Politiche keynesiane nella zona euro. Impossibili?

Politiche keynesiane nella zona euro. Impossibili?

L’indeterminatezza della durata dello stimolo dai bilanci pubblici – invocato dai keynesiani per rilanciare l’eurozona – viene usata talvolta per argomentare l’inefficacia, anzi la dannosità nel lungo termine delle politiche di deficit spending. Potrebbe essere vero.

Il problema della sostenibilità delle politiche di deficit spending

Supponiamo di avere un’economia piuttosto chiusa, stagnante, simile all’eurozona, con un grave output gap, dove perciò il PIL è determinato dalla domanda aggregata:

  • PIL = 10.000 Mld.
  • Crescita = 0%
  • deficit pubblico = 0 Mld.
  • inflazione = 0%
  • tasso d’interesse nominale = 0%
  • disoccupazione: 10%

Per stimolare la domanda, il 1° anno costruiamo un ponte (spesa: 100 Mld.). Il PIL sale di più (+1.5%), a 10150 Mld., per l’effetto moltiplicatore (1,5); generando circa 0,4*150 di nuove entrate fiscali; il deficit pubblico finale sarà 100 – (0,4*150) = 40. Il modello keynesiano è di breve termine e si ferma qui. Ma cosa succede l’anno dopo?

Se cessa il deficit spending, la domanda – rebus sic stantibus – torna a 10.000 (PIL: -1,5%). Se si mantiene lo stesso deficit e si costruisce un altro ponte, spendendo di nuovo 100, la domanda e il PIL restano fermi a 10150 (+0%). Per continuare a crescere dell’1,5% il secondo anno bisogna fare due ponti: cioè spendere 100+101,5=201,5 Mld. In questo modo il PIL salirà a 10301, però il deficit salirà a 81 mil. E così via. Finché (supponiamo il terzo anno) l’andamento esplosivo delle finanze pubbliche costringerà ad azzerare il deficit pubblico: il che provocherà una recessione (PIL: -3%), che riporterà il PIL al livello depresso di partenza (ma con un debito pubblico più alto di 301,5 Mld). Questo è il problema di lungo termine delle politiche keynesiane, che talvolta sorprende i politici progressisti come Bernie Sanders.

Allora perché le politiche keynesiane normalmente funzionano? Ad esempio negli Stati Uniti del Recovery Act – quando lo stimolo (deficit 2009-10 al 12%) è stato ritirato (deficit 2015 al 2,8% del PIL) -, come mai la ‘recessione di ritorno’ non si è manifestata?

Il primo motivo è che i moltiplicatori sono tanto più alti quanto più la depressione è grave, quanto più grande è il paese in questione, e quanto più la spesa aggiuntiva si concentra in alcuni settori sensibili. Oltre certe soglie critiche, il gettito fiscale può finanziare completamente una ben mirata spesa pubblica addizionale: spesa pubblica +100, –> PIL +250 (moltiplicatori = 2,5), nuove entrate +250*0,4= +100, a compensare le nuove spese (De Long e Summers, 2012). Ma le politiche keynesiane ‘funzionano’ anche quando i moltiplicatori sono largamente al di sotto di queste soglie.

Il ruolo delle aspettative ‘miste’

Le crisi di domanda nascono spesso da uno spavento di natura economico-finanziaria, non dal terrorismo (difatti 9/11 non causò recessioni). E generano a volte un circolo vizioso di paura-depressione che si autoalimenta: ‘(1) non spendiamo <– (2) perché abbiamo paura del futuro <– (3) perché c’è la depressione, che perdura… <– (4) perché non spendiamo’. In una crisi del genere, lo scopo di lungo termine delle politiche keynesiane non è sopperire in eterno con la spesa pubblica alla caduta della domanda privata; ma è cambiare le aspettative del settore privato (2), interrompendo per un paio di anni la depressione (3).

Ora sulle aspettative si sente dire di tutto, a cominciare dai politici che credono di manipolarle spandendo ottimismo o controllando la TV. Ma le aspettative economiche sono al cuore della teoria macroeconomica, e sono state studiate molto approfonditamente dagli economisti (specie in America Latina). C’è una relazione macroeconomica forte fra: (3) crescita del reddito negli anni recenti; e –> (2) reddito atteso in futuro. Se dunque con la spesa pubblica si ripristina la crescita, non vale più il rebus sic stantibus: le famiglie si tranquillizzano (la loro ricchezza netta aumenta) e ritornano a spendere. La domanda privata si sostituisce allora a quella pubblica, che gradualmente si ritira senza pregiudizio per l’economia. E il fenomeno è molto rapido: come ha mostrato l’America di Roosevelt nel 1933 (Romer 2013) e quella di Obama negli anni scorsi.

Ma è sempre così? Quanto è salda la relazione adattiva fra: (3) andamento del reddito negli anni recenti; e –> (2) reddito atteso futuro? La stabilità di questa relazione, empiricamente elevata, si fonda su alcune condizioni implicite. Per capirle possiamo rifarci alla crisi finanziaria del 2011-12: difatti le aspettative funzionano allo stesso modo sui mercati finanziari e su quelli reali; salvo che i primi reagiscono in tempo reale, e i secondi nel giro di mesi: perciò la reazione dei primi è più chiara.

Nel 2011 la BCE (con la famosa lettera di Trichet e Draghi a Berlusconi) dichiarò che non era disponibile a sostenere (intervento pubblico) a lungo i titoli del debito italiano, sotto attacco speculativo per una depressione della domanda privata… di quei titoli, causata… dalla paura. Quelle dichiarazioni danneggiarono le aspettative di lungo termine e la crisi finanziaria continuò: anche quando all’inizio del 2012 la BCE scese in campo contro la speculazione (intervento pubblico di breve termine) con un trilione. Finché il 26/7/12 Draghi rovesciò la sua posizione di lungo termine: “Faremo whatever it takes per stabilizzare i mercati finanziari”. No limits. E subito, come previsto, gli spread cominciarono a scendere – senza bisogno di spendere altri soldi -, ed oggi sono a livelli minimi.

Sui mercati reali il meccanismo è lo stesso. Il link fra: ‘migliore andamento del reddito negli anni recenti’ (3); e –> ‘reddito atteso in futuro’ (2); funziona male se i privati non credono che le istituzioni siano decise a fare “whatever it takes” per spezzare le reni alla depressione, o che l’intervento pubblico continuerà per tutto il tempo necessario. Negli USA ad esempio, nel 2009 ci si chiedeva se lo stimolo fiscale fosse sufficiente: in caso contrario si ipotizzava una seconda manovra espansiva; la stessa FED faceva sapere che avrebbe fatto ‘whatever it takes’ per rilanciare la domanda: anche politiche non convenzionali, anche per importi astronomici. Il pubblico conosceva il mandato e la determinazione dei suoi governanti, mentre vedeva l’economia riprendersi. E gradualmente si tranquillizzava: (3) –> (2). Perciò non c’è mai stato strettamente bisogno di un’altra manovra espansiva.

Ma nell’Eurozona, i Trattati e l’establishment sono dogmaticamente anti-keynesiani. Gli stimoli di bilancio alla domanda aggregata non solo sono – nel migliore dei casi – saltuari e infimi. Essi sono anche poco efficaci nell’innescare una vera ripresa, perché sono eccezioni alla regola, ‘flessibilità’ condita da continui segnali che manca la determinazione a sostenere la domanda aggregata con risorse pubbliche fino a quando e per quanto è necessario. Perciò il deficit spending non tranquillizza l’opinione pubblica; il link adattivo (3) –> (2) è spezzato da aspettative razionali; il ‘problema di lungo termine’ regna sovrano.

In realtà, c’è ancora un passaggio da fare, se si vuole capire la profondità del male che attanaglia l’Eurozona. Il problema non è tanto l’establishment politico di per se, quanto la BCE. Che dipende in parte dall’establishment, ma in parte anche dai Trattati fondativi dell’Euro.

Riflettiamo sull’America di Obama. Cosa sarebbe successo se il primo stimolo non fosse bastato ad innescare una ripresa della domanda privata, e il Congresso avesse votato un secondo, maggiore stimolo? Il deficit pubblico sarebbe rimasto elevato per più tempo, e il debito pubblico, invece di salire dal 70% al 100% del PIL sarebbe salito magari al 120-130%, a livelli italiani. E se non fosse bastato? C’è un limite al deficit spending, rappresentato dalla sostenibilità del debito pubblico? Se un limite ci fosse, gli americani avrebbero potuto temere che il governo lo avrebbe incontrato prima del consolidarsi della ripresa; e temendo per il proprio futuro, non avrebbero ricominciato a spendere. L’expectation management funziona bene solo se, per l’intervento pubblico, ‘the sky is the limit’.

In America, come altrove, il limite suddetto non c’è. La sostenibilità del debito pubblico è infatti garantita dal mandato della Fed – e dal controllo e l’imperio del Parlamento – a sostenere, al limite a monetizzare il debito pubblico. Ciò amplia a dismisura lo ‘spazio fiscale’ degli Stati. Anzi, lo rende ‘infinito’. Nel senso che, nello scenario terminale peggiore, quando il debito pubblico – supponiamo nel periodo t+n – dovesse assumere dimensioni insostenibili, e la monetizzazione e l’inflazione dovessero diventare probabili e imminenti, vi sarebbe una caduta della domanda di moneta e un aumento della propensione alla spesa dei privati (per non citare il deprezzamento del cambio, Krugman, 2013) che spingerebbe fuori dalla depressione l’economia. La Banca centrale allora potrebbe avere qualche problema a gestire l’uscita dalla depressione: ma controllare un’inflazione incipiente è più facile che vincere la deflazione/depressione; in ogni caso si tratta di un altro problema.

È matematicamente dimostrabile che, in presenza di aspettative razionali, lo ‘scenario terminale’ espansivo del periodo t+n influenza il periodo t+n-1, che questo influenza il periodo t+n-2, ecc., fino ad influenzare positivamente il periodo t (l’oggi). Ovvero: se le aspettative razionali sono orientate nel verso giusto, non occorrono manovre espansive pesanti e prolungate, insostenibili. Ma la BCE è in preda a una drammatica ambiguità. Da un lato, costretta dai mercati, si è detta disposta a fare whatever it takes per sostenere i titoli pubblici; dall’altro lato non contempla affatto la possibilità di monetizzare i debiti pubblici; e neppure di consentire ai debiti pubblici di superare certe soglie. Ciò mina la capacità delle politiche keynesiane di innescare una ripresa delle aspettative (anche se non è mai detto: la componente adattiva delle aspettative, e l’aumento della ricchezza privata, potrebbero avere un impatto più importante di quanto io non pensi). Il male profondo dell’Euro è dunque al cuore stesso delle istituzioni e della costruzione legale della moneta unica.

Conclusione

Una critica frequente alle politiche keynesiane è la loro presunta irrilevanza nel lungo termine: quando la capacità produttiva (O) supera la domanda (D), generare una rapida crescita stimolando D è facile, veloce, ma effimero. Perché quando D risale a un livello normale (D=O), la crescita si scontra con i limiti della capacità produttiva. Questa antica obiezione neo-liberista ha generato in risposta un’ampia letteratura che sottolinea come la capacità produttiva (O) non sia data ma endogena (O = f[D], De Long e Summers 2012): perciò la crescita anche nel lungo termine può essere demand-led (Blanchard 2016, Stirati 2016). Tale dibattito riguarda essenzialmente il supply side management, ed è rilevante per le situazioni dove l’output-gap viene chiuso: situazione ancora lontana in molte aree della zona euro.

In questo articolo, astraendo da alcune complicazioni, ho analizzato un problema preliminare, puramente di demand side management. In una situazione di ‘trappola della liquidità’, tentando di restituire efficacia alle politiche monetarie, Krugman (1998), Eggertson e Woodward (2003), e Woodward (2010) hanno sottolineato l’importanza della gestione delle aspettative (d’inflazione) di lungo termine. Ma non avendo le banche centrali sufficiente libertà istituzionale in questo senso, questi autori hanno concluso invocando il deficit spending, sempre efficace. In questa letteratura, ai fini della politica di bilancio, la distinzione fra aspettative adattive e razionali è irrilevante, perciò resta implicita. A nessuno è venuto in mente che in qualche parte del mondo si possano deliberatamente vanificare gli sforzi espansivi, annunciando imminenti svolte verso l’austerità nel momento stesso in cui si tenta di varare manovre di deficit spending. Ma tale miracolo di autolesionismo riesce bene all’Eurozona, grazie ai suoi Trattati monetari e fiscali ottocenteschi.

Il deficit spending è sempre in grado di innescare un recupero sostenibile della domanda privata? In altre aree valutarie, la risposta affermativa pare scontata. Ma nell’eurozona la situazione è diversa. Non solo la BCE, se vuole, può impedire (Gawronski 2015) le politiche keynesiane nel breve termine, come ha fatto in Grecia. Quand’anche le tollerasse, le sue caratteristiche istituzionali rendono meno efficaci quelle politiche nel medio e lungo termine. In queste condizioni, chi propone ai governi nazionali e di alzare fortemente il deficit pubblico nel suo Paese sfidando la Commissione scherza col fuoco. Sembra esserci spazio solo per le due politiche più estreme (di qui la radicalizzazione politica in Europa): o uscire dall’euro o aspettare e sperare che i liberi mercati inneschino la ripresa, come fanno le politiche caute e assai poco eroiche di Padoan e Renzi, un tentativo di tranquillizzare sul futuro senza rompere con l’Europa, sperando nello stellone.

 

 

Bradford DeLong and Lawrence H. Summers Fiscal Policy in a Depressed Economy Spring 2012.

Blanchard O. (2016) The US Phillips Curve: back to the 1960s? Policy brief, Peterson Institute for International economics, no. PB16-1, January …

Gauti B. Eggertsson, Michael Woodford, “Optimal Monetary Policy in a Liquidity Trap,” September 2003.

Piergiorgio Gawronski L’importanza della sovranità monetaria Il fatto Quotidiano 30/4/2012

Piergiorgio Gawronski La governance zoppa dell’euro: regole e discrezionalità Aspenia 2015

Paul Krugman CURRENCY REGIMES, CAPITAL FLOWS, AND CRISES, 2013

Paul Krugman It’s Baaack: Japan’s Slump and the Return of the Liquidity Trap, 1998

Giorgio La Malfa Perché l’Italia ha sprecato due anni, Il Mattino 29 Luglio 2016

Todd Sandler Walter Enders  ECONOMIC CONSEQUENCES OF TERRORISM IN DEVELOPED AND DEVELOPING COUNTRIES: AN OVERVIEW (2016)

Stirati A. (2016), Blanchard, the NAIRU, and Economic Policy in the Eurozone, Europe

JUSTIN WOLFERS Uncovering the Bad Math (or Logic) of an Economic Analysis Embraced by Bernie Sanders New York Times 26/2/2016

Michael Woodford Robustly Optimal Monetary Policy with Near-Rational Expectations. American Economic Review · vol. 100, no. 1, March 2010

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L’aporia del debito pubblico: Keynesiani vs Classici

L’aporia del debito pubblico: Keynesiani vs Classici
Posted: 10 Sep 2015 10:48 PM PDT   su Economia e Potica.it

L’intera architettura dell’Unione Europea poggia le sue basi sull’apodittico assunto che il debito pubblico rappresenti un vincolo insostenibile per la crescita di lungo periodo, nonché un grave ostacolo a una corretta e completa integrazione economica fra i Paesi. Si tratta chiaramente di un modello di stampo ortodosso, che dimentica l’essenza stessa del capitalismo, ossia la possibilità/opportunità di prendere denaro a prestito e di contrarre debiti/crediti.
Da qui l’idea che lo Stato sia assimilabile al buon pater familias e che il consolidamento delle finanze pubbliche rappresenti l’unico viatico possibile per rilanciare consumi e investimenti. Un paradigma antitetico a quello proposto da Keynes (1936), che vedeva nella spesa di matrice statale uno strumento di perequazione e di composizione dei fallimenti privati, nonché una leva fondamentale per azionare una crescita sostenibile e bilanciata.
Secondo l’approccio classico mainstream, dato che la crisi sarebbe da ascriversi principalmente a un eccesso sistematico di spesa pubblica, che avrebbe favorito in sequenza, prima l’accumulazione e poi l’implosione dei debiti pubblici, sarebbe necessario – per riattivare il sistema – tagliare drasticamente la spesa di matrice nazionale (Reinhart e Rogoff 2013).
Tuttavia, il rapporto di causazione non sembra reggere alla prova dei fatti, né a quella empirica. Innanzitutto, come dichiarato apertamente dallo stesso vicepresidente della commissione UE, Victor Constâncio (2012), il debito pubblico è semmai l’effetto, non la causa della crisi.
Alla base del collasso, vi sarebbe, invece, l’accumulazione di ingenti debiti privati e pubblici verso l’estero determinati da un disavanzo strutturale della bilancia dei pagamenti delle economie più deboli (Arcand et al. 2012; Cesaratto 2013). In seconda istanza, autorevoli studi dimostrano chiaramente come non esista alcuna soglia fissa del rapporto debito pubblico/Pil capace di trascinare l’economia in una crisi sistemica (Manasse e Roubini 2005). Si tratta di fatto tutto sommato stilizzato è che paradossalmente trova implicito riscontro anche nelle analisi provenienti dagli esponenti più autorevoli dell’ortodossia economica. Ci riferiamo al pluri-citato studio “Growth in a Time of Debt” di Reinhart e Rogoff (2010), pubblicato sulla prestigiosa American Economic Review. Secondo i due economisti di Harvard, quando il debito supera la soglia critica del 90% la crescita tende a rallentare progressivamente, fino a diventare, in alcuni casi, negativa. Pur specificando l’inesistenza di alcun rapporto causale fra le due variabili, lo studio ha suscitato un notevole clamore sia a livello accademico che politico, finendo in molti casi col giustificare l’adozione di politiche fiscali fortemente restrittive. Tuttavia, come spesso accade, le cose stanno diversamente. Lo dimostra un’accurata rivisitazione operata da un gruppo di economisti dell’Università di Amhrest; un loro recente paper ha messo in luce l’esistenza di manipolazioni, grossolani errori di calcolo e problemi di coerenza metodologica che, una volta rimossi, permettono di escludere recisamente la significatività del debito stesso nel determinare e influenzare la crescita economica (Ash et all 2013).
Quest’ultima asserzione può essere verificata empiricamente attraverso un semplice modello statistico. In particolare, poniamo in relazione diretta il rapporto debito/Pil rilevato all’alba della crisi e la variazione % del Pil reale occorsa nel periodo 2007-2014, per un campione di 173 economie nazionali (tutti i dati disponibili). Il coefficiente di correlazione lineare di Pearson, pur se negativo, risulta molto marginale; quindi, le variabili considerate sono ortogonali. Il livello del debito pre-crisi non ha in alcun modo inciso sulla dinamica registrata dal reddito aggregato nel periodo immediatamente successivo. A titolo di mero esempio citiamo il caso del Qatar e del Giappone; difatti, il piccolo emirato del golfo Persico ha fatto registrare un incremento del rapporto debito/Pil superiore al 100% a fronte di un livello iniziale inferiore ai 10 punti percentuali, mentre il Giappone, nonostante uno stock iniziale del 180% ha fatto segnare solo un marginale aumento dell’1,21% del rapporto debito/Pil.
 
Grafico 1.  Scatterplot fra il debito pubblico del 2007 e l’incremento/decremento del Pil reale nel periodo 2007-2014.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI [1]
 
Ma non solo, disaggregando i dati, possiamo ottenere altre utili informazioni circa la validità delle assunzioni mainstream. A tal fine, ripartiamo i paesi esaminati in 4 grandi cluster, ciascuno corrispondente a uno specifico intervallo del rapporto debito/Pil. Per maggiore chiarezza, disponiamo tali intervalli secondo un ordine strettamente crescente e costante, che ci permetta di apprezzarne appieno la meccanica. L’obiettivo è quello di pervenire a gruppi omogenei all’interno e il più possibile eterogenei all’esterno.  Ebbene, considerato anche l’effetto ‘distorsivo’ della crisi economica e la precarietà di una siffatta analisi, non rileviamo alcuna significativa differenza nei saggi medi di crescita associati ai diversi intervalli. Difatti, fino ad un livello del debito del 60% la crescita tende a crescere in media, per poi contrarsi lievemente e stabilizzarsi anche per quozienti debito/Pil molto grandi. Possiamo quindi escludere recisamente che elevati livelli del debito pubblico possano avere un significativo effetto depressivo sulla crescita economica.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI.
 
Alle medesime conclusioni si perviene anche se si analizza il rapporto intercorrente fra il quoziente debito/Pil del 2007 e la sua variazione % netta nel periodo 2007-2014. Infatti, secondo la vulgata un debito particolarmente consistente dovrebbe porre seri vincoli alla sua sostenibilità e successiva solvibilità, col corollario di esacerbarne l’evoluzione successiva. Quindi, a livelli del debito più elevati, dovrebbero corrispondere incrementi più considerevoli.
Tuttavia, contrariamente a tali sussunzioni, le due variabili non sono legate da alcun rapporto statisticamente significativo. Anzi, esse presentano persino una limitata discordanza; al crescere dell’una, l’altra decresce in media. In definitiva, il livello del debito pre-crisi non sembra avere alcuna funzione predittiva del suo successivo sentiero dinamico.
 
Grafico 3. Scatterplot fra il debito pubblico del 2007 e il suo incremento/decremento nel periodo 2007-2014.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI [2]
 
Non si tratta affatto di un caso. Difatti, già nel 1994 l’economista russo Evsey Domar – autorevole esponente della scuola post-keynesiana – chiariva che la crescita del debito pubblico è tutto sommato un falso problema; ciò che ne determina la sostenibilità nel lungo periodo è la crescita del reddito aggregato e quindi, i fattori che concorrono a dissipare gli ostacoli che si frappongono a essa.
 

[1] Il coefficiente di correlazione di Pearson risulta equivalente a -0,1086; quindi, le due variabili sono debolmente correlate. La retta di regressione mostra che ogni incremento unitario percentuale del rapporto debito/Pil nel 2007 è associato a una diminuzione dello 0,0779% del saggio di crescita del Pil reale nel periodo 2007-2014. Infine, il coefficiente di determinazione risulta estremamente basso; il modello consente di spiegare solo l’1,18% della variabilità dei tassi di crescita.
[2] Il coefficiente di correlazione di Pearson risulta equivalente a -0,3703; quindi, le due variabili presentano una correlazione inversa di medio-bassa intensità. La retta di regressione mostra che ogni incremento unitario percentuale del rapporto debito/Pil nel 2007 è associato a una diminuzione dello 0,30% del saggio di crescita del medesimo rapporto debito/Pil nel periodo 2007-2014. Infine, il coefficiente di determinazione risulta pari a 0,1371; il modello consente di spiegare solo il 13,71% della variabilità dei tassi di crescita.
 
Bibliografia
Arcand J. L., Berkes E. and Panizza U. (2012), “Too much finance?”, International Monetary Fund, Working Papers, n. 161.
Ash M., Herndon T. and Pollin R. (2014), “Does high public debt consistently stifle economic growth? A critique of Reinhart and Rogoff”, Cambridge Journal of Economics, 38(2): 257-279.
Cesaratto S. (2013), “Controversial and novel features of the Eurozone crisis asa balance of payment crisis”, in Post-Keynesian Views of the Crisis and its Remedies, Routledge Critical Studies in Finance and Stability.
Constancio V. (2013), The European Crisis and the role of the financial system, Speech at the Bank of Greece conference on “The crisis in the euro area”, Athen,23 May.
Domar E. (1944), The “Burden of Debt” and the National Income, American EconomicReview, 34, 798-827.
Keynes J. M. (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money, Palgrave Macmillan, London.
Manasse P. and Roubini N. (2005), “Rules of thumb” for sovereign debt crises, Journal of International Economics, 78(2); 192-205.
Reinhart C. and Rogoff K. S. (2010), “Growth in a Time of Debt”, American Economic Review, 100(2), 573-578.
Reinhart C. and Rogoff K. S. (2013), Financial and Sovereign Debt Crises: Some Lessons Learned and Those Forgotten (No. 13/266), International Monetary Fund.

 

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La crisi e gli economisti

La crisi e gli economisti

crisisGli economisti sono spesso accusati di non avere saputo prevedere la crisi. Ma la verità è che ci sono economisti e economisti. Lo ribadisce Giancarlo Bertocco nel suo libro La crisi e le responsabilità degli economisti (Francesco Brioschi Editore, Milano, 2015), e qui ci offre una anteprima della sua riflessione.
Gli economisti si sono difesi dall’accusa di non aver saputo prevedere l’arrivo della crisi affermando che le crisi economiche, come i terremoti, non sono prevedibili. I sismologi non vengono accusati di non saper prevedere i terremoti; allo stesso modo, gli economisti non devono essere accusati di non aver previsto quanto stava per accadere. In realtà, esiste una sostanziale differenza tra le scelte della professione economica e il comportamento dei sismologi. Negli ultimi decenni, gli economisti hanno elaborato e insegnato nelle università di tutto il mondo, una teoria che escludeva che potesse manifestarsi una crisi come quella osservata a partire dal 2007. Essi si sono comportati come sismologi che durante un periodo tranquillo arrivano a concludere che i terremoti non esistono.
E’ sorprendente constatare che a otto anni dall’inizio della crisi mentre, soprattutto in Europa, i suoi effetti sull’occupazione sono ancora pesantissimi, gli economisti rimangano legati ad un modello teorico che afferma che le crisi non sono possibili. La professione economica ha superato questa contraddizione tra teoria e realtà considerando la crisi contemporanea come un evento accidentale, un cigno nero, provocato dagli errori commessi da due soggetti: la Federal Reserve e il sistema bancario americano. Ma queste spiegazioni non consentono di salvare la teoria mainstream e superare la contraddizione tra teoria e realtà. Al contrario queste spiegazioni costituiscono una prova evidente dei limiti della teoria tradizionale poiché utilizzano concetti e relazioni che contrastano con le proposizioni fondamentali della teoria mainstream. In altri termini, esse considerano un sistema economico profondamente diverso da quello descritto dalla teoria dominante.
Si possono individuare tre spiegazioni basate sul concetto di errore. La prima sostiene che la responsabilità della crisi debba essere attribuita alle autorità monetarie americane le quali, tra il 2000 e il 2004, avrebbero adottato una politica eccessivamente espansiva, creando la liquidità che ha consentito al sistema bancario di espandere l’offerta di mutui subprime e di provocare la bolla immobiliare scoppiata nel 2007. La seconda spiegazione attribuisce la responsabilità della crisi al sistema bancario americano. Raghuram Rajan, sostiene che, sotto la pressione di un sistema di incentivi distorto, le banche americane avrebbero creato una quantità eccessiva di rischio, provocando la crisi. L’espressione creare rischio non deve essere confusa con l’espressione assumere rischio. Una compagnia di assicurazioni che emette polizze contro i danni di un terremoto, non influenza la probabilità che si verifichi il terremoto; essa si assume un rischio, non lo crea. Nel caso della crisi recente, invece, il sistema bancario avrebbe creato il rischio relativo al verificarsi della crisi finanziaria poiché, espandendo l’offerta di mutui subprime, avrebbe favorito la formazione di una bolla speculativa il cui scoppio ha avuto conseguenze catastrofiche. La terza spiegazione infine, sostiene che la liquidità che ha alimentato la bolla immobiliare derivi dall’eccesso di risparmio registrato nei paesi emergenti dell’Asia, e nei paesi produttori di petrolio.
Queste spiegazioni contengono concetti e relazioni che sono in contrasto con le proposizioni fondamentali della teoria mainstream. La spiegazione che attribuisce la responsabilità della crisi alla Federal Reserve non è coerente con la teoria standard della moneta che coincide con la teoria quantitativa della moneta, ed afferma che le autorità monetarie possono controllare la quantità di moneta ma non l’offerta di credito che dipende invece, dalle decisioni di risparmio. La spiegazione elaborata da Rajan è in contrasto con la teoria tradizionale della finanza secondo la quale le banche sono dei semplici intermediari che trasferiscono le risorse dai risparmiatori alle imprese. Con le loro scelte esse non solo non creano rischio, ma al contrario lo riducono perché, rispetto ai risparmiatori, sono dotate di una maggior capacità nel valutare le caratteristiche dei debitori. Anche la terza spiegazione non è coerente con la teoria dominante secondo la quale un aumento del flusso di risparmio non provoca crisi, ma dà un impulso alla crescita poiché determina un aumento degli investimenti. Inoltre, tutte le spiegazioni utilizzano i concetti di speculazione e di bolla speculativa che sono estranei alla teoria macroeconomica dominante.
Insomma, le spiegazioni dell’origine della crisi elaborate dagli economisti legati alla teoria mainstream considerano un mondo profondamente diverso da quello descritto dalla stessa teoria tradizionale. Si tratta di una economia in cui: i) l’offerta di credito è indipendente rispetto alle decisioni di risparmio e deriva, invece, dalle scelte del sistema bancario; ii) la finanza può creare rischio; iii) il fenomeno della speculazione è rilevante. Queste spiegazioni devono indurre la professione economica a elaborare un approccio teorico alternativo a quello tradizionale, che spieghi il funzionamento di una economia che ha queste caratteristiche.
È il caso allora di tornare alla lezione di quel gruppo di economisti eretici composto da Marx, Keynes, Schumpeter, Kalecki, Kaldor e Minsky. Il loro approccio mostra che all’interno delle economie contemporanee le crisi non sono un fenomeno accidentale, ma un fenomeno strutturale. Specificare la natura endogena della crisi significa sostenere che un’economia di mercato non converge spontaneamente verso una condizione ideale nella quale si realizza la piena occupazione della forza lavoro disponibile, tutte le risorse risparmiate sono destinate agli investimenti più produttivi e capitale e lavoro vengono remunerati in funzione delle rispettive produttività. Significa inoltre, sottolineare che gli stessi fattori da cui dipende la vitalità del capitalismo, che hanno consentito nel giro di poche generazioni di aumentare in maniera straordinaria il tenore di vita della popolazione dei paesi avanzati, possono generare profonda instabilità.
Affermare la natura endogena delle crisi non deve tuttavia, indurre a concludere che esse, come i terremoti, sono inevitabili. Le crisi infatti non sono eventi naturali ma fenomeni sociali. Ciò ha una conseguenza rilevante: mentre la probabilità che si verifichi un terremoto non dipende dalla teoria elaborata dai sismologi per spiegarne l’origine, la probabilità che si verifichi una crisi economica non è indipendente rispetto al modo in cui gli economisti teorizzano il funzionamento di una economia di mercato. Questo aggrava le responsabilità di quella parte maggioritaria della professione economica impermeabile all’insegnamento degli economisti eretici che, adottando modelli teorici che trascuravano la natura instabile delle economie di mercato, ha reso possibile un nuovo evento catastrofico. Infatti la diffusione di questi modelli ha indotto a trascurare i segnali di instabilità che si sono manifestati negli anni precedenti la crisi. Inoltre, quella professione economica, elaborando una teoria che escludeva che all’interno di una economia di mercato ben funzionante potesse verificarsi una crisi catastrofica, ha favorito scelte e comportamenti che hanno provocato la paralisi del sistema finanziario e la successiva recessione mondiale.
L’analisi della natura della crisi contemporanea ha importanti conseguenze che riguardano la definizione delle politiche necessarie ad affrontarla. Una terapia presuppone una diagnosi; non è credibile ipotizzare che da una diagnosi sbagliata scaturisca una terapia efficace.
*L’autore insegna Macroeconomia presso l’Università dell’Insubria e ha pubblicato un libro intitolato La crisi e le responsabilità degli economisti (Francesco Brioschi Editore, Milano, 2015).

 

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Keynes Is Slowly Winning ( keynes lentamente vince)

Keynes Is Slowly Winning

Keynes lentamente sta vincendo.

Il rifiuto di quasi tutti gli anti-keynesiani di ammettere qualsiasi tipo di errore, gradualmente li ha resi ridicoli. ( Paul Krugman NYT blog )

 

Le politiche di status quo in Europa non hanno raggiunto il nostro obiettivo comune G-20 di una crescita forte, sostenibile ed equilibrata

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L’Italia, da parte sua, è scivolata in un’altra recessione nonostante le promesse del Primo Ministro Matteo Renzi a rifuggire l’austerità e riformare l’economia. La crescita si è ridotta dello 0,1 per cento nel terzo trimestre rispetto al secondo, quando l’economia si è contratta dello 0,2 per cento. ( LIZ ALDERMAN)

 

keyn Back in 2010, I had a revelation about just how bad economic policy was about to get; I read the OECD Economic Outlook, which called not just for fiscal austerity but for interest rate hikes — 350 basis points on the Fed funds rate by the end of 2011! — because, well, because.

Now, the OECD is calling for fiscal and monetary stimulus in Europe. It’s not the same people; the OECD has a new chief economist, Catherine L. Mann, whose excellent research has always been pragmatic in orientation (and who wrote her dissertation, way back when, under Rudi Dornbusch and yours truly.) But by selecting Ms. Mann the OECD was making a statement, and my sense is that the ground is shifting all around the world.

It has taken a while. In early 2013, with the infamous growth cliff at 90 percent debt and the case for expansionary austerity collapsing, many of us thought we had the austerians on the run. But we underestimated the extent to which officials and, to some extent, the news media had a professional stake in the positions they had staked out over the previous three years, and their willingness to seize on anything — slight recovery in southern Europe, a pickup in the UK when the government stopped tightening for a while, Latvia — as supposed vindication of views that were, in reality, overwhelmingly at odds with the evidence.

This still goes on. Simon Wren-Lewis complains, and rightly, about “mediamacro” — and his government has learned nothing. The Bundesbank is still what it always was.

But the hawks seem in retreat at the Fed; Mario Draghi (another MIT Ph.D.) sounds an awful lot like Janet Yellen; the whole way we’re discussing Japan is very much on Keynesian turf. Three and a half years ago Businessweek was declaring that expansionary austerian Alberto Alesina was the new Keynes; now it tells us that Keynes is the new Keynes. And we have people like Paul Singer complaining about the “Krugmanization” of the debate.

Why does the tide finally seem to be turning? Partly, I think, it’s just a matter of time; after six years it’s becoming hard not to notice that the anti-Keynesians have been wrong about everything. Europe’s slide toward deflation makes it even harder to deny the realities of liquidity-trap economics. And the refusal of almost everyone on the anti-Keynesian side to admit any kind of error has gradually made them look ridiculous.

All of this may be coming too little and too late to avoid policy disaster, especially in Europe. But it’s something to cheer, faintly.

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Gli economisti deviati e la crisi del capitalismo

Gli economisti deviati e la crisi del capitalismo

Roberto Panizza* – 14 ottobre 2014 daEconomia e Politica

financecrisis

Ho letto su questa rivista l’articolo di John T. Harvey di cui condivido molte delle idee enunciate, iniziando dal fatto che l’economista Christine Romer, a capo del board del presidente Obama, è purtroppo condizionata dalla sua formazione neoclassica, simile a quella di molti di coloro che hanno contribuito – nell’arco degli ultimi anni, a partire dall’inizio del nuovo millennio – a innescare crisi drammatiche sia sul piano produttivo sia sul piano finanziario. Qualcuno addirittura sostiene che i loro risultati finali siano addirittura peggiori di quelli generati dalla Grande Depressione degli anni ’30, con la differenza che, mentre nel passato, le scelte del presidente Roosevelt e dei suoi collaboratori, come il britannico John M. Keynes o lo statunitense Adolf A. Berle, contribuirono a lanciare politiche pubbliche radicali, oggi non viene formulato nulla di innovativo e vengono soltanto peggiorate le già difficili condizioni economiche.
Il mio intento è quello, invece, di riscoprire il grande insegnamento dei classici, esaltando la loro avversione verso gli economisti ancorati a schemi molto limitativi, come evidenziato da Adam Smith quando si scagliò contro gli interessi monopolistici o quelli dei fisiocratici francesi, sostenitori esclusivamente del ruolo della natura, oppure dallo stesso David Ricardo che teorizzò infinite possibilità di soluzioni all’interno del commercio internazionale o, infine, da Ferdinando Galiani, oggi poco conosciuto ma che, nel 1751, enunciò le possibilità alternative nella gestione della moneta, a seconda delle differenti circostanze storiche.
Oggi, invece, gli economisti hanno spesso condizionato in modo negativo le scelte governative, contribuendo ad imporre, alle più prestigiose università dell’Occidente, modelli superati e distorsivi, fondati su schemi teorici astratti e dominati dalla preoccupazione esclusiva di definire i prezzi, tralasciando di cogliere l’importanza dei livelli di redditi o di altre variabili, come le interdipendenze strutturali, che vanno studiate simultaneamente a causa della complessità della realtà odierna. I loro modelli, praticamente, impongono in maniera elementare – già a partire dalla fine della seconda guerra mondiale – il mantenimento dell’equilibrio, della stabilità e della razionalità. E così che paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti sono stati progressivamente indeboliti rispetto a quando dominavano quasi tutto il mondo sviluppato, come ha avuto modo di evidenziare già J. Stiglitz nel suo libro Freefall (2010).
Negli Stati Uniti, in particolare, a partire dall’amministrazione Carter, venne insediato a capo della Fed, Paul Volcker, convinto monetarista che indebolì pesantemente – a causa degli alti tassi di interesse da lui praticati − l’economia statunitense, tanto da indurre il nuovo presidente Reagan, a sostituirlo con Alan Greenspan nel 1987.
Seguì l’adozione di una politica monetaria più accomodante: in effetti, qualche anno più tardi, questa decisione convinse Clinton a teorizzare la new economy, nel senso che le operazioni sui mercati finanziari avrebbero assicurato nuovi guadagni anche ai cittadini meno privilegiati, venendo utilizzati nel settore impiegatizio e lavorativo. Gli operatori dei mercati finanziari assicurarono una relativa stabilità per qualche anno, ma a fine mandato presidenziale le vendite dei titoli posseduti finirono per deprezzare le quotazioni, con ricadute preoccupanti sui mercati.
Non c’è dubbio che a dare il via al preoccupante declino siano state prima di tutto le regole imposte dai marginalisti e dai neoliberisti, a capo sia degli staff della Casa Bianca sia di altri governi occidentali, e anche da molti dei teorici keynesiani, che non furono però in grado di comprendere fino in fondo il grande insegnamento dell’economista di Cambridge.
Occorre ricordare che l’ultimo presidente americano a perseguire politiche di sostegno del sistema produttivo del suo paese fu Richard Nixon, indirizzato fortemente dal suo Segretario di Stato Kissinger, aprendosi al commercio internazionale con la Cina e con l’Unione Sovietica. Poi, un “provvidenziale” impeachment pose fine al consolidamento dell’economia statunitense, che finì per privilegiare, invece, investimenti finanziari e numerose guerre lunghe e costose. Tali scelte furono adottate anche dai paesi europei, e ciò si tradusse in uno smantellamento progressivo del sistema industriale dell’Occidente, con le imprese produttive, soprattutto più innovative, purtroppo cedute a capitali stranieri, in particolare cinesi. Non è più sufficiente oggi elogiare il ruolo della Silycon Valley o di qualche altra eccezione di carattere marginale; esse non sono più in grado, da sole, di sostenere l’intera economia mondiale, come a suo tempo già sostenuto da E. Todd, nel suo libro Dopo l’impero (2002).
Il mancato stimolo alla crescita delle attività produttive ha finito, nel tempo, con il privilegiare ulteriormente quelle finanziarie, fondate su un sofisticato complesso di modelli molto articolati tra loro, ma purtroppo costruiti sul nulla.
Questo sistema, non più legato alle attività reali della produzione, si è tradotto in scelte teoriche astratte non fondate su ipotesi valide, e nelle quali hanno finito per trionfare gli analisti che hanno creato potenzialità di investimenti: questi ultimi, anche se gestiti in modo egregio, hanno però garantito elevatissimi utili solo a coloro che erano già molto ricchi, impoverendo pesantemente, invece, i meno avveduti. Così mentre i privilegiati guadagnavano moltissimo, guidati nelle scelte di acquisti o vendite, gli altri investitori perdevano a dismisura, indebitandosi fortemente e creando condizioni di forte instabilità dei mercati. Masse enormi di denaro (circa 500mila miliardi di dollari) venivano accumulate negli anni: mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna smantellavano il loro sistema industriale, i loro mercati borsistici disponevano di risorse di 10 o addirittura 20 volte maggiori dei Pil dei loro paesi. Mentre esplodevano la disoccupazione e la povertà, e si registrava la caduta delle quotazioni degli immobili, una sparuta minoranza di grandi privilegiati, grazie ai sotterfugi e agli imbrogli degli operatori della finanza, accumulava quantità enormi di ricchezze: questa arroganza può ancora portare al rischio che si possano verificare, nel prossimo futuro, e come già previsto sempre da Stiglitz, massicci cedimenti di questi mercati.
Purtroppo non ha retto la speranza di sostenere operazioni speculative su tali titoli, poco credibili nella sostanza. E’ proprio questo il timore di coloro che non credono in questo tipo di manovre non fondate su strutture reali. Le minacce di tali crolli, come è stato spiegato da pochi analisti ben informati, sono molto elevate e le conseguenze preoccupanti, dato che i paesi capitalistici occidentali sono privi di una effettiva struttura produttiva in grado di affrontare la crisi e di far ripartire la crescita.
E’ mia convinzione che le scelte sbagliate condotte da economisti “deviati” da modelli astratti e avulsi dalla realtà, stiano contribuendo a minacciare il mantenimento dello stesso sistema capitalistico, così come inteso nel mondo occidentale. Questi anni di crisi, che hanno progressivamente indebolito tutte le prospettive di crescita del nostro sistema economico (e i dati positivi dell’attuale economia statunitense sembrano un po’ sopravvalutati) non hanno indotto gli economisti a intervenire per modificare radicalmente i loro insegnamenti. Continuare a proporre modelli di stabilità è deleterio quando – in realtà –sempre più frequentemente si diffondono condizioni di disequilibrio. Inoltre, di fronte ai crolli dei mercati borsistici, come possiamo ancora illuderci che si ritrovino i vecchi equilibri? Così come appare illusorio parlare di una razionalità dei soggetti economici che spesso non sono più in grado, data la complessità dei mercati, di operare in modo corretto.
D’altra parte, dato il ripetersi, come in questi giorni, di crolli di Borsa e il permanere di criticità molto gravi, gli economisti non possono continuare a riproporre modelli teorici che non rispondono più alle nuove realtà dei nostri tempi: con essi e con le loro astrattezze non si può pensare di risolvere le crisi.
*Ordinario di economia internazionale nell’Università di Torino

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Vulgar Theories and Economic Perspectives

Vulgar Theories and Economic Perspectives

Amit Bhaduri, Nadia Garbellini, Ariel Wirkierman* – 08 Febbraio 2014

Economy-PerspectivesIn order to understand what might happen in 2014 it is necessary to start from a theoretical statement: in our times, theories survive in a ‘vulgar’ form, and are used to justify opposite policies than originally intended. The vulgar version of Keynesian effective demand theory to which politicians turn in times of recession is the ‘stimulation doctrine’: governments and central banks inject liquidity to financial institutions, stimulating aggregate demand and thus rescuing real economy from unemployment. Most economists, even those who believe themselves to be ‘Keynesians’, continue to theorize in a neo-classical mode, assuming representative agents; long run equilibrium with effective demand as a ‘short term’ problem; perfect flexibility of prices and wages; capital/labour substitution via relative prices reflecting relative scarcity. Were these theories the basis for political decisions in 2014 too, the obvious consequence will be a deepening in social and economic problems all over the world. Yet, the theories of Kalecki and Keynes could inspire wiser decisions. There is no analogy between individuals and society, due to the circular flow between macroeconomic expenditure and income: injecting expenditures generates matching amounts of saving by raising income through the multiplier. Moreover, during recessions the generation of additional income in response to higher expenditure is mostly brought about through increase in production, as quantities rather than prices respond to autonomous expenditure. Third, prices respond to wages and output responds to demand, with a separate determination of prices and quantities. More importantly, the real wage is the endogenous outcome of the interaction between price level and money wages; wage bargaining can change nominal wages, with unpredictable effects on the price level and thus on real wages. The priorities of a political action based on these principles should be improving domestic demand, controlling capital flows, and narrowing trade imbalances. This theory was set in a context that has changed drastically with globalization, which brought about the myth of export-led growth and thus the conviction that liberalising capital flows would have fostered trade integration. Old trade rivalries reappeared in different guises as national economies lost direct control over their exchange rates in a flexible exchange rate regime dominated by private traders. In single currency areas no space is left for competitive devaluation; trade rivalry takes the form of competitive unit cost reduction by restraining real wage (shrinking domestic demand) and enhancing labour productivity (increasing output while reducing employment). Profit margin and share thus increase, further weakening domestic demand, a zero sum game pushing towards export-led growth, a new form of ‘beggar-thy-neighbour’ policy. If the istitutional setting does not change, losers – both in Europe and worldwide – will continue to accumulate public and private debt and trade deficits, while winners will accumulate assets, mostly government guaranteed liabilities of debtor member countries. The year 2014 will be characterised by the same disequilibria in the international monetary system which fed the crisis since 2007. A particular national currency (the US dollar) still plays the role of international money; debtor countries have to finance trade deficits by letting debt instruments denominated in their own currency to accumulate in surplus countries, which hold them as international money. Apart from providing important export outlet, in the past the dependence of big surplus countries on the US as a military super power virtually ruled out aggressive financial diplomacy. But the emergence of China as a massive surplus country with independent military power has introduced an unknown variable: the possible use of massive dollar surplus to challenge the hegemony of the dollar is now an issue. The growing importance of external relative to internal demand means greater openness to trade in goods and services and FDIs, but most of all to trade in financial assets[1] on secondary markets, arising from  different layers of claims of indirect or partial ownership, which can be created and multiplied at will. ‘Shadow banking’ develops in a financial sector escaping supervision of monetary authorities and creating its own network of contracts, guarantees and insurances, in a closed self-referential system. The composition asset portfolios change due to expectations about exchange, interest, and corporate tax rates, but most of all about capital gains and losses on asset prices. Expectations on capital gains and losses can significantly influence national economic policies through the fear of capital outflows. Kalecki foreseen this possibility while discussing the political viability of full employment policies over time and their impact on the ‘investment climate’, arguing that maintaining the authority structure in a capitalist democracy requires capitalists to retain the initiative of managing the economy not only by disciplining workers but also being in a commanding position relative to the state. High employment allows the initiative of policy making to pass from the captains of industry to the government, and weakens the threat of job-loss. To strengthen the authority structure of a capitalist democracy, demand management must create a favourable climate for private investment. Full employment policies are resisted in the name of ‘sound finance’, denying the basic tenet of demand management and falling back to the false analogy between individuals and society. In an open economy the circular flow between total expenditure and income implies an accounting identity: any excess of private, corporate or government expenditure over income of that particular institutional sector’s income is balanced by a corresponding current account deficit of other sectors.[2] The excess of government expenditure over revenues is arbitrarily singled out as the main cause of current account deficits. Separating monetary and fiscal policy through the independence of central banks and targeting inflation rather than employment were early signals of policy change. A competitive reduction in corporate tax rates with relatively mobile capital and immobile labour increased the ratio of taxes on wages to taxes on corporate profits, fueling tax payers’ dissent which got directed towards inefficiency of public spending. Rolling back of the public sector became acceptable even in formal social democracies. 2014 will therefore probably see the finance-led growth model, harshly criticised after 2007, back to the fore. The compromise between demand management and growing inequality has been solved by rising asset prices. The market for financial assets has been stimulated through tax cut for those who mostly owned such assets, making private debt to explode. Buoyant expectations about asset price rise simultaneously raised borrowers’ credit worthiness and improved lenders’ balance sheets. A debt driven consumption boom seemed to solve the problem of effective demand while consolidating the dominant position of the financial sector. The old model of cooperative capitalism was replaced by a model of ‘Great Moderation’ in which the financial sector replaced the state in sustaining demand. And capital inflows on the lure of high capital gains can hide chronic trade deficit. Sustaining expectations about asset prices enabling increased borrowing for consumption is the central mechanism on which the model hinges. In the last analysis, this is the principle on which many central banks base their monetary policies, its vulnerability being the fragility of such expectations. After 2007 we should have learnt that in such an institutional framework, as long as the real economy expands, private debt rise without either central supervision or a lender of last resort; the distinction between ‘money’ guaranteed by central banks and private credit contracts becomes increasingly blurred. The financial system increasingly de-linking from the real economy; in extreme cases the real economy may stagnate or even decline while the prices of financial assets continue to rise. This growing gap is the prelude to a financial crisis: the probability of private defaults increases with stagnant incomes and rising debt, and even small defaults can suddenly push the fragile financial sector to a crisis. Defaulted loans have to be covered by liquidity guaranteed by the monetary authority as lender of last resort, triggering the possibility of a chain reaction. A financial catastrophe due to sudden freeze of credit looms large. The irony of the situation is that private financial institutions are rescued by governments which otherwise restrain their own budget. The solution is of limited use when the private investment climate is depressed in the aftermath of a financial crisis in a stagnating economy. There are not many willing to undertake long term investment. The financial sector is salvaged but the real economy continues to stagnate. Under the compulsions of democracy the ultimate irony may even turn out to be old remedy of massive public investment with deficit financing to restore confidence in the climate for private investment in an economy in the grip of a long recession!   *Amit Bhaduri (Jawaharlal Nehru University, Delhi), Nadia Garbellini (Università di Bergamo), Ariel Wirkierman (Università Cattolica, Milano)

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Deflazione o politiche keynesiane?

Deflazione o politiche keynesiane?

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Le difficoltà riscontrate nell’adozione di politiche di rilancio keynesiane, hanno prodotto due tendenze: da un lato un crescente disimpegno generalizzato da parte dello Stato nell’economia; dall’altro lo sviluppo di strategie deflazionistiche. Pertanto, la lotta contro le recessioni e la disoccupazione congiunturale rimane un obiettivo possibile solo a condizione di superare il dilemma della globalizzazione attraverso un reale coordinamento internazionale. Ma nell’ipotesi più favorevole, le politiche congiunturali si riveleranno parzialmente impotenti nei confronti di un rallentamento della crescita o di una crescita della disoccupazione che costituiscono sempre più fenomeni strutturali indipendenti dalla domanda globale. In tale quadro, si comprende il crescente scetticismo nei confronti delle politiche congiunturali, e la riflessione teorica si rivolge ai possibili contenuti di un’azione strutturale in grado di promuovere e sostenere nuovi meccanismi duraturi di crescita e occupazione.
Per quanto concerne le strategie congiunturali di approccio ai temi del rallentamento della crescita e di incremento della disoccupazione si possono distinguere due principali strategie congiunturali: 1) la deflazione competitiva che si riconosce nelle strategie liberali tradizionali basate sulla competizione e sulla flessibilità di prezzi e salari; 2) il rilancio internazionale che si colloca nell’ambito di una tradizione keynesiana adattata al contesto della globalizzazione.
Per il primo punto, si tratta di una strategia dalla logica teorica, ma per quanto attiene il problema della disoccupazione la sua portata pratica è molto limitata a causa della lentezza dei meccanismi di aggiustamenti proposti. Tale strategia si basa sull’eredità delle tesi classiche: rigore monetario, debole inflazione e tasso di cambio forte, come contributi essenziali alla crescita, all’occupazione e all’equilibrio esterno. Infatti, una politica di rigore monetario e fiscale pone un freno alla domanda interna, un freno all’inflazione, e una forte crescita della disoccupazione. Inoltre, il freno alla domanda limita le importazioni; la deflazione migliora la competitività contribuendo per tale via al riassorbimento del deficit esterno. La crescita della disoccupazione tiene a bada i salari reali, mettendo i lavoratori e i sindacati di fronte alla scelta fra un incremento della disoccupazione o una diminuzione del potere di acquisto dei salari. Oltre che un effetto di stabilizzazione sulla crescita della disoccupazione, il ribasso dei salari reali produce due ulteriori effetti potenziali. La caduta del costo del lavoro aumenta la profittabilità dell’attività di impresa; infatti, a prezzi di vendita invariati essa migliora i margini di profitto. Le imprese sottoposte alla concorrenza sia sul mercato interno che internazionale possono mantenere invariati i tassi di margine di profitto e approfittare della caduta del costo del lavoro per diminuire i prezzi di vendita. La suddivisione tra l’effetto-profittabilità e l’effetto-competitività dipende dal grado di concorrenza, dai tassi di interesse e dal tasso di cambio. Più un settore è esposto alla concorrenza internazionale più gli imprenditori sono spinti alla ricerca di una forte competitività sui prezzi. Un tasso di cambio forte che limita la competitività-prezzi dei prodotti nazionali costringe le imprese a contenere i loro margini e a privilegiare l’effetto-competitività. Tra l’altro, i due effetti descritti hanno conseguenze favorevoli sulla crescita e sull’occupazione. Un miglioramento della competitività implica maggiori livelli di esportazioni e quindi maggiore produzione e occupazione. Uno sviluppo dei profitti favorisce l’investimento e dunque una maggiore domanda nel settore dei beni strumentali. Ciò riduce l’insufficienza del capitale che può costituire un’ulteriore causa strutturale di disoccupazione. Lo sviluppo e la modernizzazione del capitale sono anche condizioni per una maggiore competitività a medio e lungo termine. Complessivamente l’effetto-profittabilità, stimolando l’investimento, ha effetti positivi su produzione e occupazione nel lungo periodo, mentre l’effetto competitività, stimolando la domanda esterna, produce gli stessi risultati in tempi più rapidi.
Infine, altri effetti positivi di aumento di credibilità si possono rilevare presso i mercati finanziari. Quest’ultimi, se sono convinti che il governo è orientato verso politiche di stabilità monetaria, non possono puntare in forma speculativa su ipotesi di future svalutazioni. Di conseguenza i tassi di interesse saranno più deboli con benefici sul livello di accumulazione. Chiaramente l’intera strategia riposa, in gran parte, su una caduta del livello salariale e suppone una politica di sostegno a carattere strutturale destinata a garantire la flessibilità salariale.
Riassumendo, si può affermare che accettando momentaneamente un livello di disoccupazione più elevato si determina una caduta dei salari che migliora la competitività e la profittabilità delle imprese.
Questi due effetti congiunti contribuiscono a rilanciare la produzione e quindi l’occupazione. Inoltre, il miglioramento dei margini di competitività contribuisce a ripristinare l’equilibrio esterno. Ma, in verità, una parte rilevante di questi vantaggi resta puramente teorica a causa della lentezza dei meccanismi di aggiustamento su cui poggia l’intera strategia.
Sempre nell’ambito della strategia di deflazione competitiva si possono rintracciare altre problematiche: 1) la disoccupazione non produce con immediatezza una caduta del livello salariale. Spesso, si pone in evidenza come la crescita della disoccupazione strutturale rafforzi la rigidità verso il basso dei salari; 2) la caduta dei salari ha solo un effetto immediato di stimolo sulla domanda di lavoro (effetto-sostituzione) ma soprattutto un effetto depressivo sui consumi che tende a ridurre la domanda e l’occupazione (effetto-reddito). Tutte le simulazioni effettuate hanno dimostrato che l’effetto reddito domina nel breve periodo con un’ulteriore diminuzione dell’occupazione, e occorrono diversi anni prima che si manifesti un effetto positivo sull’occupazione; 3) l’effetto-profittabilità può prevalere sull’effetto-competitività. Infatti, non appena i salari reali diminuiscono, le imprese possono in un primo momento cercare un miglioramento dei loro profitti e quindi non scaricare sui prezzi la caduta dei costi. L’effetto-competitività, che dovrebbe ripercuotersi sui livelli produttivi e sull’occupazione, limita i suoi effetti sul livello dei profitti (effetto-profittabilità) con effetti su occupazione e produzione solo nel lungo periodo; 4) l’effetto di competitività influenza solo la disoccupazione congiunturale. Infatti, esso influenza soprattutto la domanda e dunque limita solo la disoccupazione congiunturale provocata da domanda insufficiente; 5) l’effetto-competitività è, inoltre, molto limitato quando si tratta di una strategia applicata da tutti i paesi contemporaneamente. Infatti, se tutti i partner commerciali adottano la stessa strategia, il suo effetto è solo simbolico. Dal momento che essi contemporaneamente abbassano salari e prezzi, nessuno migliora la propria competitività relativa. Il risultato è solo un grande marasma mondiale e la persistenza di un’elevata disoccupazione congiunturale.
Tuttavia, i rischi di un’esplosione della disoccupazione e del conflitto sociale e politico riportano, inevitabilmente, le scelte politiche e di politica economica verso strategie di crescita e di maggiore occupazione.
Si tratta di scelte che sul piano mondiale non possono realizzarsi in assenza di un coordinamento internazionale delle politiche economiche. Si è, ormai, consapevoli che politiche nazionali isolate risultano essere di difficile applicazione, dato l’insieme dei vincoli esterni in un contesto di economie globalizzate. La possibilità di realizzare politiche di rilancio efficaci è legata ad ipotesi di reale coordinamento internazionale in grado di neutralizzare in parte i vincoli esterni.
L’approccio keynesiano applicato correttamente ad un contesto economico compatibile rimane uno strumento efficace. Compatibilità di condizioni vuol dire capacità di produzione inutilizzate, deboli vincoli esterni, presenza di lavoratori dalle qualifiche adattabili a occupazioni nei settori con sbocchi insufficienti. Tutte condizioni oggi evidentemente presenti.
In tale quadro, un rilancio della domanda interna può contribuire a un rapido incremento dell’attività produttiva e ridurre la disoccupazione senza accelerare l’inflazione. Quindi, gli strumenti keynesiani di regolazione della domanda sono efficaci per lottare contro una disoccupazione congiunturale legata semplicemente a insufficienze degli sbocchi, a condizione che le imprese dispongano di una capacità produttiva inutilizzata e che si sia in un contesto privo di vincoli esterni.
*Docente di Istituzioni di economia e politica economica, Università di Messina

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