Gli economisti deviati e la crisi del capitalismo

Gli economisti deviati e la crisi del capitalismo

Roberto Panizza* – 14 ottobre 2014 daEconomia e Politica

financecrisis

Ho letto su questa rivista l’articolo di John T. Harvey di cui condivido molte delle idee enunciate, iniziando dal fatto che l’economista Christine Romer, a capo del board del presidente Obama, è purtroppo condizionata dalla sua formazione neoclassica, simile a quella di molti di coloro che hanno contribuito – nell’arco degli ultimi anni, a partire dall’inizio del nuovo millennio – a innescare crisi drammatiche sia sul piano produttivo sia sul piano finanziario. Qualcuno addirittura sostiene che i loro risultati finali siano addirittura peggiori di quelli generati dalla Grande Depressione degli anni ’30, con la differenza che, mentre nel passato, le scelte del presidente Roosevelt e dei suoi collaboratori, come il britannico John M. Keynes o lo statunitense Adolf A. Berle, contribuirono a lanciare politiche pubbliche radicali, oggi non viene formulato nulla di innovativo e vengono soltanto peggiorate le già difficili condizioni economiche.
Il mio intento è quello, invece, di riscoprire il grande insegnamento dei classici, esaltando la loro avversione verso gli economisti ancorati a schemi molto limitativi, come evidenziato da Adam Smith quando si scagliò contro gli interessi monopolistici o quelli dei fisiocratici francesi, sostenitori esclusivamente del ruolo della natura, oppure dallo stesso David Ricardo che teorizzò infinite possibilità di soluzioni all’interno del commercio internazionale o, infine, da Ferdinando Galiani, oggi poco conosciuto ma che, nel 1751, enunciò le possibilità alternative nella gestione della moneta, a seconda delle differenti circostanze storiche.
Oggi, invece, gli economisti hanno spesso condizionato in modo negativo le scelte governative, contribuendo ad imporre, alle più prestigiose università dell’Occidente, modelli superati e distorsivi, fondati su schemi teorici astratti e dominati dalla preoccupazione esclusiva di definire i prezzi, tralasciando di cogliere l’importanza dei livelli di redditi o di altre variabili, come le interdipendenze strutturali, che vanno studiate simultaneamente a causa della complessità della realtà odierna. I loro modelli, praticamente, impongono in maniera elementare – già a partire dalla fine della seconda guerra mondiale – il mantenimento dell’equilibrio, della stabilità e della razionalità. E così che paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti sono stati progressivamente indeboliti rispetto a quando dominavano quasi tutto il mondo sviluppato, come ha avuto modo di evidenziare già J. Stiglitz nel suo libro Freefall (2010).
Negli Stati Uniti, in particolare, a partire dall’amministrazione Carter, venne insediato a capo della Fed, Paul Volcker, convinto monetarista che indebolì pesantemente – a causa degli alti tassi di interesse da lui praticati − l’economia statunitense, tanto da indurre il nuovo presidente Reagan, a sostituirlo con Alan Greenspan nel 1987.
Seguì l’adozione di una politica monetaria più accomodante: in effetti, qualche anno più tardi, questa decisione convinse Clinton a teorizzare la new economy, nel senso che le operazioni sui mercati finanziari avrebbero assicurato nuovi guadagni anche ai cittadini meno privilegiati, venendo utilizzati nel settore impiegatizio e lavorativo. Gli operatori dei mercati finanziari assicurarono una relativa stabilità per qualche anno, ma a fine mandato presidenziale le vendite dei titoli posseduti finirono per deprezzare le quotazioni, con ricadute preoccupanti sui mercati.
Non c’è dubbio che a dare il via al preoccupante declino siano state prima di tutto le regole imposte dai marginalisti e dai neoliberisti, a capo sia degli staff della Casa Bianca sia di altri governi occidentali, e anche da molti dei teorici keynesiani, che non furono però in grado di comprendere fino in fondo il grande insegnamento dell’economista di Cambridge.
Occorre ricordare che l’ultimo presidente americano a perseguire politiche di sostegno del sistema produttivo del suo paese fu Richard Nixon, indirizzato fortemente dal suo Segretario di Stato Kissinger, aprendosi al commercio internazionale con la Cina e con l’Unione Sovietica. Poi, un “provvidenziale” impeachment pose fine al consolidamento dell’economia statunitense, che finì per privilegiare, invece, investimenti finanziari e numerose guerre lunghe e costose. Tali scelte furono adottate anche dai paesi europei, e ciò si tradusse in uno smantellamento progressivo del sistema industriale dell’Occidente, con le imprese produttive, soprattutto più innovative, purtroppo cedute a capitali stranieri, in particolare cinesi. Non è più sufficiente oggi elogiare il ruolo della Silycon Valley o di qualche altra eccezione di carattere marginale; esse non sono più in grado, da sole, di sostenere l’intera economia mondiale, come a suo tempo già sostenuto da E. Todd, nel suo libro Dopo l’impero (2002).
Il mancato stimolo alla crescita delle attività produttive ha finito, nel tempo, con il privilegiare ulteriormente quelle finanziarie, fondate su un sofisticato complesso di modelli molto articolati tra loro, ma purtroppo costruiti sul nulla.
Questo sistema, non più legato alle attività reali della produzione, si è tradotto in scelte teoriche astratte non fondate su ipotesi valide, e nelle quali hanno finito per trionfare gli analisti che hanno creato potenzialità di investimenti: questi ultimi, anche se gestiti in modo egregio, hanno però garantito elevatissimi utili solo a coloro che erano già molto ricchi, impoverendo pesantemente, invece, i meno avveduti. Così mentre i privilegiati guadagnavano moltissimo, guidati nelle scelte di acquisti o vendite, gli altri investitori perdevano a dismisura, indebitandosi fortemente e creando condizioni di forte instabilità dei mercati. Masse enormi di denaro (circa 500mila miliardi di dollari) venivano accumulate negli anni: mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna smantellavano il loro sistema industriale, i loro mercati borsistici disponevano di risorse di 10 o addirittura 20 volte maggiori dei Pil dei loro paesi. Mentre esplodevano la disoccupazione e la povertà, e si registrava la caduta delle quotazioni degli immobili, una sparuta minoranza di grandi privilegiati, grazie ai sotterfugi e agli imbrogli degli operatori della finanza, accumulava quantità enormi di ricchezze: questa arroganza può ancora portare al rischio che si possano verificare, nel prossimo futuro, e come già previsto sempre da Stiglitz, massicci cedimenti di questi mercati.
Purtroppo non ha retto la speranza di sostenere operazioni speculative su tali titoli, poco credibili nella sostanza. E’ proprio questo il timore di coloro che non credono in questo tipo di manovre non fondate su strutture reali. Le minacce di tali crolli, come è stato spiegato da pochi analisti ben informati, sono molto elevate e le conseguenze preoccupanti, dato che i paesi capitalistici occidentali sono privi di una effettiva struttura produttiva in grado di affrontare la crisi e di far ripartire la crescita.
E’ mia convinzione che le scelte sbagliate condotte da economisti “deviati” da modelli astratti e avulsi dalla realtà, stiano contribuendo a minacciare il mantenimento dello stesso sistema capitalistico, così come inteso nel mondo occidentale. Questi anni di crisi, che hanno progressivamente indebolito tutte le prospettive di crescita del nostro sistema economico (e i dati positivi dell’attuale economia statunitense sembrano un po’ sopravvalutati) non hanno indotto gli economisti a intervenire per modificare radicalmente i loro insegnamenti. Continuare a proporre modelli di stabilità è deleterio quando – in realtà –sempre più frequentemente si diffondono condizioni di disequilibrio. Inoltre, di fronte ai crolli dei mercati borsistici, come possiamo ancora illuderci che si ritrovino i vecchi equilibri? Così come appare illusorio parlare di una razionalità dei soggetti economici che spesso non sono più in grado, data la complessità dei mercati, di operare in modo corretto.
D’altra parte, dato il ripetersi, come in questi giorni, di crolli di Borsa e il permanere di criticità molto gravi, gli economisti non possono continuare a riproporre modelli teorici che non rispondono più alle nuove realtà dei nostri tempi: con essi e con le loro astrattezze non si può pensare di risolvere le crisi.
*Ordinario di economia internazionale nell’Università di Torino

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La Grecia ha ingannato Ue e Fmi. Sporchi traditori o Nuova teoria ?

 La Grecia ha ingannato Ue e Fmi. Sporchi traditori o Nuova teoria ?

“La Grecia ha violato un accordo con l’Unione europea e il fondo monetario internazionale assumendo circa 70mila funzionari nel 2010-2011.”

“Grecia: viola accordi, in 2 anni 70mila assunzioni nel pubblico
AGI – Agenzia Giornalistica Italia”

“la Grecia assume 70mila diepndenti pubblici in barba agli accordi …
Il Sole 24 Ore”

“La Grecia truffa la troika: assunti 70mila funzionari Violato l …
il Giornale”

Eccoli  tutti scatenati. Le maggiori testate  d’Italia si levano in coro. Sporchi traditori, fedifraghi, mentitori, ma come si permettono. Le maggiori testate  e i aggiori testoni, prezzolati e copioni. Dimostrando di non sapere scrivere, di non sapere quello che scivono, di saper fare solo copia incolla e, cosa più grave, di essere totalmente asserviti e non poter usare la loro testa.

Ne abbiamo avuto già tante dimostrazioni. E anche in questa occasione nessuno sa alzare la testolina e volgere lo sguardo un pò oltre. Magari a intravedere un lontano orizzonte di libertà.

Ricordate la “PAZZA IDEA” di Berlusconi ( stampare euro e tornare a essere uno stato sovrano )? Neppure tanto pazza. E con le repliche degli ultimi giorni sembra volere, certamente solo per cavalcare il malcontento a fini elettorali, continuare a sviluppare la sua “pazzia”. Tutti contro. Tutti in coro. Taca banda !!!

E ora la stessa cosa. Contro la Grecia. Ma a qualcuno non viene in mente che forse, sotto sotto, e neppure tanto, ci possa essere qualcosa di più serio ?  Che sotto le pressioni della massonica troika montiana possa esserci una idea nuova, diversa ? Non potrebbe trattarsi del, timido, tentativo di cercare di attuare la MMT Modern Money Theory ?

Vi rimando all’articolo dell’economista  Gennaro Zezza nella parte in cui dà una breve introduzione.

Allo stesso modo riporto una bellissima spiegazione, con la speranza che altri facciano lo stesso. Chissà,se anche i testoni delle grandi testate avranno qualche dubbio o ripensamento prima di riportare tradimenti e complotti contro i loro padoni ” da li beli brachi bianchi ” :

 

Un tempo la moneta aveva il valore del metallo di cui era composta: monete d’oro, d’argento, di bronzo, ad esempio. Quel valore, ovviamente, era pur sempre convenzionale, e restava garantito dall’effigie del Re o dell’Imperatore.

Poi arrivarono le banconote, e le banconote o le monete di metalli non pregiati avevano un valore che era convenzionalmente garantito dalle riserve d’oro detenute nei forzieri dalle banche centrali.

Nel 1944, con gli accordi di Bretton Woods, fu deciso che la moneta di riferimento convertibile in oro fosse il dollaro, valuta cardine per le altre monete.

Nel 1971 il presidente degli Stati Uniti Nixon decise di metter fine alla convertibilità del dollaro in oro.

Da quel momento, tutte le valute del mondo hanno avuto un valore solo in virtù di una convenzione, e non in rapporto al valore che esse avevano correlate all’oro, ad esempio (la qual cosa resta, comunque, una ulteriore convenzione garantita sempre dallo Stato).

L’evoluzione tecnologica negli ultimi 40 anni sta permettendo di creare e spostare moneta (sotto forma di bit elettronici e non solo come “cartamoneta”) in pochissimo tempo.

Le banche centrali potrebbero quindi creare tutta la massa monetaria che vogliono, in un solo istante.

La banca centrale degli Stati Uniti, per salvare le banche finanziarie sull’orlo della bancarotta, ha emesso 16 trilioni di dollari (16.000.000.000.000), non sotto forma di banconote ma come impulsi elettronici.

Si calcola infatti che soltanto una infinitesima massa monetaria mondiale sia sotto forma di moneta e banconote, il resto circola attraverso sistemi elettronici.

La Banca Centrale Europea di Mario Draghi, ad esempio, tra dicembre e gennaio ha immesso oltre mille miliardi di euro con prestiti per 3 anni all’1%, nella speranza dichiarata che le banche aiutassero così imprese e famiglie (in realtà le banche stanno reinvestendo questa enorme massa finanziaria in titoli di Stato, i cui rendimenti sono aumentati moltissimo a seguito della crisi del 2011).

Quindi è possibile immettere nel sistema economico tutta la moneta che vogliamo, senza preoccuparci più di nulla, neppure di lavorare?

No, naturalmente.

Il rischio principale sarebbe l’inflazione* o meglio la stagflazione (inflazione con stagnazione della produzione). Nella teoria comune, l’inflazione si ha quando vi è un aumento generalizzato dei prezzi, provocato da un eccesso di moneta circolante non corrispondente ad un pari aumento della produzione.

Cosa dicono a tal riguardo gli economisti della Modern Money Theory?

Gli economisti MMT mettono in dubbio che si crei inflazione attraverso immissioni di moneta della Banca Centrale, sia perché i fattori produttivi (ad esempio il lavoro) sono sotto-impiegati ma anche a seguito del ruolo del sistema creditizio privato che a seguito delle richieste di prestito immette moneta circolante per un valore multiplo rispetto alle riserve valutarie obbligatorie (si legga qui “La crescita monetaria non causa inflazione”, un articolo di John T. Harvey, professore di Economia alla Texas Cristian University, pubblicato su Forbes, dove si ridescrivono in chiave attuale i concetti classici di Moneta, Velocità di circolazione della Moneta, Prezzo e Produzione, in base alla formula M*V=p*Y)

A differenza degli economisti da cui prendono le mosse (Keynes prima di tutto, ovvero l’economista che con le sue ricette permise agli Stati Uniti di uscire dalla Grande Depressione e il cui insegnamento poi fu adoperato da tutti i paesi occidentali dopo il 1945), i post-keynesiani della MMT sostengono che sia opportuno adoperare questo sistema non solo nei momenti di recessione – ovvero quando l’economia è in crisi e si producono meno beni e servizi – ma che questo metodo possa e debba essere utilizzato anche quando l’economia è in fase di moderata espansione, ovvero con il raggiungimento costante del massimo impiego dei fattori produttivi.

Come è possibile immettere moneta senza generare iperinflazione?

Gli MMT sostengono che uno Stato a moneta sovrana (tutti, tranne i paesi dell’eurozona o quelli che scelgono tassi di cambio fissi o non liberamente fluttuanti) può puntare sulla piena occupazione, cioè permettere a tutti coloro che lo vogliano di lavorare e percepire uno stipendio, trovando lavoro nei servizi sociali, culturali, nell’insegnamento, la ricerca, eccetera (anche infrastrutture di vario genere). Si tratta di un percorso di salvataggio, con regole precise ora troppo lunghe da specificare, per coloro che perdono lavoro nel settore privato, e che vengono reimmessi nel settore privato in caso di richieste.

Secondo gli economisti MMT la produzione di beni e servizi derivante dalla piena occupazione riassorbirebbe il surplus monetario immesso per permettere loro di lavorare.**

Sono previste però una serie di importanti strumenti collaterali, che sono la vera chiave rivoluzionaria della MMT rispetto alle convinzioni comunemente accettate.

Se uno Stato a moneta sovrana può immettere teoricamente tutta la moneta che desidera generando questo surplus senza che si abbia iper-inflazione – è probabile che, in assenza di shock esterni, l’inflazione si attesti attorno al 5-6% annuo, un livello comunque non gravoso considerati i benefici di cui prima) per garantire piena occupazione, allora quello stesso Stato non avrà mai problemi ad onorare il pagamento dei servizi propri dello Stato: sanità, giustizia, difesa, ordine pubblico, ad esempio.

Non avrà dunque bisogno di imporre tasse per garantire questi servizi.

Abbiamo trovato dunque un mondo che può vivere senza tasse?

No.

Le tasse, secondo gli economisti MMT, servono per equilibrare il mercato della moneta attraverso un sistema di prelievo equo verso i cittadini: con esse si elimina una parte della moneta circolante nel caso ci sia il rischio di iper-inflazione. Tasse e spesa pubblica quindi non hanno più alcuna relazione con la necessità di garantire i servizi pubblici essenziali (che uno Stato a moneta sovrana potrà sempre garantire perché nulla gli impedisce di spostare il denaro dai propri conti correnti elettronici a quello delle varie amministrazioni), ma invece servono per garantire equità, meritocrazia, solidarietà in un sistema comunque non statico delle politiche monetarie.

Secondo gli economisti MMT le imposte sui consumi come l’Iva andrebbero drasticamente ridotte, quasi azzerate, così come le imposte sul lavoro, proprio per favorire la piena occupazione. Per drenare il denaro in eccesso ed evitare l’inflazione sarebbe il caso di colpire la proprietà immobiliare, perché difficile da evadere e colpisce patrimoni e rendite piuttosto che lavoratori ed imprenditori.

Inoltre la possibilità di emettere quantità di moneta teoricamente infinita per finanziare il settore pubblico non implica la necessità (come avviene ora in maniera drastica nei paesi dell’Eurozona) di chiedere il denaro necessario per queste eventualità ai sottoscrittori privati di titoli pubblici, accettando il tasso di interesse imposto dal mercato.

Questo significa che il mercato dei titoli pubblici non esisterà più in un paese MMT?

No. Significa che il mercato dei titoli pubblici è una misura facoltativa e non obbligatoria.

Significa invece che lo Stato si fa garante di pagare ai risparmiatori i tassi di interesse ritenuti congrui dallo Stato stesso, come remunerazione del capitale dei risparmiatori, e sempre in un’ottica di gestione della moneta circolante al fine di garantire piena occupazione ed evitare iper-inflazione.

Infine uno Stato a moneta sovrana con cambio di valuta libero non potrà mai fallire come l’Argentina (cambio fisso peso-dollaro) e come rischia di accadere alla Grecia e ai paesi dell’Eurozona che in questo momento devono garantire il loro debito pubblico in una moneta straniera perché privi di sovranità monetaria.

Stephanie Kelton, a Rimini, ha citato il solo caso del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando la decisione di non pagare il debito fu presa volontariamente per non sentirsi umiliati nei confronti dei vincitori del conflitto.

Quindi, in poche righe, nel mondo MMT:

– uno Stato a moneta sovrana non può fallire, ovvero può garantire sempre il debito contratto;
– uno Stato a moneta sovrana può raggiungere la piena occupazione;
– uno Stato a moneta sovrana adopera le tasse non per finanziare la propria spesa ma per evitare squilibri sociali e per evitare eccessi inflattivi acuti;

– uno Stato a moneta sovrana non ha necessità di finanziare la propria spesa pubblica ottenendo prestiti ai tassi di interesse stabiliti dai mercati privati.

* Si ha inflazione quando la quantità della moneta in circolazione aumenta più velocemente del valore dei beni e servizi prodotti: se nell’anno 1 abbiamo una quantità di moneta in circolazione di 100 euro e un valore di beni e servizi di 100 euro, e nell’anno 2 il valore di beni e servizi resta stabile a 100 mentre la quantità di moneta sale a 110, si avrà una inflazione del 10% (110-100)/100=10%, perché la moneta ha perso il suo “potere d’acquisto”, e quindi ha “meno valore”. Se invece nell’anno 2 il valore di beni e servizi disponibili è salito a 110, non vi sarà inflazione, perché come nell’anno precedente con 1 euro possiamo comprare 1 unità di prodotto (110:110=100:100) e quindi la moneta ha conservato intatto il suo potere d’acquisto.

**Si consideri l’esempio precedente: se nell’anno 1 la produzione di 100 si è avuta con una disoccupazione pari al 9% (come oggi in Italia), nell’anno 2 le politiche statali decidono di impiegare 10 euro per far lavorare questi disoccupati in settori ritenuti strategici. Il loro stipendio complessivo passerebbe da 0 (anno 1, senza lavoro) a 10 (anno 2, occupati). Se questi soldi fossero spesi per non produrre nulla, allora si rischierebbe di generare inflazione. Ma se invece i lavoratori fossero impiegati in settori come cultura, scuola, ambiente, tutela idro-geologica, sorveglianza, infrastrutture, ricerca, allora vi sarebbe un corrispondente aumento dei beni e servizi prodotti per cui la moneta immessa (10) sarebbe ricompensata e non si genererebbe inflazione, o almeno non oltre livelli considerati giustificabili.

 






 

 

 

 

 

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