Area Euro. Deflazione o LowFlation ?

Area Euro. Deflazione o LowFlation ?

Il 4 Marzo 2014, su IMF diect, è stato pubblicato un interessante aricolo sull’area euro che metteva in risalto alcuni punti salienti della bassa inflazione e sulla deflazione. I redattori Reza Moghadam , Ranjit Teja  e Pelin Berkmen, hanno fatto una documentata analisi con la quale cercano di far capire come la bassa inflazione e una lieve deflazione, possa contribuire al rilancio o quanto meno, alla possibilità di rilancio economico nel medio lungo periodo.  Chiaramente, a distanza di mesi e con il perdurare della così detta ” lowflation “, non solo in alcuni paesi periferice come l’Italia, si è entrati in vera e propria deflazione, ma si è dimostrato che la lowflation ha gli stessi effetti della deflazione.

Anche Paul Krugman aveva contestato questo studio, e adesso ne abbiamo la prova, che l’Europa era già in una trappola lowflationary, qualitativamente lo stesso di una trappola deflazionistica. Riporto l’intero articolo con traduzione google, abbastanza comprensibile. Link all’originale QUI

 

Parlare di deflazione nell’area dell’euro ha suscitato due tipi di reazioni. Da una parte ci sono coloro che si preoccupano per la prospettiva associata di recessione prolungata. D’altro sono coloro che vedono il rischio come esagerata. Questo blog e il video qui sotto vagliare entrambi i lati del dibattito per discutere il seguente: Anche se l’inflazione-headline e core-è caduto ed è rimasto ben al di sotto del 2% il mandato di stabilità dei prezzi della BCE, finora non vi è alcun segno di deflazione classico, vale a dire, di cali diffusi, auto-alimentazione, prezzo. Ma anche ultra bassa inflazione-chiamiamolo “lowflation”, può essere problematico per l’area dell’euro nel suo complesso e per i paesi finanziariamente stressati, dove essa implica maggiori titoli di debito reale e tassi di interesse reali, al netto di adeguamento dei prezzi relativi, e una maggiore disoccupazione . Insieme con l’esperienza del Giappone, che ha visto la deflazione worm si nel sistema, questo sostiene la necessità di un approccio più preventivo da parte della BCE.

I. Esiste deflazione?

Mario Draghi ha descritto la deflazione nell’area dell’euro come una situazione in cui si verificano cali del livello dei prezzi (1) in un numero significativo di paesi; (2) in un numero significativo di merci; e (3) in modo che si autoavvera. Secondo questa definizione, il termine “deflazione” è probabilmente un’esagerazione. In primo luogo, sulla portata geografica, le recenti variazioni di prezzo sono stati positivi in ​​tutti, ma 3 paesi (rispetto a 12 paesi di recente, nel 2009). eur-update_feb2014_deflation-blog-002 In secondo luogo, per quanto riguarda l’incidenza attraverso beni e servizi, il calo dei prezzi definitive rappresentano solo un quinto del paniere dello IAPC – non una quota elevata e, di nuovo, non più rispetto al 2009, quando l’evento passò senza conseguenze deflazionistico. eur-update_feb2014_deflation-blog-003 In terzo luogo, è che c’è una inflazione corrente “si autoavvera” dinamica, nel senso che prevede che l’inflazione futura sta trascinando verso il basso? Qui la risposta è meno ovvia. Se per l’inflazione attesa in futuro intendiamo tassi a lungo termine, allora la risposta è no: l’inflazione atteso 5-10 anni fuori è piatta e quindi non potevano essere la causa del calo dell’inflazione corrente. Ma se consideriamo l’inflazione 2-4 anno di anticipo previsto, l’orizzonte temporale rilevante per molte decisioni di spesa e le trattative salariali, questi sono in calo e potrebbe essere che interessano l’inflazione corrente. Detto questo, l’inflazione effettiva è stabilizzata nel mese di febbraio al 0,8%. eur-update_feb2014_deflation-blog-004

II. Ma se non è “deflazione”, qual è il problema?

Nel contesto europeo attuale, anche molto bassa inflazione può far naufragare il recupero nascente e la pressione dei paesi più fragili. Problema # 1 Sia la deflazione e meno-che-precedentemente previsto l’inflazione aumenta l’onere reale del debito esistente ed il tasso di interesse reale che i mutuatari pagano. Come spesso accade, i paesi con la deflazione / inflazione bassa, segnato rosso nel grafico qui sotto, capita anche di essere quelli con oneri del debito già elevati tassi (privato + pubblico) e reali, e comprendono tutti i paesi che sono stati sotto pressione del mercato durante la crisi. eur-update_feb2014_deflation-blog-005

Problema # 2

Mentre deflazione / inflazione più bassi in paesi ad alto indebitamento è doloroso per loro, almeno migliora prezzi relativi, e quindi le esportazioni e sostenibilità delle partite correnti. Purtroppo, quando l’inflazione si trasforma basso ovunque nella zona euro, ogni unità di deflazione / bassa inflazione subita dai paesi indebitati offre meno adeguamento dei prezzi rispetto ai paesi eccedentari. Oppure, in altre parole, ogni punto di aggiustamento dei prezzi relativa deve essere acquistato a costo di una maggiore deflazione del debito. Problema # 3 Quando la domanda si riduce ei salari nominali sono appiccicosi, il colpo di disoccupazione è attutito da qualsiasi inflazione in corso, che riduce efficacemente i salari reali che le imprese pagano. Quel cuscino è ormai assolutamente necessario. In Spagna, si vede nella tabella che, dopo la crisi, la distribuzione dei salari sbattuto contro la barriera di zero, con il 30% della distribuzione concentrata lì. Dato salari nominali appiccicose, nei pressi di inflazione pari a zero in Spagna non aiuta a risolvere il problema della disoccupazione grave lì. eur-update_feb2014_deflation-blog-006III. Quali sono le lezioni dall’esperienza del Giappone? Ci sono almeno due.

Lezione # 1

Uno non dovrebbe prendere troppo conforto nel fatto che le aspettative di inflazione a lungo termine sono positive (oltre il 2% nell’area dell’euro). Aspettative di inflazione a lungo termine alla vigilia di tre episodi di deflazione in Giappone erano anche rassicurante positivi. Ma le aspettative più vicino termine girato più pessimista, alimentando la spesa e le decisioni dei salari e la distribuzione di deflazione reale. Le aspettative a lungo termine regolati troppo poco e troppo lentamente per essere una guida utile per la politica monetaria. L’asporto: non – così – le aspettative di inflazione a lungo termine, che abbiamo visto sono in calo nella zona euro, anche bisogno di essere tenuto in debita considerazione. eur-update_feb2014_deflation-blog-008 eur-update_feb2014_deflation-blog-009

Lezione # 2

Bisogna agire con forza prima serie di deflazione in. Come mostrato di seguito, la Banca del Giappone è stato relativamente lento nel ridurre i tassi ufficiali e far aumentare la base monetaria. Nel caso, si è dovuto ricorrere a sempre crescente stimolo, una volta impostato in deflazione (aree grigie ombreggiate nel secondo grafico). Due decenni, che lo sforzo è ancora in corso. eur-update_feb2014_deflation-blog-010 eur-update_feb2014_deflation-blog-011

IV. Conclusione

Si può avere troppo di una cosa buona, tra cui una bassa inflazione. Molto bassa l’inflazione può beneficiare importanti segmenti della popolazione, in particolare i risparmiatori netti. Ma nel contesto attuale dei diffusi problemi di indebitamento, si sta lavorando a scapito della ripresa nell’area dell’euro, soprattutto nei paesi più fragili, dove viene vanificando gli sforzi per ridurre il debito, recuperare competitività e affrontare la disoccupazione. La BCE deve essere sicuro che le politiche siano uguali ai compiti di invertire la deriva verso il basso dell’inflazione e prevenire il rischio di una diapositiva in deflazione. Si dovrebbe quindi considerare ulteriori tagli del tasso di politica e, soprattutto, cercare modi per aumentare sostanzialmente il suo bilancio, sia attraverso ORLT mirati o di quantitative easing (acquisti di asset pubblici e privati).

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Deflazione o politiche keynesiane?

Deflazione o politiche keynesiane?

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Le difficoltà riscontrate nell’adozione di politiche di rilancio keynesiane, hanno prodotto due tendenze: da un lato un crescente disimpegno generalizzato da parte dello Stato nell’economia; dall’altro lo sviluppo di strategie deflazionistiche. Pertanto, la lotta contro le recessioni e la disoccupazione congiunturale rimane un obiettivo possibile solo a condizione di superare il dilemma della globalizzazione attraverso un reale coordinamento internazionale. Ma nell’ipotesi più favorevole, le politiche congiunturali si riveleranno parzialmente impotenti nei confronti di un rallentamento della crescita o di una crescita della disoccupazione che costituiscono sempre più fenomeni strutturali indipendenti dalla domanda globale. In tale quadro, si comprende il crescente scetticismo nei confronti delle politiche congiunturali, e la riflessione teorica si rivolge ai possibili contenuti di un’azione strutturale in grado di promuovere e sostenere nuovi meccanismi duraturi di crescita e occupazione.
Per quanto concerne le strategie congiunturali di approccio ai temi del rallentamento della crescita e di incremento della disoccupazione si possono distinguere due principali strategie congiunturali: 1) la deflazione competitiva che si riconosce nelle strategie liberali tradizionali basate sulla competizione e sulla flessibilità di prezzi e salari; 2) il rilancio internazionale che si colloca nell’ambito di una tradizione keynesiana adattata al contesto della globalizzazione.
Per il primo punto, si tratta di una strategia dalla logica teorica, ma per quanto attiene il problema della disoccupazione la sua portata pratica è molto limitata a causa della lentezza dei meccanismi di aggiustamenti proposti. Tale strategia si basa sull’eredità delle tesi classiche: rigore monetario, debole inflazione e tasso di cambio forte, come contributi essenziali alla crescita, all’occupazione e all’equilibrio esterno. Infatti, una politica di rigore monetario e fiscale pone un freno alla domanda interna, un freno all’inflazione, e una forte crescita della disoccupazione. Inoltre, il freno alla domanda limita le importazioni; la deflazione migliora la competitività contribuendo per tale via al riassorbimento del deficit esterno. La crescita della disoccupazione tiene a bada i salari reali, mettendo i lavoratori e i sindacati di fronte alla scelta fra un incremento della disoccupazione o una diminuzione del potere di acquisto dei salari. Oltre che un effetto di stabilizzazione sulla crescita della disoccupazione, il ribasso dei salari reali produce due ulteriori effetti potenziali. La caduta del costo del lavoro aumenta la profittabilità dell’attività di impresa; infatti, a prezzi di vendita invariati essa migliora i margini di profitto. Le imprese sottoposte alla concorrenza sia sul mercato interno che internazionale possono mantenere invariati i tassi di margine di profitto e approfittare della caduta del costo del lavoro per diminuire i prezzi di vendita. La suddivisione tra l’effetto-profittabilità e l’effetto-competitività dipende dal grado di concorrenza, dai tassi di interesse e dal tasso di cambio. Più un settore è esposto alla concorrenza internazionale più gli imprenditori sono spinti alla ricerca di una forte competitività sui prezzi. Un tasso di cambio forte che limita la competitività-prezzi dei prodotti nazionali costringe le imprese a contenere i loro margini e a privilegiare l’effetto-competitività. Tra l’altro, i due effetti descritti hanno conseguenze favorevoli sulla crescita e sull’occupazione. Un miglioramento della competitività implica maggiori livelli di esportazioni e quindi maggiore produzione e occupazione. Uno sviluppo dei profitti favorisce l’investimento e dunque una maggiore domanda nel settore dei beni strumentali. Ciò riduce l’insufficienza del capitale che può costituire un’ulteriore causa strutturale di disoccupazione. Lo sviluppo e la modernizzazione del capitale sono anche condizioni per una maggiore competitività a medio e lungo termine. Complessivamente l’effetto-profittabilità, stimolando l’investimento, ha effetti positivi su produzione e occupazione nel lungo periodo, mentre l’effetto competitività, stimolando la domanda esterna, produce gli stessi risultati in tempi più rapidi.
Infine, altri effetti positivi di aumento di credibilità si possono rilevare presso i mercati finanziari. Quest’ultimi, se sono convinti che il governo è orientato verso politiche di stabilità monetaria, non possono puntare in forma speculativa su ipotesi di future svalutazioni. Di conseguenza i tassi di interesse saranno più deboli con benefici sul livello di accumulazione. Chiaramente l’intera strategia riposa, in gran parte, su una caduta del livello salariale e suppone una politica di sostegno a carattere strutturale destinata a garantire la flessibilità salariale.
Riassumendo, si può affermare che accettando momentaneamente un livello di disoccupazione più elevato si determina una caduta dei salari che migliora la competitività e la profittabilità delle imprese.
Questi due effetti congiunti contribuiscono a rilanciare la produzione e quindi l’occupazione. Inoltre, il miglioramento dei margini di competitività contribuisce a ripristinare l’equilibrio esterno. Ma, in verità, una parte rilevante di questi vantaggi resta puramente teorica a causa della lentezza dei meccanismi di aggiustamento su cui poggia l’intera strategia.
Sempre nell’ambito della strategia di deflazione competitiva si possono rintracciare altre problematiche: 1) la disoccupazione non produce con immediatezza una caduta del livello salariale. Spesso, si pone in evidenza come la crescita della disoccupazione strutturale rafforzi la rigidità verso il basso dei salari; 2) la caduta dei salari ha solo un effetto immediato di stimolo sulla domanda di lavoro (effetto-sostituzione) ma soprattutto un effetto depressivo sui consumi che tende a ridurre la domanda e l’occupazione (effetto-reddito). Tutte le simulazioni effettuate hanno dimostrato che l’effetto reddito domina nel breve periodo con un’ulteriore diminuzione dell’occupazione, e occorrono diversi anni prima che si manifesti un effetto positivo sull’occupazione; 3) l’effetto-profittabilità può prevalere sull’effetto-competitività. Infatti, non appena i salari reali diminuiscono, le imprese possono in un primo momento cercare un miglioramento dei loro profitti e quindi non scaricare sui prezzi la caduta dei costi. L’effetto-competitività, che dovrebbe ripercuotersi sui livelli produttivi e sull’occupazione, limita i suoi effetti sul livello dei profitti (effetto-profittabilità) con effetti su occupazione e produzione solo nel lungo periodo; 4) l’effetto di competitività influenza solo la disoccupazione congiunturale. Infatti, esso influenza soprattutto la domanda e dunque limita solo la disoccupazione congiunturale provocata da domanda insufficiente; 5) l’effetto-competitività è, inoltre, molto limitato quando si tratta di una strategia applicata da tutti i paesi contemporaneamente. Infatti, se tutti i partner commerciali adottano la stessa strategia, il suo effetto è solo simbolico. Dal momento che essi contemporaneamente abbassano salari e prezzi, nessuno migliora la propria competitività relativa. Il risultato è solo un grande marasma mondiale e la persistenza di un’elevata disoccupazione congiunturale.
Tuttavia, i rischi di un’esplosione della disoccupazione e del conflitto sociale e politico riportano, inevitabilmente, le scelte politiche e di politica economica verso strategie di crescita e di maggiore occupazione.
Si tratta di scelte che sul piano mondiale non possono realizzarsi in assenza di un coordinamento internazionale delle politiche economiche. Si è, ormai, consapevoli che politiche nazionali isolate risultano essere di difficile applicazione, dato l’insieme dei vincoli esterni in un contesto di economie globalizzate. La possibilità di realizzare politiche di rilancio efficaci è legata ad ipotesi di reale coordinamento internazionale in grado di neutralizzare in parte i vincoli esterni.
L’approccio keynesiano applicato correttamente ad un contesto economico compatibile rimane uno strumento efficace. Compatibilità di condizioni vuol dire capacità di produzione inutilizzate, deboli vincoli esterni, presenza di lavoratori dalle qualifiche adattabili a occupazioni nei settori con sbocchi insufficienti. Tutte condizioni oggi evidentemente presenti.
In tale quadro, un rilancio della domanda interna può contribuire a un rapido incremento dell’attività produttiva e ridurre la disoccupazione senza accelerare l’inflazione. Quindi, gli strumenti keynesiani di regolazione della domanda sono efficaci per lottare contro una disoccupazione congiunturale legata semplicemente a insufficienze degli sbocchi, a condizione che le imprese dispongano di una capacità produttiva inutilizzata e che si sia in un contesto privo di vincoli esterni.
*Docente di Istituzioni di economia e politica economica, Università di Messina

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