Politiche keynesiane nella zona euro. Impossibili?

Politiche keynesiane nella zona euro. Impossibili?

L’indeterminatezza della durata dello stimolo dai bilanci pubblici – invocato dai keynesiani per rilanciare l’eurozona – viene usata talvolta per argomentare l’inefficacia, anzi la dannosità nel lungo termine delle politiche di deficit spending. Potrebbe essere vero.

Il problema della sostenibilità delle politiche di deficit spending

Supponiamo di avere un’economia piuttosto chiusa, stagnante, simile all’eurozona, con un grave output gap, dove perciò il PIL è determinato dalla domanda aggregata:

  • PIL = 10.000 Mld.
  • Crescita = 0%
  • deficit pubblico = 0 Mld.
  • inflazione = 0%
  • tasso d’interesse nominale = 0%
  • disoccupazione: 10%

Per stimolare la domanda, il 1° anno costruiamo un ponte (spesa: 100 Mld.). Il PIL sale di più (+1.5%), a 10150 Mld., per l’effetto moltiplicatore (1,5); generando circa 0,4*150 di nuove entrate fiscali; il deficit pubblico finale sarà 100 – (0,4*150) = 40. Il modello keynesiano è di breve termine e si ferma qui. Ma cosa succede l’anno dopo?

Se cessa il deficit spending, la domanda – rebus sic stantibus – torna a 10.000 (PIL: -1,5%). Se si mantiene lo stesso deficit e si costruisce un altro ponte, spendendo di nuovo 100, la domanda e il PIL restano fermi a 10150 (+0%). Per continuare a crescere dell’1,5% il secondo anno bisogna fare due ponti: cioè spendere 100+101,5=201,5 Mld. In questo modo il PIL salirà a 10301, però il deficit salirà a 81 mil. E così via. Finché (supponiamo il terzo anno) l’andamento esplosivo delle finanze pubbliche costringerà ad azzerare il deficit pubblico: il che provocherà una recessione (PIL: -3%), che riporterà il PIL al livello depresso di partenza (ma con un debito pubblico più alto di 301,5 Mld). Questo è il problema di lungo termine delle politiche keynesiane, che talvolta sorprende i politici progressisti come Bernie Sanders.

Allora perché le politiche keynesiane normalmente funzionano? Ad esempio negli Stati Uniti del Recovery Act – quando lo stimolo (deficit 2009-10 al 12%) è stato ritirato (deficit 2015 al 2,8% del PIL) -, come mai la ‘recessione di ritorno’ non si è manifestata?

Il primo motivo è che i moltiplicatori sono tanto più alti quanto più la depressione è grave, quanto più grande è il paese in questione, e quanto più la spesa aggiuntiva si concentra in alcuni settori sensibili. Oltre certe soglie critiche, il gettito fiscale può finanziare completamente una ben mirata spesa pubblica addizionale: spesa pubblica +100, –> PIL +250 (moltiplicatori = 2,5), nuove entrate +250*0,4= +100, a compensare le nuove spese (De Long e Summers, 2012). Ma le politiche keynesiane ‘funzionano’ anche quando i moltiplicatori sono largamente al di sotto di queste soglie.

Il ruolo delle aspettative ‘miste’

Le crisi di domanda nascono spesso da uno spavento di natura economico-finanziaria, non dal terrorismo (difatti 9/11 non causò recessioni). E generano a volte un circolo vizioso di paura-depressione che si autoalimenta: ‘(1) non spendiamo <– (2) perché abbiamo paura del futuro <– (3) perché c’è la depressione, che perdura… <– (4) perché non spendiamo’. In una crisi del genere, lo scopo di lungo termine delle politiche keynesiane non è sopperire in eterno con la spesa pubblica alla caduta della domanda privata; ma è cambiare le aspettative del settore privato (2), interrompendo per un paio di anni la depressione (3).

Ora sulle aspettative si sente dire di tutto, a cominciare dai politici che credono di manipolarle spandendo ottimismo o controllando la TV. Ma le aspettative economiche sono al cuore della teoria macroeconomica, e sono state studiate molto approfonditamente dagli economisti (specie in America Latina). C’è una relazione macroeconomica forte fra: (3) crescita del reddito negli anni recenti; e –> (2) reddito atteso in futuro. Se dunque con la spesa pubblica si ripristina la crescita, non vale più il rebus sic stantibus: le famiglie si tranquillizzano (la loro ricchezza netta aumenta) e ritornano a spendere. La domanda privata si sostituisce allora a quella pubblica, che gradualmente si ritira senza pregiudizio per l’economia. E il fenomeno è molto rapido: come ha mostrato l’America di Roosevelt nel 1933 (Romer 2013) e quella di Obama negli anni scorsi.

Ma è sempre così? Quanto è salda la relazione adattiva fra: (3) andamento del reddito negli anni recenti; e –> (2) reddito atteso futuro? La stabilità di questa relazione, empiricamente elevata, si fonda su alcune condizioni implicite. Per capirle possiamo rifarci alla crisi finanziaria del 2011-12: difatti le aspettative funzionano allo stesso modo sui mercati finanziari e su quelli reali; salvo che i primi reagiscono in tempo reale, e i secondi nel giro di mesi: perciò la reazione dei primi è più chiara.

Nel 2011 la BCE (con la famosa lettera di Trichet e Draghi a Berlusconi) dichiarò che non era disponibile a sostenere (intervento pubblico) a lungo i titoli del debito italiano, sotto attacco speculativo per una depressione della domanda privata… di quei titoli, causata… dalla paura. Quelle dichiarazioni danneggiarono le aspettative di lungo termine e la crisi finanziaria continuò: anche quando all’inizio del 2012 la BCE scese in campo contro la speculazione (intervento pubblico di breve termine) con un trilione. Finché il 26/7/12 Draghi rovesciò la sua posizione di lungo termine: “Faremo whatever it takes per stabilizzare i mercati finanziari”. No limits. E subito, come previsto, gli spread cominciarono a scendere – senza bisogno di spendere altri soldi -, ed oggi sono a livelli minimi.

Sui mercati reali il meccanismo è lo stesso. Il link fra: ‘migliore andamento del reddito negli anni recenti’ (3); e –> ‘reddito atteso in futuro’ (2); funziona male se i privati non credono che le istituzioni siano decise a fare “whatever it takes” per spezzare le reni alla depressione, o che l’intervento pubblico continuerà per tutto il tempo necessario. Negli USA ad esempio, nel 2009 ci si chiedeva se lo stimolo fiscale fosse sufficiente: in caso contrario si ipotizzava una seconda manovra espansiva; la stessa FED faceva sapere che avrebbe fatto ‘whatever it takes’ per rilanciare la domanda: anche politiche non convenzionali, anche per importi astronomici. Il pubblico conosceva il mandato e la determinazione dei suoi governanti, mentre vedeva l’economia riprendersi. E gradualmente si tranquillizzava: (3) –> (2). Perciò non c’è mai stato strettamente bisogno di un’altra manovra espansiva.

Ma nell’Eurozona, i Trattati e l’establishment sono dogmaticamente anti-keynesiani. Gli stimoli di bilancio alla domanda aggregata non solo sono – nel migliore dei casi – saltuari e infimi. Essi sono anche poco efficaci nell’innescare una vera ripresa, perché sono eccezioni alla regola, ‘flessibilità’ condita da continui segnali che manca la determinazione a sostenere la domanda aggregata con risorse pubbliche fino a quando e per quanto è necessario. Perciò il deficit spending non tranquillizza l’opinione pubblica; il link adattivo (3) –> (2) è spezzato da aspettative razionali; il ‘problema di lungo termine’ regna sovrano.

In realtà, c’è ancora un passaggio da fare, se si vuole capire la profondità del male che attanaglia l’Eurozona. Il problema non è tanto l’establishment politico di per se, quanto la BCE. Che dipende in parte dall’establishment, ma in parte anche dai Trattati fondativi dell’Euro.

Riflettiamo sull’America di Obama. Cosa sarebbe successo se il primo stimolo non fosse bastato ad innescare una ripresa della domanda privata, e il Congresso avesse votato un secondo, maggiore stimolo? Il deficit pubblico sarebbe rimasto elevato per più tempo, e il debito pubblico, invece di salire dal 70% al 100% del PIL sarebbe salito magari al 120-130%, a livelli italiani. E se non fosse bastato? C’è un limite al deficit spending, rappresentato dalla sostenibilità del debito pubblico? Se un limite ci fosse, gli americani avrebbero potuto temere che il governo lo avrebbe incontrato prima del consolidarsi della ripresa; e temendo per il proprio futuro, non avrebbero ricominciato a spendere. L’expectation management funziona bene solo se, per l’intervento pubblico, ‘the sky is the limit’.

In America, come altrove, il limite suddetto non c’è. La sostenibilità del debito pubblico è infatti garantita dal mandato della Fed – e dal controllo e l’imperio del Parlamento – a sostenere, al limite a monetizzare il debito pubblico. Ciò amplia a dismisura lo ‘spazio fiscale’ degli Stati. Anzi, lo rende ‘infinito’. Nel senso che, nello scenario terminale peggiore, quando il debito pubblico – supponiamo nel periodo t+n – dovesse assumere dimensioni insostenibili, e la monetizzazione e l’inflazione dovessero diventare probabili e imminenti, vi sarebbe una caduta della domanda di moneta e un aumento della propensione alla spesa dei privati (per non citare il deprezzamento del cambio, Krugman, 2013) che spingerebbe fuori dalla depressione l’economia. La Banca centrale allora potrebbe avere qualche problema a gestire l’uscita dalla depressione: ma controllare un’inflazione incipiente è più facile che vincere la deflazione/depressione; in ogni caso si tratta di un altro problema.

È matematicamente dimostrabile che, in presenza di aspettative razionali, lo ‘scenario terminale’ espansivo del periodo t+n influenza il periodo t+n-1, che questo influenza il periodo t+n-2, ecc., fino ad influenzare positivamente il periodo t (l’oggi). Ovvero: se le aspettative razionali sono orientate nel verso giusto, non occorrono manovre espansive pesanti e prolungate, insostenibili. Ma la BCE è in preda a una drammatica ambiguità. Da un lato, costretta dai mercati, si è detta disposta a fare whatever it takes per sostenere i titoli pubblici; dall’altro lato non contempla affatto la possibilità di monetizzare i debiti pubblici; e neppure di consentire ai debiti pubblici di superare certe soglie. Ciò mina la capacità delle politiche keynesiane di innescare una ripresa delle aspettative (anche se non è mai detto: la componente adattiva delle aspettative, e l’aumento della ricchezza privata, potrebbero avere un impatto più importante di quanto io non pensi). Il male profondo dell’Euro è dunque al cuore stesso delle istituzioni e della costruzione legale della moneta unica.

Conclusione

Una critica frequente alle politiche keynesiane è la loro presunta irrilevanza nel lungo termine: quando la capacità produttiva (O) supera la domanda (D), generare una rapida crescita stimolando D è facile, veloce, ma effimero. Perché quando D risale a un livello normale (D=O), la crescita si scontra con i limiti della capacità produttiva. Questa antica obiezione neo-liberista ha generato in risposta un’ampia letteratura che sottolinea come la capacità produttiva (O) non sia data ma endogena (O = f[D], De Long e Summers 2012): perciò la crescita anche nel lungo termine può essere demand-led (Blanchard 2016, Stirati 2016). Tale dibattito riguarda essenzialmente il supply side management, ed è rilevante per le situazioni dove l’output-gap viene chiuso: situazione ancora lontana in molte aree della zona euro.

In questo articolo, astraendo da alcune complicazioni, ho analizzato un problema preliminare, puramente di demand side management. In una situazione di ‘trappola della liquidità’, tentando di restituire efficacia alle politiche monetarie, Krugman (1998), Eggertson e Woodward (2003), e Woodward (2010) hanno sottolineato l’importanza della gestione delle aspettative (d’inflazione) di lungo termine. Ma non avendo le banche centrali sufficiente libertà istituzionale in questo senso, questi autori hanno concluso invocando il deficit spending, sempre efficace. In questa letteratura, ai fini della politica di bilancio, la distinzione fra aspettative adattive e razionali è irrilevante, perciò resta implicita. A nessuno è venuto in mente che in qualche parte del mondo si possano deliberatamente vanificare gli sforzi espansivi, annunciando imminenti svolte verso l’austerità nel momento stesso in cui si tenta di varare manovre di deficit spending. Ma tale miracolo di autolesionismo riesce bene all’Eurozona, grazie ai suoi Trattati monetari e fiscali ottocenteschi.

Il deficit spending è sempre in grado di innescare un recupero sostenibile della domanda privata? In altre aree valutarie, la risposta affermativa pare scontata. Ma nell’eurozona la situazione è diversa. Non solo la BCE, se vuole, può impedire (Gawronski 2015) le politiche keynesiane nel breve termine, come ha fatto in Grecia. Quand’anche le tollerasse, le sue caratteristiche istituzionali rendono meno efficaci quelle politiche nel medio e lungo termine. In queste condizioni, chi propone ai governi nazionali e di alzare fortemente il deficit pubblico nel suo Paese sfidando la Commissione scherza col fuoco. Sembra esserci spazio solo per le due politiche più estreme (di qui la radicalizzazione politica in Europa): o uscire dall’euro o aspettare e sperare che i liberi mercati inneschino la ripresa, come fanno le politiche caute e assai poco eroiche di Padoan e Renzi, un tentativo di tranquillizzare sul futuro senza rompere con l’Europa, sperando nello stellone.

 

 

Bradford DeLong and Lawrence H. Summers Fiscal Policy in a Depressed Economy Spring 2012.

Blanchard O. (2016) The US Phillips Curve: back to the 1960s? Policy brief, Peterson Institute for International economics, no. PB16-1, January …

Gauti B. Eggertsson, Michael Woodford, “Optimal Monetary Policy in a Liquidity Trap,” September 2003.

Piergiorgio Gawronski L’importanza della sovranità monetaria Il fatto Quotidiano 30/4/2012

Piergiorgio Gawronski La governance zoppa dell’euro: regole e discrezionalità Aspenia 2015

Paul Krugman CURRENCY REGIMES, CAPITAL FLOWS, AND CRISES, 2013

Paul Krugman It’s Baaack: Japan’s Slump and the Return of the Liquidity Trap, 1998

Giorgio La Malfa Perché l’Italia ha sprecato due anni, Il Mattino 29 Luglio 2016

Todd Sandler Walter Enders  ECONOMIC CONSEQUENCES OF TERRORISM IN DEVELOPED AND DEVELOPING COUNTRIES: AN OVERVIEW (2016)

Stirati A. (2016), Blanchard, the NAIRU, and Economic Policy in the Eurozone, Europe

JUSTIN WOLFERS Uncovering the Bad Math (or Logic) of an Economic Analysis Embraced by Bernie Sanders New York Times 26/2/2016

Michael Woodford Robustly Optimal Monetary Policy with Near-Rational Expectations. American Economic Review · vol. 100, no. 1, March 2010

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La governance zoppa dell’euro: regole e discrezionalità

La governance zoppa dell’euro: regole e discrezionalità

PierGiorgio GawronskiOld Continent – 26/10/2015

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Gli effetti negativi delle politiche economiche depressive europee si ripercuotono in questi mesi anche sui migranti, il cui assorbimento è reso ancor più difficile dall’elevata disoccupazione. Con tassi d’interesse così bassi, bisognerebbe senza indugio varare un grande piano d’investimenti infrastrutturali e mettere tutti al lavoro. Ma chi pensa di affrontare la crisi economica con “più Europa” ha a disposizione una sola proposta organica, una sola visione: quella tedesca. I critici dell’ortodossia non riescono ancora a presentare sui tavoli europei una visione alternativa, limitandosi ad avanzare idee frammentate o a reagire al margine alle proposte di Berlino e Francoforte (spesso in sintonia) nei summit europei con richieste di piccole modifiche, presentate poi al pubblico come epiche battaglie diplomatiche. Quali limiti politici e culturali impediscono al fronte riformista di proporre una visione alternativa dell’eurozona?

Innanzitutto, alla richiesta tedesca di irrigidire le regole vigenti (depoliticizzandole del tutto) si replica, come ha fatto tra gli altri Romano Prodi (su Il Messaggero del 9 agosto 15), rivendicando un maggiore ruolo della “politica”; cioè più flessibilità caso per caso. Ma la forza della legge – “uguale per tutti” – è sempre stata il principio democratico fondamentale a tutela dei più deboli, l’argine alle prevaricazioni dei potenti di ogni tempo e latitudine. Al ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble bisognerebbe dunque rispondere chiedendo regole più rigide, benché radicalmente diverse da quelle di Maastricht. Limitarsi ad annacquare l’impostazione tedesca rivela subalternità.

Per esempio, la Germania ignora da molti anni la regola del tetto al surplus commerciale. La Germania può permetterselo. L’importanza di questa regola è stata peraltro ribadita da un recente studio del capo economista dell’IMF, Olivier Blanchard (NBER WP 21426): il suo rispetto avrebbe “a large and positive impact on periphery GDP”. In questo caso dunque la regola non è abbastanza rigida; inoltre – trattando in modo asimmetrico surplus e deficit – è una regola distorta a favore degli attuali interessi tedeschi; infine – poiché non tiene conto della situazione ciclica europea – è una regola mal fatta. La soluzione è dunque una regola più rigida, normalmente simmetrica salvo in particolari condizioni cicliche.

Un secondo esempio è la chiusura sine die imposta a fine giugno alle banche greche, al culmine della trattativa sul debito pubblico greco, da una BCE controllata dai paesi creditori dello Stato greco. La regola violata è quella che impone alla BCE di fornire liquidità alle banche sotto attacco speculativo (ritiro dei depositi) a condizione che siano – al netto dell’attacco speculativo – solvibili. Non sono contemplate eccezioni per la Grecia. Ma è una regola generica: di fatto, lascia al Consiglio direttivo della BCE il compito di autorizzare l’emissione di liquidità. Non essendo abbastanza rigida, la maggioranza dei paesi dell’eurogruppo (guidata dalla Germania) ha potuto forzarne l’interpretazione, piegarla ai propri interessi, chiudere le banche greche a prescindere dalla solvibilità, saltando le procedure previste, e senza spiegazioni.

Un terzo esempio è quello della lowflation. La regola che la BCE si è data prevede l’inflazione al 2%, un target ormai considerato troppo basso da una vasta letteratura. In ogni caso, nel 2013 e nel 2014 la BCE non è intervenuta per contrastare l’incipiente deflazione e l’elevata disoccupazione, come era suo dovere: su pressione di alcuni paesi ha rinviato fino al 2015 il Quantitative Easing. Quel che manca, spesso, non sono le regole quanto piuttosto la loro onesta applicazione. E si potrebbe continuare.

Per tornare all’argomentazione di Romano Prodi, si invoca maggiore “democrazia” in Europa, cioè “istituzioni sovranazionali che votano a maggioranza e sono controllate dal parlamento europeo.” Ma tale richiesta non è osteggiata dalla Germania! Qui il fronte riformista cade in un’ovvia confusione. Il termine ‘democrazia’ viene oggi comunemente riferito ai regimi cresciuti negli ultimi 250 anni in Occidente, tecnicamente noti come democrazie liberali o costituzionali. Essi nacquero in contrapposizione anche al giacobinismo, fondato sulla dittatura della maggioranza di turno. Il che significa che non esiste democrazia in senso moderno senza che vi siano diritti delle minoranze e dei singoli, precisi e “rigidi”, superiori ai diritti della maggioranza; il cui rispetto sia garantito da adeguati contropoteri. L’Italia è democratica perché la maggioranza non può espropriare gli avversari politici, chiudere le loro banche, ecc. Così in Europa: forse che la volontà popolare in 17 paesi su 18 vale meno di quella dei greci (manifestatasi nel referendum del 5/7/15)? No! Il punto è un altro: non si usa la banca centrale per favorire gli interessi finanziari di una maggioranza, per quanto ampia, contro quelli di una minoranza, per quanto piccola (la Grecia). Perciò istituzioni controllate dal parlamento europeo, per quanto auspicabili, non garantirebbero né un cambiamento di rotta néun’Europa democratica”.

Il dibattito Rules versus Discretion è di nuovo attuale in Europa; ma sarebbe errato equiparare le regole all’autoritarismo o al predominio tedesco. Regole e discrezionalità devono trovare ciascuna un proprio ambito: anche la discrezionalità ha i suoi vantaggi, meglio adattandosi alle mutevoli e imprevedibili circostanze della vita. Già nel 370 a.C. il retore Isocrate osservava che l’eccesso di leggi è sintomo di decadenza. La discrezionalità politica andrebbe però rivendicata nella microeconomia: su flessibilità e garanzie nel mercato del lavoro, privatizzazioni, liberalizzazioni, dimensione e il ruolo dello Stato, riforme della P.A., della giustizia, ecc. La Germania vorrebbe attribuire alle riforme strutturali il compito di ristabilire gli equilibri competitivi infra-europei, grazie ad aumenti di produttività nei paesi in deficit commerciale. Da qui la proposta di sottoporre a regole europee le politiche microeconomiche, sottraendole alla discrezionalità politica. Ma nessun meccanismo economico garantisce guadagni di produttività più rapidi nei paesi in deficit che nei paesi in surplus: ne consegue che le politiche microeconomiche non sono uno strumento adatto a promuovere l’equilibrio competitivo. Si tratta dunque di un argomento pretestuoso che mira a un’impossibile Europa germanizzata e armonizzata. Molto più realistica è l’idea di Jean Monnet e dei padri fondatori di basare l’Europa su due principi fondamentali: libertà e diversità.

L’Europa dei popoli ‘diversi e liberi’ ha infine bisogno di checks and balances, anche nell’economia. Non generici, ma disegnati a tutela di precisi diritti: degli individui, delle comunità, delle associazioni, delle nazioni. Ma è difficile disegnare checks and balances efficaci se prima non si chiariscono i diritti da tutelare. Ad esempio, la BCE gode di un potere esorbitante e non equilibrato da nessun altro contropotere. Nemmeno dal parlamento: una situazione unica al mondo, che non ha niente di democratico. Perciò fino al 2014 la BCE ha potuto arbitrariamente ridefinire il proprio mandato come “unicamente” votato alla “stabilità dei prezzi”, in flagrante contrasto con il Trattato dell’Unione Europea.

Alla luce dell’esperienza degli ultimi sette anni, una seria proposta organica di riforma della governance dell’eurozona dovrebbe certamente includere:

(1)    Equilibrio dei conti con l’esterno – Si deve supplire all’assenza dei tassi di cambio con l’obbligo cogente per i paesi membri di ridurre gli attivi/passivi commerciali eccessivi. Sorveglianza per bloccare eventuali gravi divergenze dell’inflazione dal target BCE.

(2)    Stabilità finanziaria – Obbligo per la BCE di fare da prestatore di ultima istanza della zona euro, anche con interventi sul mercato primario dei titoli pubblici (con impegni fideiussori). OMT anticicliche e con obiettivi drastici e pubblici di riduzione degli spread. Assicurazione europea dei depositi bancari. Meccanismi per la ristrutturazione ordinata dei debiti eccessivi di istituti finanziari e stati sovrani. E d’altra parte, al posto della cosiddetta “disciplina del mercato”: una più efficace regolamentazione (anticiclica) sia dei saldi dei bilanci pubblici, sia del settore finanziario privato.

(3)    Equilibrio interno e piena occupazione – Doppio mandato alla BCE. Alzare l’obiettivo d’inflazione al 3%. Rivedere in senso anticiclico il Fiscal Compact. Riformare il metodo di calcolo di output gap e deficit strutturali. Rafforzare il coordinamento delle politiche di bilancio dei paesi membri in funzione anticiclica. Introdurre un’assicurazione europea contro la disoccupazione.

(4)    Checks and balances – Oltre alle regole, occorrono meccanismi istituzionali in grado di imporne il rispetto: in primis, un reale potere di controllo e supervisione del Parlamento europeo sulla BCE.

In conclusione, l’eurozona ha bisogno di regole macroeconomiche nuove e intelligenti di rango e forza quasi costituzionali, tali da non poter essere ignorate dai paesi più potenti. Ma il cambiamento di filosofia necessario a produrre queste nuove regole equivale a una rivoluzione copernicana. Ciò rende un negoziato con la Germania difficilissimo, anche perché le radici neo-liberali dei Trattati vigenti hanno una fortissima inerzia. Perciò, oltre a limiti culturali, il fronte progressista è afflitto da un grave limite politico: il timore di tensioni e rotture con la Germania. In nome di un europeismo conciliante ma poco lungimirante, si preferisce prolungare la stagnazione economica, e si cade nella subalternità culturale. Solo l’avvio di un confronto informato, aperto e molto franco fra i governi potrà sciogliere l’impasse.

 

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