Gli incendi in Amazzonia sono associati più agli incendi agricoli e alla deforestazione che alla siccità

Gli incendi in Amazzonia sono associati più agli incendi agricoli e alla deforestazione che alla siccità

Uno studio brasiliano ha analizzato gli incendi attivi tra il 2003 e il 2020 nei nove paesi con aree di foresta pluviale amazzonica. Il Brasile ha rappresentato in media il 73% degli incendi rilevati nel periodo. Credito: Liana Anderson/CEMADEN

Uno studio brasiliano mostra che il numero di incendi rilevati nell’intera regione amazzonica tra il 2003 e il 2020 è stato influenzato più dall’uso incontrollato del fuoco da parte dell’uomo che dalla siccità. Secondo i ricercatori, la principale causa di incendio nella maggior parte degli anni con un gran numero di incendi è stata l’incendio della vegetazione per preparare le aree al pascolo e la deforestazione, piuttosto che il deficit idrico estremo.

In media, i pascoli e altri terreni agricoli rappresentavano il 32% delle aree bruciate annuali in Amazzonia, seguite da praterie naturali con il 29% e foreste secolari con il 16%.

Dei nove paesi con aree della foresta pluviale amazzonica, Brasile e Bolivia hanno rappresentato insieme la maggior parte degli incendi rilevati nella regione ogni anno, rispettivamente con più della metà e circa un terzo.

La parte del leone dell’Amazzonia è in Brasile (63%), ma il bioma della foresta pluviale tropicale di pianura si estende anche in Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Guyana francese, Perù, Suriname e Venezuela, ciascuno con tra il 9% e il 6,5% del superficie totale, che è di 6,67 milioni di chilometri quadrati.

Un articolo sullo studio è pubblicato in un numero speciale di Global Ecology and Biogeography sulla crescente minaccia rappresentata dagli incendi per le foreste del mondo .

Gli autori sono scienziati affiliati al National Space Research Institute (INPE) del Brasile, al National Disaster Surveillance and Early Warning Center (CEMADEN) e all’Università statale di Maranhão (UEMA).

Il numero degli incendi nell’Amazzonia brasiliana è di nuovo in aumento. Nei primi nove mesi del 2022, soprattutto ad agosto e settembre, è stato il più alto dal 2010, quando, secondo l’INPE, sono stati rilevati 102.409 incendi. Allo stesso tempo, dal 2019 la deforestazione nel bioma ha raggiunto i livelli più alti dal 2009, superando i 10.000 chilometri quadrati all’anno. Il trend continua, a giudicare dalle statistiche disponibili da DETER, la piattaforma di allerta deforestazione dell’INPE.

“La letteratura scientifica sugli incendi in Amazzonia tende a concentrarsi sulla porzione brasiliana del bioma. Abbiamo esteso il campo di applicazione agli altri paesi per scoprire dove il fuoco è più critico e merita attenzione, in particolare alla luce delle diverse terre usi e tipi di copertura vegetale. Abbiamo concluso che il fuoco viene utilizzato in agricoltura per rinnovare la vegetazione, principalmente nei pascoli e soprattutto in Brasile, ma senza un’adeguata gestione degli incendi, aumentando il rischio che gli incendi si diffondano nella foresta adiacente e causino incendi”, ha affermato Marcus Vinicius de Freitas Silveira, un dottorato di ricerca. candidato alla Divisione Osservazione della Terra e Geoinformatica (DIOTG) dell’INPE e primo autore dell’articolo.

 

Per Luiz Eduardo Oliveira e Cruz de Aragão, capo di DIOTG-INPE e ultimo autore dell’articolo, lo studio innova prendendo come scopo tutta l’Amazzonia e quasi 20 anni di dati. “Analizzando questo lungo periodo, siamo stati in grado di identificare anomalie nelle serie temporali, come il 2020. I risultati mostrano la diffusione dell’uso del fuoco in tutta l’Amazzonia, sia per la disboscamento e l’incendio della foresta, sia per la gestione continua dei pascoli”, Egli ha detto.

Aragão è il leader del Laboratorio di Ecosistemi Tropicali e Scienze Ambientali (TREES) e un partecipante al Programma di ricerca FAPESP sui cambiamenti climatici globali (RPGCC).

Come notato da Aragão, il 2020 è una “anomalia nella serie temporale”. Secondo lo studio, le operazioni di controllo ambientale nella regione si sono indebolite nel 2020, dopo la famigerata stagione degli incendi in Amazzonia del 2019 ed è stato anche un periodo in cui la pandemia di COVID-19 era in aumento.

Nel 2020, l’area bruciata totale in Amazzonia è stata la più grande dal 2010 e l’area bruciata per incendio attivo è stata la seconda più alta della serie storica, nonostante un’area molto più bassa con un deficit idrico anomalo acuto rispetto al mega-2015-16 siccità, scrivono gli autori.

Anche un altro importante bioma brasiliano, il Pantanal, la più grande zona umida del mondo, con un’area di 250.000 chilometri quadrati, parti dei quali si trovano in Argentina e Paraguay, è stato devastato da un incendio senza precedenti nel 2020. La superficie dell’acqua è diminuita del 34% in più rispetto all’annuale media nel 2020, secondo un articolo pubblicato nel luglio 2022. Oltre ad Aragão, i suoi autori includono Liana Anderson, penultima autrice dell’articolo in fiamme in Amazzonia.

Come nella foresta pluviale tropicale, gli incendi nel Pantanal sono stati una conseguenza dell’intensificazione delle attività umane legate agli incendi, con il 70% nelle proprietà rurali, il 5% nelle riserve indigene e il 10% nelle aree protette, secondo lo studio.

Per Anderson, la principale azione a breve termine necessaria per ridurre il rischio di incendi boschivi in ​​Amazzonia è sradicare la deforestazione illegale nella regione e affrontare il problema dell’accaparramento delle terre. “Oltre a questo, la formazione e la diffusione di tecniche di gestione del territorio senza incendi sono fondamentali per ridurre al minimo il rischio crescente di grandi incendi. Sia il paesaggio sempre più frammentato che il clima più caldo con meno pioggia portano a una maggiore infiammabilità”, ha affermato.

Gli incendi sono aumentati del 18% tra gennaio e settembre rispetto ai primi nove mesi del 2021 a Maranhão, stato brasiliano situato nella zona di transizione tra l’Amazzonia e il Cerrado, il secondo bioma più grande del Paese e anch’esso minacciato in vari modi.

“Come notato nel nostro articolo, la recente attività degli incendi nella regione è strettamente legata alla deforestazione, che è aumentata a causa dell’indebolimento dei controlli ambientali sia federali che statali”, ha affermato Celso Silva-Junior, affiliato all’Università statale di Maranhão (UEMA ) e secondo autore dell’articolo.

Impatti

Il fuoco è uno dei principali tipi di disturbo responsabile del degrado in Amazzonia, con impatti negativi sulla struttura e sulla dinamica delle foreste, principalmente perché compromette la capacità della foresta di catturare il carbonio e rilascia il carbonio immagazzinato.

Il fuoco danneggia anche la salute delle persone che vivono nella regione intensificando l’inquinamento atmosferico e aumentando i ricoveri per malattie respiratorie. Secondo un rapporto prodotto dall’Health Policy Research Institute (IEPS) in collaborazione con l’Amazon Environmental Research Institute (IPAM) e Human Rights Watch, gli incendi associati alla deforestazione in Amazzonia hanno portato a 2.195 ricoveri per il trattamento di malattie respiratorie nel 2019, con Il 49% riguarda persone di età pari o superiore a 60 anni e il 21% bambini fino a un anno.

L’inquinamento causato dal fumo degli incendi boschivi in ​​Amazzonia, sommato allo sporco già presente nell’aria nelle grandi città e alle nubi basse, è stato responsabile del passaggio dal giorno alla notte a San Paolo il 19 agosto 2019, nonostante la distanza di 2.700 km da Manaus, la capitale dello stato di Amazonas.

Dati

Nel più recente articolo di Global Ecology and Biogeography , i ricercatori descrivono la loro analisi delle serie temporali per il periodo 2003-2020 compilate da registrazioni di incendi attivi e aree bruciate, incrociando queste con dati annuali per uso e copertura del suolo, misurando le aree con anomalie livelli di incendio, siccità e deforestazione per ogni anno e identificare la distribuzione spaziale di queste anomalie nel 2020, il tutto sulla base di una griglia di 10 km x 10 km che copre l’intera regione amazzonica.

I risultati hanno mostrato che il Brasile da solo ha rappresentato in media il 73% dei rilevamenti annuali di incendi attivi in ​​Amazzonia tra il 2003 e il 2020, seguito dalla Bolivia con il 14,5% e dal Perù con il 5,3%.

Quando i rilevamenti annuali di incendi attivi in ​​ciascuna regione amazzonica sono stati divisi per l’area totale della regione, gli autori hanno scoperto che la densità più alta si è verificata in Bolivia, con una media di sei incendi attivi ogni 100 chilometri quadrati all’anno, seguita dal Brasile con tre.

In Brasile e Bolivia, gli incendi attivi sono stati più numerosi negli anni 2000 e poi sono diminuiti, toccando il minimo nel 2013-14 e aumentando di nuovo in seguito.

Il Brasile ha contribuito in media al 56% della superficie totale annua bruciata in Amazzonia nell’intero periodo, mentre la quota della Bolivia è stata del 33%. Venezuela e Colombia rappresentavano ciascuna il 4%. Sebbene il Perù fosse la terza regione in classifica per numero di incendi, ha contribuito in media solo allo 0,63% della superficie totale annuale bruciata.

Coltivazioni e pascoli, praterie naturali, foreste secolari e zone umide diverse dalle foreste allagate sono stati i tipi di uso del suolo e di copertura che hanno bruciato di più in tutta l’Amazzonia durante il periodo, rappresentando rispettivamente il 32%, 29%, 16% e 13 % della superficie totale annua bruciata in media.

I terreni agricoli hanno anche rappresentato la percentuale maggiore della superficie totale annuale bruciata in Brasile (48%) e Perù (51%). Le foreste secolari hanno bruciato la maggior parte in Ecuador (76%), le zone umide diverse dalle foreste allagate nella Guyana francese (46,5%) e le praterie naturali nelle restanti regioni amazzoniche (40% o più).

“Il fuoco viene utilizzato per preparare le aree a colture o pascoli, ma il fuoco è un pericolo non solo per la foresta e la sua biodiversità, ma anche per la sostenibilità dell’agricoltura stessa”, ha affermato Aragão. “La soluzione sarebbe sviluppare una pianificazione strategica dell’uso del territorio a tutti i livelli di governo e settori della società, con formazione e assistenza per utilizzare tecniche più avanzate”.

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GEOPOLITICA DEI TRATTATI DI LIBERO ASSERVIMENTO

GEOPOLITICA DEI TRATTATI DI LIBERO ASSERVIMENTO

Articolo Originale di Pierluigi Fagan

La prima globalizzazione è finita. Scambi e flussi di tutti con tutti non hanno funzionato come dovevano, almeno secondo le intenzioni del principale promoter, gli USA. Si è trattato di un’enorme trasferimento di ricchezza dai paesi ricchi a quelli poveri ma contemporaneamente, nei paesi ricchi già provati dall’emorragia verso quelli emergenti, si è creata una dinamica di trasferimento di ricchezza dalle classi povere e medie a quelle già ricche, diventate super-ricche. Così in ogni comparto produttivo, dalle imprese piccole e medie a quelle grandi e grandissime e a livello di settori dall’economia, dall’industria ai servizi e più in generale, dalla produzione e scambio alla banco-finanza. Queste élite (super-ricchi, multinazionali, banco-finanza) si sono strette in una cerchia mondiale di detentori di capitali che succhiano valore dalle comunità, dalla natura e dal risparmio e poi si trasferiscono denaro l’un l’altro, all’interno del vorticoso circolo della nuova finanza, borse e paradisi fiscali. Una circolazione di ricchezza per lo più apparente, alimentata dalla continua immissione di dollari nel circuito, ad opera della banca centrale americana e da tutti i potenziali creatori di debito (titoli, emissioni speciali, obbligazioni, derivati, prestiti al consumo, carte di credito etc.).

Ma non è questo che non ha funzionato poiché questo era proprio il preciso obiettivo della strategia sottostante, il problema principale della prima globalizzazione, è stato quello di aver allevato dei minacciosi competitor, inizialmente economici, poi finanziari, poi valutari, poi politici. Poiché lo scenario di competizione è il Mondo, il competitor politico è geo-politico e dall’economia, dalla finanza, dalla politica, ora il confronto, ad esempio con Russia e Cina, rischia di trascendere sul piano addirittura militare. Inizia quindi una fase di lotta non più per l’egemonia del Tutto per via diretta , ma per via indiretta, creando schieramenti e sistemi contrapposti ed attraverso il controllo di questi, tentare il controllo del Tutto. Questi sistemi che vanno a sostituire il WTO, sono le cerchie dei paesi invitati a sottoscrivere con gli USA, una serie di trattati multilaterali. Da tutti e tre i trattati di cui parleremo, TTIP – TPP – TISA, sono rigidamente esclusi proprio i principali nuovi competitor: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa.

  1. IL TTIP.

L’amministrazione Obama già da tempo ha annunciato il ri-orientamento strategico della propria politica internazionale. L’intenzione è ricostruire il bastione occidentale, riannettendosi l’Europa come cinquantunesimo stato dell’Unione. Questa intenzione ha un argomento attivo poiché USA + EU, sono il 46,98% del Pil mondiale, mentre NAFTA (USA/CAN/MEX) + EU sono il 50.25% su dati FMI 2013, ovvero creare un sistema centrale del mondo dei flussi e degli scambi economici che, in virtù della propria massa, possa determinare gli standard globali. E’ questa la strategia sottostante il TTIP. Gli USA controllerebbero questa cerchia che controllerebbe per via del suo peso ed estensione, il resto del sistema globale. Ma vi è anche il riflesso passivo di questa strategia. Ostracizzare e disincentivare ogni forma di scambio tra Europa e paesi emersi o emergenti. Europa infatti, sarebbe un omologo degli USA ad esempio per quanto attiene molte capacità tecnologiche, mentre com’è noto, Europa è ben mancante di materie prime di cui sono invece eccedenti gli emersi e gli emergenti. In teoria, questo sarebbe lo scambio perfetto, quello basato sulla reciproca compensazione delle eccedenze e della mancanze. Ma questo scambio perfetto potenzierebbe ulteriormente il progresso tecnico-produttivo dei competitor geopolitici (Cina e Russia in primis), creerebbe una circolazione attiva di valute disparate (yen, yuan, rubli, euro, rupie), finirebbe con l’emarginare gli USA che non hanno alcuna intenzione di commerciare liberamente con coloro che vedono come rivali geopolitici esiziali e che temono la relativizzazione del dollaro più di ogni altra cosa al mondo, poiché e sul dominio assoluto di questo che si basa la loro forza finanziaria, quindi, economica, quindi politica, coadiuvata da quella militare e condita da quella culturale.

L’isteria americana sulla questione ucraina va quindi letta in questo senso, separare da subito Europa e Russia (tecnologia e competenze vs energia) per poi ostacolare anche le relazioni Europa – Cina.

La Cina è, per ammissione esplicita dell’amministrazione americana, il main competitor globale. Ed infatti il ri-orientamento della politica strategica statunitense ha titolo “pivot to Asia”, perno sull’Asia. E’ stato già riassortito il peso della marina militare USA da 60%-40% Atlantico-Pacifico, all’inverso. Obama ha compiuto diversi viaggi military-west-pacificdi corteggiamento e amicizia in Asia, in tutti i paesi confinanti con la Cina, paesi che vivono o sono invitati a vivere, la crescita cinese potenzialmente come minacciosa. Diversi incidenti nel Mar della Cina hanno infiammato le relazioni dei paesi costieri poiché ognuno sta correndo a ridefinire confini marittimi  che in passato non avevano nessun preciso significato ma che oggi con il traffico dei cargo e petroliere, nonché per le promesse di sotterranei giacimenti di energia, diventano luoghi di aspra contesa. Sono numerose le provocazioni esplicite ed implicite (da satelliti ed aerei spia buttati giù senza troppi riguardi dai cinesi, alla questione del Tibet, al rinnovamento delle basi militari USA del Pacifico, al recente tentativo di destabilizzazione ad Hong Kong etc.) compiute ai danni dei cinesi che per altro non se ne sono stati con le mani in mano. Poco osservato è stato il primo tentativo di creare una rotta di circumnavigazione polare che dalla Cina, arrivi nel Baltico e nel Mare del Nord, cargo scortati da rompighiaccio russi. Altresì, i cinesi, stanno aprendo porti e stendendo binari per creare la famosa “Nuova Via della Seta” che colleghi l’Asia con l’Europa. Restrizioni su Internet o meglio creazione di una propria rete e servizi, apertura planetaria di molti centri Confucio, acquisto di porti, aeroporti ed aziende occidentali, land grabbing in Africa condiscono la strategia di “sviluppo armonioso” del gigante cinese che per molto tempo ancora, baserà la sua crescita sull’export. Ma fino ad ora ha prevalso una certa prudenza, un punzecchiarsi reciproco, non ancora divenuta aperta sfida come è invece avvenuto con la Russia, dichiarata da Obama all’ONU, una delle tre minacce principali planetarie, assieme ad ebola e prima ancora dell’Isis.

  1. IL TPP.

20130722092200517L’area Ovest degli USA, il Pacifico-Asia è destinazione di un altro trattato gemello del TTIP, il TPP – Trans Pacific Partnership. Nato nel 2005 per costruire un’area di libero scambio merci – servizi – finanza tra Nuova Zelanda – Cile – Sultanato del Brunei (Borneo) e Singapore, il trattato originario si chiamava Pacific Four = P4, e mostrava perfettamente la logica naturale dei trattati veramente basati su interessi puramente economici. I quattro paesi infatti sono perfettamente complementari: Singapore è una città stato che non produce nulla se non investimenti e servizi avanzati, il Brunei è un paesino di meno di 400.000 abitanti sprovvisto di tutto ma ricco di petrolio, Nuova Zelanda e Cile sono paesi con territorio e produzioni complementari. La Nuova Zelanda è praticamente priva di minerali, lì dove primeggia il Cile. Questa è logica naturale di trattati di libero scambio basati sulle compensazioni tra eccedenze e mancanze strutturali, una circolazione di energia, finanza, materie prime ed industria e servizi che dota tutti di ciò che manca, scambiandolo con ciò che eccede.

Poco dopo la sua prima elezione, nel 2009, il presidente degli Stati Uniti B. Obama, dichiara il suo vivo interesse a formare intorno al P4 una più larga cerchia che diventerà TPP: NAFTA (USA + Canada + Messico) + Perù e Cile + Australia e Nuova Zelanda + Brunei, Singapore, Malaysia, Vietnam e Giappone. Un cerchia a 12. I due paesi sud americani romperebbero l’egemonia sud continentale dei paesi socialisti – socialdemocratici – nazionalistici che hanno di fatto espulso gli USA dal ruolo di Gran Protettore del sud continente americano. I due paesi oceanici sono storicamente anglosassoni e quindi della ricostituenda famiglia “occidentale”. ChinaTradeBalance

I paesi asiatici formano una prima cintura intorno alla Cina. Si tenga conto che la Cina ha molto sviluppato la propria presenza verso il proprio Est, quindi verso il Pacifico. Cina è come partner export ed import, tra i primi tre (in 10 casi primo, 10 secondo e 3 casi terzo) per tutti i 12 eventuali contraenti il trattato (l’unica mancanza è tra i primi tre partner dell’export del Brunei, ovvero il Brunei non vende energia ai cinesi, dati CIA World Factbook). Anche qui quindi, ci sarebbe un valore attivo ed uno passivo. Quello passivo sarebbe ovviamente scalzare la Cina da questa preminenza nelle referenze degli scambi. Ma anche qui, più che il valore commerciale e finanziario dell’operazione, vale l’obiettivo di mantenere la preminenza del dollaro negli scambi (dollaro che può al massimo sopportare la parziale convivenza con l’euro, stante che sul futuro dell’euro gli americani per primi, sicuramente non scommettono) ed accerchiare la Cina con paesi chiusi all’interrelazione economico-finanziaria ma aperti alla collaborazione militare con gli USA.

Chi valuta il TTIP non è portato a considerare il TPP ma ciò è un errore. Vale infatti il valore di concorrenza sul mercato americano. Gli Stati Uniti ad esempio, non si aprono solo all’agroalimentare europeo, ma anche a quello cileno, oceanico, malese e vietnamita. I vini italiani competerebbero non solo con quelli californiani ma anche coi cileni e neozelandesi (tra l’altro con altre valute che in molti casi asiatici hanno un vantaggio inarrivabile). I servizi banco-finanziari con quelli di Singapore e di Tokio, le tecnologie con quelle del Giappone, le delocalizzazioni con il Vietnam e Malaysia, il turismo con l’Oceania ed il Sud America etc. .  Poiché l’intento geopolitico del TPP (al pari di quello del TTIP) è ben chiaro, una volta firmato, si deve prevedere anche un successivo allargamento, forse a più d’uno tra Thailandia, Filippine, Cambogia, Myanmar, Taiwan e chissà chi altro ed  quali condizioni di arrendevolezza e sudditanza (quindi di vantaggio comparato per gli USA). L’elenco dei paesi di cui parleremo successivamente trattando il terzo accordo, il TISA, dà l’idea dell’effettiva estensione finale della aree che potrebbero essere unificate da vari accordi che hanno gli USA come perno centrale.

  1. IL TISA.

tisa-partiesOltre al TTIP ed al TPP, un altro trattato è in ancora più segreta discussione, il TISA. Il TISA è un trattato relativo ai servizi (Trade In Services Agreement) che ha un allegato specifico su i servizi finanziari. Si tenga conto che oggi i servizi, soprattutto nelle economie più avanzate, sono il comparto (vs industria ed agricoltura) di gran lunga dominante (79% del Pil USA, 72% del Pil Mondo, dati 2013 The Economist). Il trattato include tutti i membri TTIP e quelli TPP ad eccezione del Brunei, Malaysia e Vietnam (insignificanti quanto a servizi). A questi si aggiungono: Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera in Europa; Turchia ed Israele; Taiwan, Hong Kong, Pakistan e Sud Corea in Asia; Colombia, Costa Rica, Panama, Paraguay in Centro e Sud America. Si noti l’esclusione in via di principio dei BRICS. I colloqui si svolgono a Ginevra e sono presieduti a turno da Stati Uniti, UE ed Australia ed a fine anno 2014, giungeranno al 10° round.  La secretazione del TISA ha dell’incredibile prevedendo la pubblicizzazione solo cinque anni dopo sia che sia, sia che non sia entrato in vigore. L’unico squarcio di informazione si deve ad un documento apparso su Wikileaks anche se solo riferito all’appendice relativa ai servizi finanziari.

Si punterebbe ad una ulteriore e definitiva deregolamentazione finanziaria, accelerazioni delle liberalizzazioni e privatizzazioni, perdita ulteriore di controllo e stoccaggio dati per gli stati con espansione de-territorializzata delle transazioni on line totalmente prive di controllo , sovra giurisdizione delle norme indifferenti ed invulnerabili a quelle nazionali. I punti relativi ai servizi non finanziari punterebbero alla conversione privatistica dei settori dell’educazione, della sanità, della difesa. Il trattato è ovviamente sospinto da lobbies tra cui il Team Tisa che riunisce 57 multinazionali, tutte americane.

  1. ELEMENTI GENERALI DI VALUTAZIONE DEI TRATTATI.

Le discussioni su TPP e TTIP hanno sedimentato una serie di punti controversi su cui occorre riflettere in generale, oltre alle ben note questioni sulla segretezza ed opacità dei contenuti, i polli al cloro, la carne agli ormoni, gli OGM, le esternalità ambientali e il negativo impatto occupazionale.

  1. Questi trattati vengono presentati come riferiti a questioni genuinamente economiche, ma la loro ratio intrinseca è politica o meglio geo-politica. Si dovrebbe chiarire il punto perché essendo quello che muove al processo e non essendo questo oggetto di aperto dibattito, si trasforma in formale una questione che invece è sostanziale. Inoltre agiscono fattori di logica interna. Se veramente la ratio di questi trattati è geopolitica la loro “convenienza” reale sarà valutata su quel piano ed è quindi assai improbabile che contengano effettivamente le convenienze economico-occupazionali che studi commissionati ad hoc, sembrano promettere. Questo è un punto di fondamentale ambiguità.
  2. In linea generale non esiste solo la contrapposizione ideologica “libero scambio vs autarchia”. Esiste invece la contrapposizione realistica  tra libero scambio e scambio ragionevole. Tale contrapposizione esiste dai primi del  XIX° secolo. Un economista liberale, ma tedesco (non britannico, cioè con logica diversa dall’impero allora dominante) F. List, eccepiva che la totale libertà di scambio favorisce sempre il più forte. Questo è già presente in molte merceologie, ha già realizzato economie di scala e ha più longevi know how. List si riferiva a gli stati ma oggi il discorso vale anche per le imprese, le multinazionali americane, inglesi, francesi, tedesche, olandesi vs la pletora di PMI di cui è ricca l’Europa e l’Italia in particolare. In termini di Stato, offrire un settore debole alla totalmente libera concorrenza, significa non solo perdere questa o quella azienda e la relativa occupazione ma nel medio-lungo periodo, l’intero settore. Esistono settori strategici, settori che persi, condizionano strutturalmente l’assetto completo del sistema economico e finanziario di un paese. Si pensi all’acciaio, ai semilavorati, alla diversificazione delle forniture energetiche, alle telecomunicazioni etc. . Nella “civiltà dei consumi” poi, il concetto di settore se non strategico, “importante”, allargherebbe ulteriormente il discorso. Queste perdite strategiche costituiscono la formazione di una dipendenza strutturale, di una limitazione forte dei gradi di libertà dei processi di sviluppo dei singoli paesi, un condizionamento che nel lungo periodo diventa totalmente politico. Know how persi per più di una generazione perché quel settore non ha retto la concorrenza, non si riacquisiscono facilmente e costituiscono un handicap all’autonomia della nazione. Si ricordi che le economie sono nazionali, anche quando sono formate da operatori privati, poiché le nazioni si basano su lavoro e tasse e la presunta equivalenza benessere dell’economia privata = benessere dell’intera comunità nazionale non solo non è mai stata provata, ma si hanno molte prove del contrario (risultati stessi della globalizzazione, del NAFTA, della recente esplosione della banco finanza e delle relative bolle). In Europa, dopo i fallimenti della globalizzazione, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, del delirio banco-finanziario e dell’euro, gli stessi e soliti proponenti, giungono oggi a proporre nuovi trattati dalle mirabolanti prospettive di occupazione e crescita. Sarebbe come un venditore di aspirapolvere che per ben quattro volte ci ha rifilato una fregatura ed a cui continuiamo ad aprire la porta ben pieni di speranza. Irrazionale.
  3. Il commercio internazionale presenta sempre un irrisolvibile problema sul piano del diritto. Gli stati nazione nascono tra l’altro proprio per dare la cornice di diritto allo scambio commerciale, all’impresa, a gli standard di numero-peso-misura, alla solvenza della valuta, debiti, contrasti, norme su i limiti etc. I tribunali sono gli strumenti operativi per il funzionamento del regolamento. Quando si fanno trattati bi o multilaterali, si stabiliscono una serie di norme-cornice le quali dovrebbero regolare il diritto conformemente allo spirito del trattato, ma questo spirito del trattato non coincide mai per definizione con lo spirito della giurisprudenza nazionale, proprio perché sono due o più nazioni a dover fondere le proprie giurisprudenze. Ne vengono fuori diversi conflitti di diritto tant’è che i trattati internazionali godono spesso di uno speciale statuto di variazione costituzionale cioè prefigurano una meta costituzione (che non c’è) che è più della somma di quelle dei paesi contraenti. A dire che il diritto commerciale non è un di cui estraibile dal diritto generale e modificabile in base alle convenienze di un trattato occasionale, perché il diritto è un tuttuno intrecciato e complesso. Questo è vero e dimostrato dall’idea di introdurre tribunali extra-territoriali, ovvero tribunali che rispondono alla logica dei trattati e non a quelle delle giurisprudenze nazionali. Va da sé che i giudizi così condizionati saranno sempre e per forza in favore della logica dei trattati anche quando queste sono palesemente fallaci. La logica dell’ asimmetria della potenza poi, non prevede di discutere faccende come quelle dello spionaggio e stoccaggio di dati sensibili di cui si nutre il sistema americano. Che trattati così complessi siano discussi da così poche persone e certo non da giudici costituzionali, in gran segreto, per motivi geopolitici che hanno una logica del tutto aliena non solo a quella intrinsecamente economica, ma anche a quella giuridica, in così poco tempo, è la perfetta garanzia di creazione di veri e propri mostri di ingiustizia. Ma di una ingiustizia inemendabile, sanzionata da tribunali speciali che non hanno alcun livello superiore a cui appellarsi. La logica dei trattati, è sempre quella del momento in cui sono stati scritti e purtroppo non è flessibile. Non c’è in sostanza l’interpretazione, ma la letteralità, come in certe interpretazioni del Corano, porta sempre a fondamentalismi, in questo caso, fondamentalismo di mercato. Si forma così un prepotente diritto all’ingiustizia invulnerabile ad ogni dialettica politica.
  4. Vi è poi una contrapposizione tra i concetti di standard e varietà. Questi trattati favoriscono esplicitamente la creazione di standard, di unificazioni, di appiattimenti, di dominanti, sono il trionfo della quantità sulla qualità. Questo ha un forte impatto culturale. I francesi si sono già dichiarati indisponibili ad includere nella trattativa i settori produttori di cultura, così in Giappone è sorta tutta una questione su i manga e la cultura underground. Ma cultura non è solo ciò che ha l’etichetta esplicita di cultura. Come lavoriamo, come mangiamo, i valori, la pubblicità, ciò che dice la legge, i comportamenti economici che poi diventano sociali, sono tutte componenti della “cultura”. Il modello culturale di riferimento dei trattati è quello dello standard massificato, che è poi quello americano, peccato non sia il nostro e peccato che nell’era della complessità così come è negativo eliminare biodiversità, è negativo eliminare diversità culturale. Perdere diversità è infatti perdere resilienza, perdere libertà e questo si traduce in definitiva in una minorità, in una mancanza di alternativa, quindi di flessibilità ovvero in un aumento della rigidità. L’esatto contrario di ciò che si prescrive per affrontare i complessi tempi futuri. Attraverso degli “innocui” trattati infatti, si comincia con il commercio e si finisce con l’omologazione strutturale completa, con la colonizzazione strutturale. Questa è l’ennesima e non discussa scelta disadattativa alla sempre maggiore complessità del mondo.
  5. Un problema ulteriore, mai dichiarato, è che l’economia è fatta di merci, servizi, regole di scambio, cornici normative certo ma le cose si vendono e comprano con i soldi, ovvero con le valute. E’ noto che il dollaro è gestito da una banca centrale che stampa in grande quantità ed all’occorrenza svaluta ed è noto che invece l’euro è gestito da una banca che non stampa a richiesta e non svaluta. Nel campo americano inoltre, come abbiamo già indicato, ci si muoverà non solo vs la concorrenza indigena, ma anche vs la concorrenza dei paesi TPP, molti dei quali hanno una gestione della valuta ancorpiù disinvolta. E’ inconcepibile che l’ Europa vada a firmar trattati concorrenziali con competitor che possono fare dumping valutario mentre lei se lo impedisce a priori (vedi Trattato di Maastricht). Che si pensi conveniente per il mercato americano che compra in dollari, merci in euro (se si hanno alternative) è puro delirio. Questo è fuori da qualsiasi logica.
  6. L’intera logica della strategia dei trattati è quella di obbligare i singoli paesi tanto europei, quanto del Pacifico, gli attori industriali, agricoli e dei servizi, l’intera architettura della banco-finanza a formattarsi secondo gli standard americani, cosa che non riuscì per le vie troppo aperte del WTO ovvero per l’opposizione dei BRICS che sono specificatamente e serialmente i soggetti lasciati fuori da tutti e tre i trattati. All’appello americano rispondono eccitate le lobby atlantiste, multinazionali e banco-finanziarie europee, lobby che promuovono l’interesse dei Pochi e non certo dei Molti, che puntano a barattare i loro vantaggi in cambio della nostra integrale colonizzazione strutturale che, una volta operata, sarebbe nei fatti difficilmente reversibile.

La logica sottostante la strategia dei trattati è ambigua, irrazionale, ingiusta, disadattativa, illogica, coloniale. Questo perché, come già detto ma val bene ripeterlo, la logica non è commerciale, ma geopolitica.

6. CONCLUSIONI.

Il fine strutturale dei due trattati è creare due comunità economiche (TTIP e TPP) che sommano al 63% del Pil mondiale, dominate dal leader mondiale USA che detiene il 22,5% del Pil mondiale e la leadership assoluta del mercato finanziario, cioè della circolazione dei capitali. Lo schema è lo stesso delle società quotate in borsa, una minoranza (il 22,5%) controlla una azienda massiccia (il 63% del Pil mondiale) che controlla l’intero mercato. Le prime dieci compagnie di export USA controllano il 96% di tutto l’export statunitense (le prime dieci europee l’85%), loro e la banco-finanza anglo-americana sarebbero i principali beneficiari del nuovo sistema dal punto di vista economico.

Il fine a breve termine è altresì triplice. Il primo è potersi permettere di promettere di frenare la contrazione occidentale insidiata da tutta la pletora delle economie emergenti. Ma le stime di attribuzione di vantaggi nella riattivazione della crescita sono del tutto inaffidabili. Il commercio internazionale, ormai quasi del tutto libero, già esiste. I trattati ovviamente non si curano della limitazione delle risorse (risorse che in quanto materie prime rimarrebbero in grande parte nei paesi fuori dei trattati) e della saturazione dei consumi, né delle diseguaglianze che hanno depauperato i poteri d’acquisto. Il secondo è porre gli USA come perno centrale della coalizione creata dai due trattati secondo la strategia “hub & spoke”. Gli USA con i suoi 316 milioni di cittadini ed il 35,7% del valore economico del totale delle due comunità create con i due trattati sarebbero il sole del nuovo sistema. “Hub & spoke” sta per mozzo e raggi, come nella ruota della bicicletta, il mozzo sarebbe il luogo centrale, gli USA, i raggi sarebbero i singoli paesi, la ruota sarebbe il sistema generale che governa i destini del mondo, l’espressione è nota in geopolitica come dottrina Kissinger. In termini di complessità, l’idea ricorrerebbe alla Teoria del caos deterministico con gli USA a fare da “attrattore” nello spazio delle fasi geopolitiche. Il terzo è  soffocare l’area di potenziale sviluppo delle nuove economie emergenti. La strategia ha un corollario di operazioni che verranno deliberate vs Africa, Sud America ed India, mentre è in corso il riassestamento del Medio Oriente con la creazione di nuove entità statali e nuovi confini. La separazione forzata tra Europa e Russia è già avanzata in seguito all’affaire ucraino. Questo dovrebbe garantire l’emarginazione totale di Russia e Cina che sono , soprattutto i secondi, i competitor più temuti. I due trattati puntano a creare un sistema di lunga durata, basato sull’uniformità di tutti gli standard sociali, culturali, normativi, valutari, banco-finanziari ed economici a quelli vigenti negli Stati Uniti e creante di fatto, una dipendenza di tutti dagli USA ma degli USA con nessuno nello specifico.

bricsSi realizzerebbe così l’obiettivo geopolitico primario: impedire la creazione di un mondo multipolare per rimanere l’unico polo in grado di controllare un mondo sempre più complesso. Il beneficio a lungo termine sarebbe infatti che la struttura multinazionale e banco-finanziaria anglosassone dominerebbe un mercato economico che sempre più esautora la politica, la democrazia e la sovranità delle singole comunità nazionali, garantendo il controllo diretto ed indiretto della nuova complessità planetaria al sistema dominante, quello degli Stati Uniti d’America, basato su imprese multi-trans-nazionali, banco-finanza e dollaro e quando non basta, l’esercito di gran lunga più potente del pianeta.

Sotto tutto questo, c’è chi pensa di metterci una firma anche in nome e per conto nostro. Bisognerà fargli capire che non siamo proprio d’accordo.

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