I fattori di modifica dell’Indice Glicemico

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I fattori di modifica dell’Indice Glicemico

La grande maggioranza dei glucidi abitualmente consumati dall’uomo sono glucidi complessi, composti essenzialmente da amido, e che appartengono quindi alla categoria degli alimenti amilacei, che si suddividono in quattro famiglie:

Le diverse famiglie di amilacei
Cereali Tuberi Leguminacee Frutta

Grano tenero

Grano duro
Riso
Mais
Avena
Orzo
Segale
Sorgo
Miglio

Patata
Patata dolce
Manioca
Igname
Taro
Tania
Fagioli
Piselli
Ceci
Lenticchie
Fave
Banane
Mango
Mele

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutti questi amidi, per essere assorbiti e passare nella circolazione sanguigna, devono essere trasformati in glucosio. Questo lavoro è realizzato dagli enzimi digestivi (in particolare le alfa-amilasi).
La digestione inizia in bocca con la masticazione e prosegue nell’intestino tenue, dopo aver transistato nello stomaco.

L’aumento della glicemia testimonia il livello di assorbimento del glucosio e, quindi, la digeribilità dell’amido.

La scala degli indici glicemici serve a misurare questa ampiezza.
L’osservazione ha dimostrato che per una stessa quantità di glucide, da un alimento all’altro, l’ampiezza glicemica post prandiale può essere molto diversa, poiché esiste nell’alimento una frazione di amido che resiste alla digestione, di conseguenza l’assorbimento può essere più o meno consistente.

Diversi fattori sono all’origine di questa variazione di digeribilità degli amidi, la cui ampiezza è misurata dall’indice glicemico.

Struttura dell’amido:

Il granulo di amido è costituito di due tipi di componenti molecolari: l’amilosio e l’amilopectina. Questi possono essere associati a lipidi, proteine, fibre, micronutrimenti (vitamine, sali minerali…).
È essenzialmente la proporzione di amilosio rispetto all’amilopectina che determina la natura chimico-fisica degli alimenti amilacei e i loro effetti nutrizionali sull’organismo dell’uomo.

Questo rapporto amilosio / amilopectina può essere molto diverso da una famiglia botanica all’altra, ma anche da una varietà all’altra all’interno di una stessa famiglia.

Gli amidi di cereali contengono in genere tra il 15 e il 28% di amilosio.
Ma alcune varietà di mais ne contengono meno dell’1% (mais ceroso i cui estratti sono utilizzati nell’industria alimentare come ispessenti).
Altre varietà di mais, invece, ne contengono dal 55 al 80%, ma sono poco coltivati dato che maggiore è la percentuale di amilosio, minore è il rendimento.
Gli amidi dei tuberi (chiamati anche fecole), per esempio nel caso della patata, hanno un tenore di amilosio molto più basso (dal 17% al 22%).
Per quanto riguarda gli amidi delle leguminacee (lenticchie, fagioli secchi, ceci…), questi sono al contrario molto più carichi di amilosio (dal 33 al 66%).

Le variazioni dell’indice glicemico

L’indice glicemico di un alimento amilaceo è funzione di diversi parametri:

  • Il rapporto amilosio-amilopectina

Sottoposto a un riscaldamento eccessivo dell’acqua, la struttura dell’amido si modifica. I granuli di amido, idratandosi progressivamente, si gonfiano e una frazione di amilopectina passa nella soluzione poi, se il riscaldamento si prolunga, anche una frazione di amilosio passa nelle soluzione.

Il risultato si traduce con una viscosità più o meno consistente della sospensione. È il fenomeno della gelatinizzazione dell’amido.

Occorre sapere che, più la proporzione di amilosio è bassa, maggiore è la gelatinizzazione, e viceversa.
Si è potuto dimostrare che più un amido si gelatinizza (per via della sua ridotta percetuale di amilosio) più è facilmente idrolizzabile dalle alfa-amilasi (enzimi digestivi dell’amido), maggiore è la sua propensione a trasformarsi in glucosio e più la glicemia ha, ovviamente, tendenza ad aumentare.

In altri termini se un amido contiene una piccola percentuale di amilosio, il suo indice glicemico sarà più alto. Al contrario, con una maggiore presenza di amilosio la gelatinizzazione sarà inferiore, così come la trasformazione in glucosio, e l’indice glicemico sarà più basso.

In questo modo si può facilmente desumere perchè la patata, che presenta una bassissima percentuale di amilosio, ha invece un indice glicemico alto. Le lenticchie, invece, con una percentuale di amilosio più alta, hanno un indice glicemico molto basso.

L’esempio del mais è altrettanto siginficativo.
Il mais «Waxy» (chiamato anche mais ceroso) praticamente sprovvisto di amilosio, è stato appunto selezionato dall’industria agro-alimentare per l’altissima viscosità del suo amido. Questo tipo di mais è abitualmente utilizzato per ispessire le gelatine di frutta, e per dare maggiore consistenza agli alimenti in scatola o surgelati. Nell etichette è menzionato alla voce: amido di mais.
Essendo il suo indice glicemico molto alto ( quasi pari a 100 ), contribuisce dunque a introdurre in tutte le preparazioni culinarie industriali nelle quali è presente un fattore importante di amplificazione della glicemia.

Al contrario, in Australia è stata realizzato un’interessante esperimento ; un produttore di pane industriale ha aggiunto una percentuale di mais speciale con un altissima presenza di amilosio (>80) al fine di ridurre l’indice glicemico di un tipo di pane bianco tradizionale. L’accoglienza del pubblico è stata, a quanto pare, molto favorevole, soprattutto quella dei bambini, che generalmente si rifiutano di consumare pane integrale.

  • Il tipo di trattamento tecnico e chimico di cui è oggetto l’alimento

L’idratazione e il calore aumentano l’indice glicemico di un alimento. La carota, per esempio, ha un indice glicemico pari a 20 quando è cruda. Non appena la si fa bollire in acqua, il suo indice glicemico sale a 50, per via della gelatinizzazione del suo amido.

Alcuni processi industriali aumentano al massimo la gelatinizzazione. Ciò accade per esempio nella produzione dei fiocchi (purea di patate instantanea) o dei cornflake, ma anche dei leganti quali gli amidi modificati e gli amidi destrinizzati.

Queste operazioni portano dunque ad aumentare notevolmente l’indice glicemico (85 per i cornflake, 95 per il puré in fiocchi, 100 per gli amidi modificati).
Allo stesso modo l’esplosione del chicco di maïs, per la produzione di pop-corn, o del chicco di riso per la produzione di riso soffiato, aumenta del 15 / 20% l’indice glicemico originario.

La «pastificazione» riduce l’indice glicemico
Esiste d’altra parte un processo tecnico naturale che tende a frenare l’idratazione dell’amido. È quanto accade con la «pastificazione» del grano duro. L’estrusione della pasta attraverso una filiera porta a un riscaldamento che si traduce con la costituzione di una pellicola protettiva, che contribuisce a rallentare la gelatinizzazione degli amidi durante la cottura.
Ma ciò che vale per gli spaghetti o per alcuni tipi di tagliatelle, che sono appunto «pastificati», ossia estrusi per effetto di un’elevata pressione, non si applica invece ai ravioli, alle lasagne o alla pasta fresca ritagliata con piccole macchine a mano e il cui indice glicemico è molto più alto, allorquando si tratta di prodotti che contengono la stessa farina di grano duro.

Partendo da una stessa farina si può dunque arrivare a ottenere prodotti con indici glicemici molto diversi (ravioli 70, spaghetti 40).

Bisogna aggiungere che la cottura che precede il consumo di questi alimenti modificherà ulterioremente l’indice glicemico finale.

La cottura al dente (da 5 a 6 minuti) consente di conservare l’indice glicemico degli spaghetti al livello più basso, mentre una cottura prolungata a 15/20 minuti provoca un aumento dell’indice per via dell’accelerazione della gelatinizzazione dell’amido.

  • La retrogradazione: il processo inverso della gelatinizzazione

Dopo essere stato oggetto di cottura, che provoca gelatinizzazione, l’amido si modifica nuovamente raffreddandosi.

Progressivamente il gel riorganizza le macro-molecole di amilosio e di amilopectina. Si tratta del fenomeno della retrogradazione, ossia il ritorno (che può essere più o meno importante) alla struttura molecolare precedente. Il fenomeno di retrogradazione aumenta del resto con il tempo e con la riduzione della temperatura.

La prolungata conservazione a basse temperature (5°) di alimenti amilacei (piatti pronti sotto vuoto) agevola dunque la retrogradazione. Si ottiene lo stesso fenomeno lasciando seccare alcuni alimenti. Per esempio, più il pane è raffermo, più l’umidità si sposta verso l’esterno, agevolando così la retrogradazione dell’amido. Lo stesso accade quando si fa abbrustolire il pane.

Anche se la retrogradazione non provoca una reversibilità totale della gelatinizzazione, ciò non toglie che consente di ridurre l’indice glicemico. Ecco perché gli spaghetti (anche raffinati) cotti al dente, o raffreddati e consumati in insalata, avranno un indice glicemico pari a 35.

Si può altresì dedurre che una pagnotta prodotta con la stessa farina, a seconda che sia preparata fresca (e ancora calda), rafferma o tostata, non avrà lo stesso indice glicemico.

Allo stesso modo, si può ritenere che il fatto di congelare una pagnotta fresca, poi scongelarla a temperatura ambiente, porta ad abbassare notevolmente il suo indice glicemico originale.

D’altra parte, è interessante sapere che le lenticchie verdi fredde, (a maggior ragione se sono rimaste nel frigorifero per 24 ore) hanno un indice glicemico ancora più basso dello stesso prodotto appena cotto (tra 10 e 15). Questo si spiega perchè più l’amido d’origine è ricco di amilasi, maggiore è l’efficacia del fenomeno di retrogradazione.

Tuttavia, è stato dimostrato che il fatto di aggiungere lipidi a un amido che è stato oggetto di gelatinizzazione provoca un rallentamento della retrogradazione.

Inoltre, è buono sapere che un amido retrogradrato che viene riscaldato perde parte del suo potere di gelatinizzazione. Una frazione (il 10% circa) dell’amido retrogradato diventa termoresistente, il che porterebbe a dimostrare che il riscaldamento di un glucide dopo la conservazione al freddo contribuirebbe a ridurne l’indice glicemico.

Infine, è importante segnalare che l’amido allo stato originario (grezzo e naturale) non è presente solo negli alimenti crudi. Può in alcuni casi persistere sotto questa forma dopo la cottura quando il contenuto di acqua del prodotto è stato localmente insufficiente per consentirne la gelatinizzazione. È quanto accade, in particolare, con la crosta del pane e i biscotti di tipo “sablé” (pasta frolla), dove la struttura granulare dell’amido persiste in parte dopo la cottura, diminuendone di conseguenza l’indice glicemico rispetto agli amidi che invece sono stati gelatinizzati (quello della mollica del pane, ad esempio).

È il motivo per cui la cottura a vapore, delicata, o stufata, con un potere d’idratazione basso, se paragonata alla cottura per immersione, provoca una minima gelatinizzazione.

  • Il contenuto di proteine e di fibre

Per alcuni glucidi, il contenuto naturale di proteine può essere all’origine di una minima idrolizzazione (digestione) degli amidi, e di conseguenza di una riduzione dell’indice glicemico.
Ciò accade in particolare nella famiglia dei cereali.

Il fenomeno è particolarmente evidente nel caso della pasta alimentare. La presenza di glutine rallenta, infatti, l’azione delle amilasi digestive e ciò limita allo stesso modo l’assorbimento di glucosio.

Emerge d’altra parte che il contenuto di fibre alimentari di un amido può costituire una barriera contro l’azione delle amilasi, e ridurre così ulteriormente l’assorbimento di glucosio. Tuttavia, sembra che siano principalmente le fibre solubili (che si ritrovano nella maggior parte dei casi nelle leguminacee, ma anche nell’avena) a poter rivestire un ruolo diretto o indiretto sulla riduzione dell’assorbimento intestinale del glucosio, e far così abbassare l’indice glicemico dell’amido in oggetto.

Il grado di maturazione e di invecchiamento

I frutti amilacei aumentano il loro indice glicemico in funzione del loro grado di maturazione. Il fenomeno è particolarmente vero per la banana (molto meno per la mela). Una banana acerba (verde) avrà un indice glicemicopiuttosto basso (circa 40), mentre al termine della sua maturazione l’indice sarà molto più alto (65), per via della trasformazione del suo amido che, via via che il frutto matura, diventa sempre meno resistente. La cottura della banana verde dà origine allo stesso fenomeno.

Per cercare di essere il più esaurienti possibile, bisogna altresì notare che la conservazione di alcuni alimenti, in particolar modo la patata, provoca un aumento dell’IG per via della trasformazione naturale dei loro amidi. Le patate conservate per diversi mesi hanno dunque un indice glicemico più alto rispetto alle patate novelle.

  • La dimensione delle particelle

Quando un amilaceo è macinato, più le particelle di amido sono sottili, più l’idrolizzazione delle molecole di amido è favorita, il che comporta come conseguenza l’aumento dell’indice glicemico.

Ciò è vero soprattutto per i cereali quando sono ridotti in farina.

La farina di riso ha così un IG maggiore del riso originario.

Un tempo il grano era macinato a pietra e ridotto in particelle di grosse dimensioni. Anche se poi era passato attraverso un setaccio, quest’ultimo era sommario e la farina che ne risultava rimaneva tutto sommato piuttosto grossolana (farina nera).

Il cosiddetto «pane bianco» dell’epoca aveva così un IG che andava da 60 a 65, un valore piuttosto ragionevole. Oggi, tra i rari tipi di pane che corrispondono a questo standard, vi è il celebre pane «Poilâne» (celebre pane francese con farina macinata a pietra). Questo tipo di pane è tanto più interessante per il fatto che è prodotto esclusivamente con lievito naturale, il che contribuisce ancor di più a ridurre l’indice glicemico.

Il pane del popolo, dal canto suo, un tempo era fatto con una farina grezza non abburattata che conservava per intero i componenti del chicco di grano, da cui deriva il nome «pane integrale». Considerato che le particelle erano abbastanza grossolane, che conteneva un’elevata percentuale di fibre e di proteine e che, come se ciò non bastasse, era fatto con il lievito, l’indice glicemico risultava ovviamente ancor più basso (tra 35 e 45).

 

Nutrienti

Farina integrale per 100g

Farina bianca (T55) per 100g

roteine

12 g

8 g

Lipidi

2.5 g

1 g

Glucidi

60 g

74 g

Fibre

10 g

3 g

Acqua

15.5 g

14 g

Dimensione delle particelle

Grossolana

Sottile

Indice Glicemico

40

70

Con l’invenzione del mulino a cilindro nel 1870, la fabbricazione della farina bianca si è diffusa, in un primo tempo in Occidente, poi in tutti i paesi del mondo. Questo nuovo mezzo tecnico ovviamente considerato, anche se a torto, un «progresso», si sarebbe tradotto in un impoverimento della qualità nutrizionale del pane.

Da allora, grazie alle attrezzature dell’industria molitoria sempre più sofisticate, le farine sono sempre più «pure», nel senso tecnico del termine. Il che si traduce, nutrizionalmente parlando: meno fibre, meno proteine e micronutrimenti (vitamine, minerali, acidi grassi essenziali…) e particelle sempre più sottili. Da ciò deriva un indice glicemico sempre più elevato in tutti gli alimenti di cui questa farina iperraffinata è uno dei principali componenti.

Conclusione

L’ampiezza della variazione degli aspetti nutrizionali dei glucidi merita quindi grande attenzione.
Non esiste infatti un solo tipo di amido, bensì diversi tipi di amidi.

Sono diversi, innanzitutto all’origine, per via della loro struttura molecolare (rapporto amilasi / amilopectina), nonché del contenuto e della natura dei nutrimenti che sono loro associati (proteine, fibre).

Le proprietà chimico-fisiche degli amidi evolvono costantemente sotto l’influenza dell’acqua, delle variazioni di temperatura e del tempo.

Ogni trattamento idrotermico, industriale o culinario, provoca una trasformazione dell’alimento che gli conferisce delle proprietà e una digeribilità specifiche.

Ne risulta un assorbimento intestinale specifico che si traduce in una relativa risposta glicemica e insulina.

L’indice glicemico di un alimento è il risultato di numerosi parametri, di cui bisogna assolutamente tenere conto nelle nostre scelte nutrizionali.

Tralasciando l’interesse di queste nozioni specifiche, nonostante il fatto che siano note da oltre 15 anni, la «Dietetica tradizionale» ha lasciato che l’industria agroalimentare sviluppasse non solo varietà botaniche sospette, ma anche e soprattutto tecniche industriali di trattamento, cottura e conservazione che concorrono indirettamente ad aumentare in  modo allarmante le glicemie postprandiali in chi consuma gli alimenti moderni.

Sappiano oggi che l’iperinsulinismo, che è la conseguenza finale di questi perversi effetti metabolici, è all’origine della prevalenza dell’obesità, del diabete e di numerose patologie cardio-vascolari.

Sapendo ciò, possiamo misurare l’imprudenza delle attuali raccomandazioni nutrizionali ufficiali nei confronti del Grande Pubblico, al quale si consiglia di consumare dal 50 al 55% di glucidi rispetto ai loro apporti alimentari quotidiani, senza però specificare il tipo di glucide. Peggio ancora, se per caso questo aspetto è menzionato, lo si fa sempre con riferimento alla classificazione degli zuccheri lenti / zuccheri rapidi, che è assolutamente errata.

Come afferma il Professor Walter WILLET della Harward Medical School, infatti, queste raccomandazioni non sono mai accompagnate da spiegazioni complementari che consentono al tempo stesso la scelta e il trattamento (cottura, conservazione..) di questi glucidi rispetto al loro indice glicemico.
Tuttalpiù si consiglia «ufficialmente» di consumare preferibilmente glucidi complessi, il che non significa un granché, viste le attuali conoscenze in materia di nutrizione.

Lo affermano del resto i ricercatori F. Bornet e Professor G. Slama: non solo «i glucidi complessi non sono intercambiabili» come si è a lungo creduto, ma bisogna essere consapevoli del fatto che «alcuni amidi o alimenti amilacei, anche se complessi, sono più iperglicemizzanti degli zuccheri semplici». Ciò accade per esempio nel caso delle patate fritte (IG 95), che sono più iperglicemizzanti dello zucchero (IG 70).

Passando da abitudini alimentari poco glicemizzanti (con cibi composti prevalentemente di glucidi a indice glicemico basso e molto basso), che erano quelle dei nostri antenati, ad abitudini alimentari iperglicemizzanti (con cibi composti prevalentemente di glucidi a indice glicemico alto e molto alto), una percentuale sempre maggiore di individui ha sviluppato patologie metaboliche e soprattutto l’iperinsulinismo, che rappresenta un fattore di aumento di peso e di diabete.

 

 

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