controllare nelle analisi del sangue c’è anche la Proteina C Reattiva -PCR- (la proteina trovata nel sangue, i cui livelli aumentano in risposta all’infiammazione) e la dimensione delle particelle del colesterolo LDL

 

Che cosa ci dice la dimensione della particella del colesterolo LDL ? Una particella LDL sana è grande e soffice e di conseguenza fluisce nel sistema naturalmente senza creare dei problemi. Quando, invece, la dimensione della particella è piccola e densa, non fluisce con facilità e ha la tendenza ad incastrarsi nelle piccole fessure delle arterie, dove fluisce la nutrizione. Quando ciò accade, come qualsiasi cosa che ristagna, crea infiammazione e l’inizio dell’arteriosclerosi.

 

Le diverse biochimiche, i diversi metabolismi, i diversi livelli di colesterolo

“La bufala” del colesterolo, iniziata dalle aziende farmaceutiche, ha instillato l’idea che con un livello totale di colesterolo di 200mg/dl bisogna “agire” immediatamente, sia per via farmacologica e/o con una dieta senza grassi saturi nè cibi ricchi di colesterolo.

Non solo un valore totale di 200 mg/dl di colesterolo non è necessariamente alto, ma per molti è un livello normale e molto importante! I tipi che producono una proteina come definita dal Healthexcel System of Metabolic Typing, spesso hanno dei livelli più alti del 200 e sono in ottima salute. Queste categorie di persone necessitano una dieta contenente una maggiore percentuale di grassi saturi e cibi che contengono colesterolo.

 

Breve riassunto delle funzioni vitali del colesterolo nel corpo

Non dimentichiamo di quanto vitale è il colesterolo, pensato per esistere nel nostro corpo e NON per arrecarci danno, piuttosto per esercitare un’ampia gamma di funzioni, senza le quali non potremmo sopravvivere . Nel seguito alcune di questi funzioni:

 

– Ogni singola cellula nel corpo è composta da colesterolo;

 

– Il Colesterolo aumenta l’integrità della membrana della cellula; fornisce alle nostre cellule la necessaria robustezza e stabilità;

 

– Ogni ormone steroideo è composto da colesterolo;

 

– La capacità del corpo di sintetizzare la vitamina D , dipende dal colesterolo

 

– Il Colesterolo è un antiossidante ed uno spazzino dei radicali liberi;

 

– I sali biliari sono composti da colesterolo. La bile è vitale per la digestione oltre che per l’assimilazione dei grassi e per l’assorbimento della vitamina D;

 

– Il sistema immunitario necessità del colesterolo per riparare le cellule danneggiate (come nei casi del post-intervento oppure di danno cellulare dovuto ai cibi tossici ed a sostanze chimiche);

 

– Il colesterolo sostiene la memoria;

 

Nota bene: Si è scoperto che il colesterolo è uno dei fattori più importante nella formazione della sinapsi, la base del nostro apprendimento e memoria. Il Cervello contiene il 25% del Colesterolo presente nel corpo.

Il Colesterolo si trova in abbondanza nei tessuti del cervello e del sistema nervoso. Un quinto del peso della mielina, sostanza che riveste gli assoni dei neuroni per sostenere la conduzione degli impulsi elettrici che si traducono in movimento , sensazione, pensiero, apprendimento e ricordi, è colesterolo

Pertanto, il mio consiglio a tutti è di informarsi su cio’ che è veramente il colesterolo, prima di decidere per una cura farmacologica e evitare dei grassi saturi e cibi ricchi in colesterolo. Nessuna di queste vie è la soluzione. E’ come uccidere il messaggero (il colesterolo) perché vi porta cattive notizie.

 

Il Colesterolo è una sostanza che promuove la salute. E’ un componente vitale delle membrane cellulari, il precursore di tutti gli ormoni steroidei, un precursore alla Vitamina D ed il fattore limitante, necessario alle cellule del cervello per fare connessioni tra loro, ovvero le sinapsi, cosa che rende il colesterolo essenziale per l’apprendimento e per la memoria.

 

Alcuni dei cibi più nutrienti come il tuorlo d’uovo ed il fegato, sono anche i piu’ ricchi di colesterolo. Le campagne pubblicitarie contro i grassi, contro il colesterolo, demonizzano da decenni questi cibi, senza che ci siano prove sul fatto che causino malattie.

Al contrario, essi promuovano salute.

 

Disclaimer:

Per quanto riguarda il colesterolo, siamo d’accordo con la piu’ parte di questa ricerca. Questa newsletter (da cui deriva l’articolo ndr) è stata scritta con lo scopo di educare le persone sulla importanza del colesterolo e sul fatto che esso non combatte contro il corpo, ma è creato nel fegato per sostenere il corpo in molti modi

 

I Fatti che I Medici non Raccontano sul Colesterolo-scritto da Raluca Schachter

traduzione Marylin Thomas

 

Fonte: http://wakeup-world.com/2012/09/28/cholesterol-behind-the-numbers-facts-your-doctors-dont-tell-you/

 

Colesterolo, tutta la Verità – Libro

 

Fonti:

 

Campbell-McBride, Natasha, MD. Cholesterol: Friend Or Foe?

Lundell, Dwight, MD. The Cholesterol Lie Exposed

McEvoy, Michael. Cholesterol Is Powerfully Anti-Inflammatory & Prevents Free Radical Activity

McEvoy, Michael. ‘Good’ & ‘Bad’ Cholesterol: No Such Thing

Schaff, Rick. An Open Letter on the Essentials of Understanding Cholesterol, Saturated Fats & Heart Disease

Taubes, Gary. The Soft Science of Dietary Fat

http://www.cholesterol-and-heal

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Dipendenza da Soap-Opera e Telenovella

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Il fenomeno non è recente, ma solo da qualche anno è stato riconosciuto e diventato oggetto di studi. La dipendenza da “soap opera” o da “telenovela” è qualcosa di diverso dalla semplice dipendenza televisiva, agendo profondamente sull’inconscio di chi ne resta vittima, con conseguenze che possono rivelarsi gravi, soprattutto sul piano relazionale e sfociando talvolta in patologie.
A differenza di altri prodotti televisivi, come i telefilm o le cosiddette “situation comedy”, le soap operas portano in se elementi che agiscono a livello inconscio nello spettatore, favorendo una dipendenza dalla quale non è facile liberarsi, anche perché raramente riconosciuta e più spesso mantenuta nascosta (o sottodimensionata) dal “dipendente”.
Ma cosa sono esattamente le soap operas e le telenovelas e che cosa può renderle dannose per l’individuo rispetto ad altre forme di intrattenimento televisivo?

Le caratteristiche del prodotto e la dipendenza

Entrambi i prodotti – soap operas e telenovelas – sono riconducibili, dal punto narrativo, al genere del melodramma e la differenza tra loro, a parte le ambientazioni, sono da ricercare nelle finalità nell’uso dei sentimenti umani. Nelle soap operas, infatti, le traversie sentimentali dei personaggi (elemento basilare di entrambe le tipologie) hanno il solo scopo di movimentare la storia dal punto di vista spettacolare, in un contesto in cui agiscono fortemente altri elementi, come il dramma familiare, la competizione  professionale ecc. Nelle telenovelas i sentimenti si pongono al centro delle vicende, condizionando le azioni dei personaggi caratterizzati per la loro perenne infelicità ed incapacità di realizzarsi sentimentalmente. Esse, inoltre, sono spesso ambientate in epoche lontane, in gran parte nell’Ottocento mentre le soap opera sono quasi esclusivamente di ambientazione moderna.
Non sono questi, tuttavia, gli elementi che favoriscono la dipendenza dello spettatore. Il più importante è quello di essere dei prodotti seriali, strutturati cioè in brevi puntate che vanno in onda regolarmente, ogni giorno, alla stessa ora. Rispetto alla serialità, la differenza tra soap operas e telenovelas è che le seconde difficilmente durano più di una stagione, strutturate come sono in 200-250 puntate. Le “soap opera”, invece, non hanno una durata complessiva predeterminata e possono andare avanti anche per molti anni, cessando le trasmissioni solo a fronte di una significativa perdita di spettatori. La presenza di un’offerta elevata delle une e delle altre, fa sì che i suoi utenti (per lo più di sesso femminile, con un’alta percentuale di anziani) seguano anche più di una soap opera o “telenovela”,ma difficilmente potranno sviluppare forme di dipendenza nei confronti di un numero superiore a due prodotti.
Le trame delle “soap operas” e delle telenovelas sono concepite per attirare in tempi estremamente brevi l’affezione dello spettatore per il prodotto. In seguito, pur conservando caratteristiche di semplicità e immediatezza nello svolgimento, si svolgeranno in modo tale da mantenere sempre desta l’attenzione dello spettatore, soprattutto in prossimità delle interruzioni pubblicitarie, che non dovranno indurre a cambiare canale.

Dipendenza

La dipendenza, dunque, viene sollecitata dalla regolarità con la quale si seguono le vicende delle soap operas, tanto che anche la perdita di un singolo episodio può provocare dei “sintomi di privazione”. I segnali più allarmanti di un’eventuale dipendenza, però, si rivelano in occasione dei fine settimana, durante i quali viene sospesa la loro programmazione. Se lo spettatore più “organizzato” potrà ricorrere al videoregistratore rivedendosi qualche puntata e mantenendo quindi il “contatto” con l’oggetto della sua dipendenza, gli altri dovranno fare i conti con fenomeni quali forti stati di ansia, agitazione e scollamento dalla vita reale. Le trame delle soap operas saranno sempre al centro dei loro pensieri, perché più semplici da gestire mentalmente che non i problemi della vita di tutti i giorni. L’empatia con i protagonisti, quindi, provocherà nel tempo uno stato confusionale per il quale lo spettatore non saprà più distinguere la finzione dalla realtà, arrivando a pensare che i personaggi delle soap operas vivano per davvero ciò che accade nel piccolo schermo. E finendo quindi per partecipare emozionalmente alle loro traversie, più di quanto sia lecito aspettarsi da uno spettatore comune, tanto più se un personaggio presenta elementi caratteriali che fanno scattare meccanismi di identificazione.

Più in generale, l’ossessione per una soap opera può provocare danni molto gravi sul piano relazionale, guastando irrimediabilmente i rapporti con amici, colleghi o familiari.

Tratto da www.benessere.com

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