Padre Nostro. Riflessioni ….

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Padre Nostro. Riflessioni ….

Il breviarium totius evangelii (il “breviario” – riassunto – di tutto il vangelo), così come amava chiamare il “Padre nostro” Tertulliano tra la fine del II e l’inizio del III secolo (De oratione 1,6), è la preghiera del cristiano per eccellenza.

Eessa non è “una” delle preghiere della chiesa, ma “la” preghiera – l’unica – che il Maestro ha insegnato ai suoi.

Per questo i cristiani, a partire almeno dal IV secolo, la recitano durante la celebrazione dell’Eucaristia.

La radice aramaica del termine preghiera ha vari significati letterali: “inclinare, inclinarsi, piegarsi verso, porre l’intenzione in qualcosa, porre o preparare la mente, applicare i pensieri a, piegare uno a una cosa o all’altra, ma anche stabilire insidie, predisporre trappole”.

Pregare è quindi un inclinare e preparare la mente affinché intrappoli tutta la sua attenzione verso qualcosa di ben stabilito e specifico che sorge da un desiderio.

La mente e quindi lo spirito vanno sintonizzati e regolati in un modo di pensare e in uno stato di essere che le parole della preghiera indicano. Ciascuna parola della preghiera è in pratica una trappola che ha il compito di irretire tutte le dimensioni dell’uomo che sta pregando – mente, cuore, anima e forze emotive – perché non siano da nessun’altra parte se non dove il senso o il desiderio di quella parola sono posizionati.

Questo afferma che non esiste preghiera, se non esiste la totale concentrazione amorosa di tutte le dimensioni dell’uomo nell’incontrare Dio come sorgente e come compiersi dei propri desideri.

La potenza smisurata della preghiera sta proprio nella totalità della concentrazione amorosa di chi prega. Sta nel riuscire a irretire, a intrappolare nelle parole della preghiera completamente tutto il proprio essere e il proprio desiderare.

Ogni parola della preghiera è una rete, che deve intrappolare e raccogliere, trattenere senza scampo tutta la nostra attenzione e slancio d’amore. Il più piccolo rancore del cuore, con chiunque sia, la rabbia più sottile della mente, il fastidio più semplicistico hanno il potere sconcertante di rompere le maglie della rete e di disperdere la potenza della preghiera nel nulla di un patetico cicalare dallo sfondo vagamente religioso.

In greco il verbo pregare, proseuchomai – formato da pros, “verso” ed euchomai, “prego supplico” – significa letteralmente “annuncio, dico, nomino, chiedo”: indica cioè un’affermazione, una sottolineatura di una realtà particolare e puntuale. Euchomai nei suoi svariati significati radicali indica “dichiaro, prometto solennemente, faccio voto, desidero, rendo grazie”. La radice indoeuropea eugh e in particolare il sanscrito ohate si traducono con “lodare”, l’accadico awatu con “parola solenne” dalla radice sempre accadica qawu che ha il senso di “parola a Dio, promessa”, il neobailonese buchuchu con “ho ambizione, desidero”.
Preghiera quindi, e in particolare la Preghiera – il Padre Nostro – nell’accezione dei diversi gruppi linguistici, è la predisposizione mentale e spirituale ad affermare nello stesso istante la gloria, la presenza di Dio e la potenza e l’impellenza del desiderio.

In questo senso il Padre Nostro, come è costruito nella forma e nella sostanza, è una preghiera semplicemente perfetta.

Desiderare è un concetto che non trova traduzione verbale; le diverse lingue esprimono generalmente il desiderare attraverso delle perifrasi linguistiche costruite da ausiliari in forme composte, “voglia il cielo che, vorrei poter, vorrei che, magari io potessi, sarebbe bello se”.

C’è un modo temporale, il condizionale, che esprime l’ipotesi, l’ottativo esprime la speranza, poi ci sono i vari tempi futuri e l’unico presente.

Non c’è un preciso tempo per esprimere il desiderio e il desiderare, perché, come dice Gesù, ognuno parla dalla pienezza del cuore; le civiltà che nella pienezza del loro cuore non hanno la cultura spirituale di coltivare il desiderio e il desiderare non hanno ovviamente nemmeno una forma verbale utile ed efficace per esprimerlo.

Per queste civiltà il desiderio nasce da una necessità, la necessità da una mancanza, la mancanza dalla dimensione del tempo. È solo concependo la vita arginata tra passato e futuro che si sperimenta spiritualmente e mentalmente l’angoscia della mancanza, di ogni mancanza.

In realtà nel presente, nell’istante e nell’ora presente, che è il tempo di Dio, c’è sempre tutto, completamente tutto ciò che ci serve, perché non c’è un istante dove Dio non ama completamente e totalmente.

È solo l’azione mentale del giudicare e del porsi in conflitto con il presente, con ciò che è, che annulla ogni percezione dell’amore e della bellezza di cui Dio ci fa partecipi.

Desiderare è un atteggiamento spirituale che vive, si nutre e cresce al presente.

Il lavoro straordinario di Gesù, in tutta la sua vita terrena e ora nella sua presenza invisibile, ma certa, è quello di ispirare gli uomini a imparare a desiderare e insegna loro a farlo non mai con le categorie della speranza o del futuro, ma sempre con quelle della certezza della fede e del presente.

Il termine speranza, per quanto strano possa sembrare, non è un termine evangelico, mai appare nel linguaggio di Gesù, non fa parte della sua visione di Dio e del suo annuncio.

Nelle categorie della catechesi e dell’annuncio di Gesù, il Figlio di Dio, il termine speranza e la posizione mentale che esso rappresenta, suonerebbe come un’antitesti ingannevole rispetto alla potenza e alla certezza della fede e del credere. Chi crede non spera, chi spera non crede.

La parola greca elpis, “speranza”, e nemmeno l’atteggiamento interiore dello sperare sono mai presenti nei vangeli.

Il Padre Nostro nel testo greco opera una scelta verbale particolare in quanto usa l’unica forma dell’aoristo e nell’unico tempo verbale dell’imperativo, attivo e passivo.

Comunemente questa forma verbale viene tradotta con “sia santificato, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, dacci il pane quotidiano, perdona i nostri debiti”, ma è una traduzione che non rende l’ampiezza reale dei significati espressi dalla preghiera e non è coerente con l’atteggiamento spirituale di Gesù che in tutto il vangelo non risponde mai, assolutamente mai, alle esigenze dell’uomo con un augurio, un’ipotesi o con l’invito alla speranza.

Anche San Girolamo nella Vulgata, per tradurre i vangeli dal greco al latino non ha scelto l’imperativo – come avrebbe potuto fare – ma il congiuntivo esortativo.

Il tempo aoristo – da aristos chronos, letteralmente aorizein “senza confini” – indica un’azione accaduta in un tempo indefinito, senza appunto porre confini temporali. Indica cioè un’azione fuori dal tempo, o meglio un’azione che è già stata compiuta nell’istante stesso in cui si pronuncia, e si è compiuta in una dimensione eterna, atemporale, nel tempo senza tempo di Dio. Nel testo greco poi l’azione è espressa alla seconda persona singolare e si riferisce quindi al Padre e afferma che il Padre ha voluto tutte queste cose e per questo motivo le ha compiute e le compie in ogni istante, e perciò adesso all’uomo spetta lodarlo e riconoscerlo nella preghiera.
L’imperativo aoristo è una vera e propria ucronia – da u, “contrario”, chronos, “tempo” – è una contraddizione temporale, definisce un tempo che non esiste. In particolare è il comando di un’azione già avvenuta e destinata a durare, è un atteggiamento, una decisione spirituale precisa prima ancora che inizi la vera e propria attività etico-pratica.

In questo contesto la traduzione italiana scelta è un presente indicativo. Presente perché si tratta di un tempo in cui l’azione avviene nello stesso momento in cui si esprime; indicativo perché è il modo dell’oggettività e della certezza.
Dire Padre Nostro che sei nei cieli è un’affermazione dossologica precisa che deriva dall’esperienza diretta di Gesù e dalla certezza di fede del popolo, che coglie questa verità dall’autorità stessa dei testi evangelici.

Proprio perché è Dio abita per simbologia la parte più elevata da noi conosciuta, i cieli appunto. Pregare Dio Padre che è nei cieli, dicendo “Padre nostro che tu sia nei cieli”, non avrebbe dunque senso. Dio è nei cieli.

Allo stesso modo pregare e affermare che il nome di Dio è santo, è in ogni istante e sempre santificato, ha un significato diverso che dire “sia santificato il tuo nome”.

Così è per il regno e la volontà di Dio che, in tutto il vangelo, Gesù stesso afferma con precisione essere realtà già piene e sempre presenti e in realizzazione qui e ora. Non avrebbe senso quindi invocarle come delle possibilità, delle speranze, delle opzioni che dipendono dall’implorazione stessa dell’uomo.
Nel testo aramaico di Peshitta è interessante notare che le tre invocazioni iniziali che riguardano il nome, il regno, la volontà di Dio, sono espresse verbalmente attraverso l’imperfetto, che può essere appunto tradotto con l’indicativo presente, l’indicativo futuro o il congiuntivo ottativo.

Anche qui la scelta operata in questo contesto, che resta aperta a due varianti (indicativo presente e congiuntivo esortativo), cade sull’indicativo presente che indica la certezza, non una possibilità.

Le tre invocazioni finali sono espresse da un imperativo, ma in aramaico l’imperfetto e l’imperativo coincidono e si suppliscono a vicenda.
Non si vuole qui sostituire o negare la forma verbale imperativa dell’aoristo, quanto invece aprire una strada di riflessione spirituale sempre alla luce dell’autorità e della bellezza dei testi evangelici.
È importante sottolineare il pronome possessivo “nostro” che percorre tutta la   preghiera, si ripete più volte e ne struttura la composizione, dona ritmo e cadenza al suo incedere. È il pronome che ci pone insieme e come famiglia al cospetto di Dio unico Padre, è il pronome che aiuta l’uomo che prega a non dimenticare mai qual è la particolare e stupefacente forza della preghiera quando è preghiera comunitaria, preghiera dei cuori in coro, preghiera dell’unità, la preghiera che Gesù stesso ci ispira a compiere in Matteo 18,20: Dove infatti sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro. È la preghiera della chiesa. Il pronome nostro segna il passo all’universalità di questa preghiera che, senza confini temporali nella forma verbale e senza confini spirituali nell’essenza, è la preghiera di tutti gli uomini e di tutto l’uomo nella lode a Dio e nell’umanità delle richieste. Il Padre nostro nasce da un episodio particolare raccontato in Luca 11,1 dove Gesù stesso insegna a pregare ai suoi discepoli.

Gesù, come dice espressamente il testo, non insegna solo la preghiera, ma in questa preghiera insegna a pregare, insegna la procedura del pregare, per una preghiera potente, vera ed efficace. Ascolta il Padre Nostro in aramaico

Padre nostro che sei nei cieli
santificato è il tuo nome
il tuo regno viene
la tua volontà si compie
come in cielo così in terra

Tu ci doni il pane di ogni giorno
tu rimetti a noi i nostri debiti
nell’istante in cui noi li rimettiamo
ai nostri debitori

Tu non ci induci in tentazione
ma nella tentazione ci strappi dal maligno

Perché tuo è il regno
e la potenza
e la gloria
ora e per sempre
Amen

Padre nostro che sei nei cieli
Santificato è il tuo nome
Il tuo regno viene
La tua volontà si compie
Come in cielo così in terra
La tua volontà si compie
Come in cielo così in terra
La tua volontà si compie

Tu ci doni il pane di ogni giorno
Tu rimetti a noi i nostri debiti
Nell’istante in cui noi li rimettiamo
Ai nostri debitori
Tu non ci induci in tentazione
Ma nella tentazione ci strappi
Dal maligno
Perché tuo il regno la potenza
E la gloria ora e per sempre
Perché tuo il regno la potenza
E la gloria ora e per sempre

Avun d(e)vashmayyo
Nethqaddash sh(e)mokh
Tithe malkuthokh
Nehwe tsevyonokh
Aykan no d(e)vashmayyo
Of bar‘o nehwe tsevyonokh
Aykanno d(e)vashmayyo
Of bar‘o nehwe tsevyonokh
Hav lan lachmo d(e)sunqonan yawmono
Washvuq lan chaubayn
Aykanno dof chnan shvaqn
L(e)chayyovayn
W(e)lo ta‘lan l(e)nesyuno
Ello patson ello patson
Men bisho
Mettul d(e)dhilokhi
Malkutho w(e)chaylo w(e)theshbuchto
Mettul d(e)dhilokhi
Malkutho w(e)chaylo w(e)theshbuchto

L(e)‘olam ‘Olmin Amin

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