Gli uomini affetti da cancro alla prostata metastatico vivono più a lungo grazie ai nuovi farmaci

Gli uomini affetti da cancro alla prostata metastatico vivono più a lungo grazie ai nuovi farmaci

Cellule tumorali della prostata. Credito: Galleria di immagini NIH

I tassi di sopravvivenza per gli uomini con cancro alla prostata metastatico sono aumentati in media di sei mesi, cosa che coincide con la graduale introduzione del “doppio trattamento” dal 2016. Questo è secondo uno studio registrato su tutti gli uomini svedesi diagnosticati tra il 2008 e il 2020. i risultati sono pubblicati su JAMA Network open.

Il doppio trattamento significa che i pazienti ricevono sia la terapia ormonale standard (terapia con GnRH) sia la chemioterapia o i bloccanti dei recettori degli androgeni. La ricerca ha precedentemente dimostrato che gli uomini che ricevono questo trattamento vivono circa un anno in più rispetto a quelli che ricevono il solo trattamento con GnRH.

“Il doppio trattamento per gli uomini con cancro alla prostata metastatico di nuova diagnosi è stato gradualmente introdotto in Svezia dopo che sono arrivati ​​i risultati degli studi randomizzati, e il doppio trattamento è ora raccomandato nel programma nazionale di cura per il cancro alla prostata . Volevamo vedere se il cambiamento nel trattamento di questi pazienti è stato seguito da un aumento della sopravvivenza,” spiega Marcus Westerberg del Dipartimento di Scienze Chirurgiche dell’Università di Uppsala, uno dei ricercatori dietro lo studio.

I ricercatori dell’Università di Uppsala e dell’Ospedale San Raffaele di Milano, in Italia, hanno utilizzato il Registro nazionale dei tumori alla prostata (NPCR) per studiare tutti gli uomini con diagnosi di cancro alla prostata metastatico in Svezia tra il 2008 e il 2020.

I risultati hanno mostrato che nel 2016 solo l’1% degli uomini in questa fase ha ricevuto la doppia terapia, mentre il 40% l’ha ricevuta nel 2020. L’aumento maggiore è stato tra gli uomini di età inferiore a 65 anni e l’aumento più piccolo tra gli uomini sopra gli 80 anni.

Il tasso medio di sopravvivenza tra questi uomini è aumentato da 2,7 tra il 2008 e il 2012 a 3,2 anni nel 2017-2020; equivalente ad un aumento di circa sei mesi. Il maggiore aumento della sopravvivenza si è verificato tra gli uomini sotto gli 80 anni. Nell’analisi i ricercatori hanno preso in considerazione anche l’età e altre malattie.

“Sebbene sia necessario prestare attenzione nell’interpretazione dei nostri risultati, abbiamo riscontrato una chiara associazione temporale tra l’introduzione del doppio trattamento e il miglioramento dei tassi di sopravvivenza . Lo studio suggerisce che i trattamenti che hanno avuto successo negli studi randomizzati hanno successo anche a livello di popolazione quando introdotti in cure di routine”, conclude Westerberg

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Ricercatori scoprono il meccanismo attraverso il quale le cellule tumorali diventano resistenti alla chemioterapia nel cancro del colon-retto

Ricercatori scoprono il meccanismo attraverso il quale le cellule tumorali diventano resistenti alla chemioterapia nel cancro del colon-retto

Accumulo di oxaliplatino nel microambiente tumorale di un paziente con cancro del colon 44 giorni dopo il trattamento. Credito: IMIM

La chemioterapia a base di platino, che viene utilizzata per trattare il cancro del colon-retto avanzato, si accumula nelle cellule sane che circondano le cellule tumorali e, di conseguenza, può ridurre la sensibilità del tumore al trattamento. Lo dimostra uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications dall’Hospital del Mar Medical Research Institute (IMIM-Hospital del Mar), in collaborazione con INCLIVA Health Research Institute, Catalan Institute of Oncology (ICO), Vall d’ Hebron Institute of Oncology (VHIO), l’Istituto di ricerca in biomedicina (IRB) di Barcellona, ​​l’Università di Oviedo e il CIBER of cancer (CIBERONC).

Un gran numero di malati di cancro viene trattato con una terapia a base di platino. Tuttavia, molti tumori sono in grado di sviluppare resistenza al trattamento. In questo studio, i ricercatori hanno esaminato campioni tumorali di pazienti e modelli preclinici di cancro del colon-retto per comprendere meglio la resistenza alla terapia a base di platino. Hanno osservato che il platino si accumula in modo prominente nelle cellule sane che circondano le cellule tumorali , in particolare nei fibroblasti, le cellule che contribuiscono alla formazione dei tessuti. Inoltre, questo accumulo persiste per più di due anni dopo il completamento del trattamento. Questa scoperta è stata fatta utilizzando tecniche sviluppate in geologia e applicate a campioni biologici.

L’effetto del platino sui fibroblasti

I ricercatori sono riusciti a dimostrare come l’accumulo di platino nei fibroblasti inducesse l’attivazione di alcuni geni associati a una scarsa risposta alla chemioterapia e alla progressione tumorale. Tra questi, la proteina TGF-β ha reindirizzato questi fibroblasti per supportare l’aggressività delle cellule tumorali e la resistenza al trattamento. In questo senso, il dottor Alexandre Calon, capo del laboratorio di ricerca traslazionale nel microambiente tumorale dell’IMIM-Hospital del Mar e che guida questo studio, sottolinea che “l’attivazione dei fibroblasti da parte dell’oxaliplatino può generare meccanismi di resistenza alla stessa chemioterapia. “

Non ci sono attualmente biomarcatori predittivi di beneficio dalla chemioterapia nel cancro del colon-retto. L’analisi di una trentina di pazienti prima e dopo la chemioterapia presentata in questo studio rivela che i livelli di periostina sono un indicatore dell’attività del TGF-β nei fibroblasti e fungono da robusto marcatore di risposta alla chemioterapia. Infatti, il beneficio del trattamento è stato significativamente ridotto nei pazienti con livelli elevati di periostina prima e/o dopo la chemioterapia. Di conseguenza, la chemioterapia è risultata meno efficace nei tumori con alti livelli di periostina nei modelli preclinici di cancro del colon-retto.

Di conseguenza, la dott.ssa Jenniffer Linares, prima autrice dello studio, afferma che “abbiamo scoperto un meccanismo di resistenza alla chemioterapia a base di platino e un marker di questa resistenza nei pazienti con cancro del colon-retto”. Secondo il dottor Calon, questo dimostra l’importanza di considerare il microambiente tumorale quando si sviluppano trattamenti contro il cancro. “Le chemioterapie sono attualmente valutate in base al loro effetto sulle cellule tumorali, non sulle cellule sane che formano il microambiente tumorale e proteggono le cellule tumorali”, afferma.

Trovare un modo per superare la resistenza al trattamento

I ricercatori stanno ora lavorando allo sviluppo di un nuovo approccio per migliorare l’efficacia della chemioterapia nel cancro colorettale. Questo nuovo studio in attesa di pubblicazione si basa sulla combinazione di farmaci con un peptide che impedisce l’accumulo di platino nei fibroblasti.

Secondo il dottor Andrés Cervantes, direttore scientifico dell’Istituto di ricerca biomedica INCLIVA e CIBERONC, “questi risultati evidenziano il ruolo che le cellule non cancerose possono svolgere nella risposta alla chemioterapia e aprono la strada all’oncologia di precisione riconoscendo la diversità dei meccanismi di sensibilità e resistenza ai trattamenti e agendo su di essi, consentendo una cura del paziente più personalizzata.”

“Questo studio è un passo importante verso la comprensione del motivo per cui la chemioterapia non funziona allo stesso modo in tutti i malati di cancro e come prevenire o invertire la resistenza. Questo lavoro è anche essenziale per dimostrare che il trattamento del cancro deve tenere conto non solo delle cellule tumorali ma anche anche le cellule sane nel tumore.Il prossimo passo fondamentale sarà sviluppare strategie farmacologiche che agiscano sulla cellula tumorale e modulino il microambiente a favore dell’eliminazione del tumore”, aggiunge la dott.ssa Clara Montagut, responsabile della sezione tumori gastrointestinali dell’Hospital del Mar e CIBERONC.

More information: Jenniffer Linares et al, Long-term platinum-based drug accumulation in cancer-associated fibroblasts promotes colorectal cancer progression and resistance to therapy, Nature Communications (2023). DOI: 10.1038/s41467-023-36334-1

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Cancro: ebbene sì, in Usa si studia il bicarbonato

Cancro: ebbene sì, in Usa si studia il bicarbonato

Maurizio Blondet – tratto dal sito Effedieffe – http://www.effedieffe.com/

sodiumbicarbonate

Inanzitutto la notizia, segnalata da un lettore:
«Il National Institute of Healt ha asssegnato un finanziamento di 2 milioni di dollari al dottor Mark Pagel, del Cancer Center dell’Università dell’Arizona, per affinare la sua ricerca sull’uso del bicarbonato di sodio nella terapia del cancro al seno».

Presto «comincerà una sperimentazione clinica sugli effetti del bicarbonato contro il cancro sugli esseri umani. (…) Precedenti ricerche sui ratti hanno dimostrato che il bicarbonato per via orale aumenta il pH tumorale (ossia diminuisce l’acidità) e riduce le metastasi del cancro al seno e alla prostata».

Così, a quanto pare, avrebbe ragione l’oncologo italiano Tullio Simoncini, che è stato radiato dall’Ordine dei medici perchè pretende di trattare il cancro inondando la zona di bicarbonato al 5%.

La notizia americana vendica anche il dottor Stefano Fais, gastroenterologo, che da anni cerca di promuovere il trattamento del cancro con somministrazione di «inibitori della pompa protonica» (nome sofisticato per i comuni farmaci antiacidi, che sono somministrati per l’ulcera). Il dottor Fais è sicuro che tali anti-acidi (lui usa il lansoprazolo) possono addirittura bloccare i tumori che sono diventati resistenti alla chemioterapia; ma non riesce a trovare cliniche disposte ad avviare una sperimentazione clinica su pazienti volontari; e ciò nonostante il dottor Fais non sia affatto un medico «selvaggio», bensì un direttore dell’ufficialissimo Istituto Superiore di Sanità, e più precisamente direttore del Dipartimento dei farmaci tumorali nel suddetto Istituto. Dunque uno che, quando parla, dovrebbe essere ascoltato: invece il dottor Fais s’è spesso lamentato anche sui media di «non riuscire a trovare un ospedale disposto a provare a trattare i cancerosi coi soli antiacidi», ottenendo al massimo che vengano usati insieme alla chemioterapia; anche se adesso sembra che qualcosa stia cambiando in meglio (QeA With Dr Stefano Fais – PPI and Cancer).

Tutti e tre i medici, l’americano Pagel e i due italiani, seguono lo stesso razionale, del resto ben noto a tutti gli oncologi: il tumore prospera in ambiente acido ed anzi lo genera attorno a sé, con ciò favorendo le metastasi; le cellule normali infatti muoiono in quell’alto livello di acidità in cui il cancro cresce. Dunque aumentare l’alcalinità dei circostanti tessuti, con il bicarbonato o gli anti-acidi, contrasta il proliferare delle cellule tumorali e pare che le obblighi ad auto-eliminarsi (apoptosi).

Anche le diete anti-cancro oggi raccomandate – abolizione della carne rossa, dei formaggi fermentati e riduzione delle proteine animali in genere, rinuncia agli zuccheri e carboidrati raffinati, e invece grandi quantità di verdura come cavoli e broccoli – sono diete alcalinizzanti. Il sangue umano, se sano, è lievemente alcalino (pH 7,4), e più è reso «acido» da diete carnee, meno bene ossigena le cellule; il mare è alcalino decisamente (pH 8,1), le acque minerali curative ancora di più (fra 9 e 11).

Dell’efficacia della terapia Simoncini posso testimoniare: un mio conoscente americano con cancro al fegato e pancreas quarto stadio, viene a Roma tutto giallo per ittero – la massa tumorale schiaccia il dotto biliare e lo occlude, sicchè la bile circola nel sangue – e con il prurito insopportabile collegato all’itterizia. Simoncini gli fa praticare una piccola apertura chirurgica sul ventre, e attraverso questa lo stesso paziente si inietta, più volte al giorno, siringoni di acqua e bicarbonato al 5%. Ebbene: in pochi giorni l’ittero scompare e sparisce il prurito, segno inequivocabile che la masssa tumorale s’è ridotta. Purtroppo il paziente è morto qualche settimana dopo a causa di una setticemia, perchè il sistema immunitario di un canceroso è ovviamente indebolito – altrimenti non si sarebbe sviluppato il tumore.

S’intende, quella di Simoncini non è la cura del cancro; esso può tornare. Ma è certo che ha migliorato la qualità della vita, e so di pazienti che sono invece completamente guariti – probabilmente perchè il sistema immunitario, che sorveglia ed elimina le cellule anomale che il nostro organismo produce nella mitosi fin dal loro apparire, aveva superato lo squilibrio, ed era tornato alla sua attiva funzione di «sorveglianza».
Il punto è che nemmeno la chemioterapia è la «cura» del cancro, e pretende di ottenere una riduzione del volume o rallentamento della proliferazione, ciò che a quanto pare Simoncini (e il dottor Fais) ottengono con l’alcalinizzazione dei tessuti, e senza effetti collaterali.

Resta da spiegare questo fatto: come mai in USA, un medico che studia la terapia col bicarbonato riceve un finanziamento pubblico di 2 milioni di dollari, in Italia, viene processato per truffa e omicidio colposo, radiato dall’albo dei medici e disonorato, come si faceva una volta (ora non più) per i medici che procuravano aborti?
In Italia, ai medici ospedalieri è vietato consigliare trattamenti alternativi alla chemioterapia ufficiale per contratto (vien loro fatta firmare una apposita clausola) e sotto pena di licenziamento. Per stroncare la terapia Di Bella, la ministra della Sanità di allora, Rosy Bindi, fece cancellare dal prontuario nazionale i farmaci che Di Bella usava, onde non poterono nemmeno essere prescritti (persino l’innocua melatonina, oggi in vendita nei supermercati, i pazienti dovevano farsela mandare dalla Svizzera). Da ultimo il caro dottor Paolo Rossaro di Padova, che cura con l’acido ascorbico in vena ad alte dosi (un protocollo adottato dalla clinica universitaria del Kansas), è stato sospeso e condannato a pagare 500 mila euro per danni ai parenti di un paziente morto dopo, o nonostante, il trattamento.

Un giorno ci si dovrà spiegare come mai l’oncologia ufficiale, che inietta ai pazienti sostanze che «mettono l’inferno nel corpo dei malati» (com’ebbe a dire il professor Vittorio Staudacher, membro del Comitato Etico dell’Istituto Nazionale dei Tumori), è riuscita a creare in Italia un simile clima di chiusura verso ricerche promettenti, e di persecuzione di chi le sperimenta.
Naturalmente è difficile chiamare in causa per questa situazione Umberto Veronesi, di professione miliardario, e della sua sinistra egemonia nella cancerologia italiana; probabilmente bisogna chiamare in causa i vasti interessi delle multinazionali farmaceutiche, che da queste «cure» ricavano miliardi (ogni malato di cancro costa al servizio sanitario, con gli attuali protocolli chemioterapici, 60-80 mila euro l’anno), di cui Veronesi e la sua covata di oncologi è solo l’espressione.

Non si dimentichi che la conferma che il bicarbonato riduce il volume dei tumori molto meglio che le chemioterapie citotossiche, segnerebbe la fine ingloriosa di schiere di cattedratici universitari, di folle di primarii pagatissimi, e di linee di ricerca fallimentari: tutta gente che diverrebbe inutile. È logico che difendano le loro posizioni, anche a prezzo della vita dei malati.
E tuttavia, come si constata, in USA è ancora possibile sperimentare trattamenti alternativi, senza finire in galera; solo in Italia esistono argomenti-tabù fino al punto che forze di potere, dalla magistratura ai politici ad «oncologi» miliardari, reagiscono a chi prova ad infrangerli distruggendo la persona, professionalmente e umanamente, gli tappa la bocca, li condanna per omicidio (ma quanti ne ha uccisi la chemio? Quanti ne ha uccisi Veronesi? Non si calcola mai).

Alla fine, quella che poteva essere una gloria italiana, e passare alla storia come «protocollo Simoncini» o «protocollo Fais», si chiamerà invece «Protocollo Pagel». Ma anche questo è un evento ricorrente, nella storia italiana.

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