Grecia: cronaca di un fallimento annunciato

Grecia: cronaca di un fallimento annunciato

Grecia: cronaca di un fallimento annunciato
Posted: 14 Mar 2017 09:09 PM PDT su Economia e Politica


Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ha rilasciato il rapporto sulla valutazione del programma di accesso eccezionale ai finanziamenti riservato alla Grecia (IMF, 2017a). Il rapporto riconosce apertamente un parziale insuccesso nell’attuazione di un’agenda di riforme troppo ambiziosa, il cui impatto sulla società è stato largamente sottostimato.
1. I principali obiettivi
Nel periodo che va da marzo 2012 a Gennaio 2016, la Grecia ha usufruito di un programma di accesso eccezionale ai finanziamenti. Il programma, attuato attraverso il ricorso straordinario a uno strumento del Fmi (l’extended fund facilty), ha registrato un esborso totale, da parte del Fondo e dei partners europei (Ue e Bce) costituenti la Troika, di 173 miliardi di Euro circa. A inizio programma, si è provveduto inoltre ad un taglio di 106 miliardi di Euro del debito pubblico greco in mano a privati.
Gli obiettivi di politica economica del piano prevedevano una serie di riforme volte ad aumentare la competitività e la crescita della Grecia, garantendo sostenibilità fiscale e stabilità al suo sistema finanziario(1). La competitività del sistema produttivo greco si sarebbe dovuta ottenere attraverso il riallineamento dei salari alla produttività, che avrebbe comportato una diminuzione del costo unitario del lavoro di circa 15 punti percentuali. Il programma di privatizzazioni avrebbe garantito nuovi investimenti e guadagni di produttività, sostenendo crescita e occupazione.
Gli obiettivi di bilancio prevedevano una progressiva riduzione del rapporto tra debito e Pil (fino al raggiungimento del 120% nel 2020) e un incremento di 7 punti percentuali dell’avanzo primario entro il 2015 (fino a raggiungere un avanzo del 4,5%). Il conseguimento di tali obiettivi sarebbe stato ottenuto principalmente attraverso privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e riforma del sistema pensionistico
2. I principali risultati
La ricetta prevista dalla Troika non ha prodotto i risultati previsti. Tra il 2011 e il 2013, il prodotto interno lordo greco ha registrato una diminuzione di circa venti punti percentuali, per crescere in media dello 0,2% nei due anni successivi. Nel 2015, la disoccupazione si è attestata al 25%, mentre il rapporto debito/Pil è intorno al 180%, nonostante, tra il 2011 e il 2015, il debito, in valore assoluto, si sia ridotto del 12,5%. Tutti i principali indicatori macroeconomici relativi all’economia greca mostrano un quadro assai diverso da quello previsto (tabella 1).

Fonte: Fondo Monetario Internazionale (IMF, 2017a). L’ asterisco indica valori attesi.
Gli errori commessi dalla Troika nella formulazione del programma sono diversi ma due risultano fondamentali: 1) aver effettuato previsioni troppo ottimistiche sulla sostenibilità del debito pubblico; 2) aver dato un eccessivo peso alla svalutazione reale come fattore in grado di assicurare la competitività dell’economia.
Secondo lo stesso Fmi, la dinamica del rapporto debito/Pil risulta oggi su un sentiero insostenibile, in cui la mancata crescita economica non consente di drenare le risorse necessarie a garantire la solvibilità del debito. La svalutazione reale, basata sul contenimento del costo del lavoro, non ha fatto aumentare le esportazioni come previsto: appare legittimo chiedersi quali sarebbero le esportazioni della Grecia in grado di sostenere la crescita. Errori cui si aggiungono quelli nella stima dei “moltiplicatori fiscali”, che hanno portato a sottovalutare l’impatto recessivo delle politiche economiche attuate.
3. L’autocritica del Fmi
La politica fiscale fortemente restrittiva, le riforme del mercato lavoro e la situazione debitoria hanno imposto un pesante fardello alla popolazione greca, tale da spingere il Fondo a suggerire l’adozione di misure volte ad alleviare la povertà. È lo stesso Fondo a riconoscere come l’aggiustamento macroeconomico abbia avuto un eccessivo costo sociale sui percettori di salari, facendo aumentare disoccupazione e povertà. A ciò, si aggiunge il richiamo verso i partners della Troika a procedere ad un programma di ristrutturazione del debito. Pur riconoscendo i progressi fatti dalla Grecia, il Fmi “incoraggia le autorità ad accelerare l’attuazione delle riforme strutturali per rafforzare la competitività” (IMF, 2017b). L’incoraggiamento è rivolto principalmente al completamento del piano di privatizzazioni, che, allo stato attuale, risulta essere già il più grande mai attuato nella storia.
Appare evidente come l’autocritica del Fondo non si sia spinta fino a mettere in discussione il merito delle politiche economiche attuate. Pur considerandone i costi sociali, e ammettendo alcuni errori, come quello di non aver provveduto a un più consistente taglio del debito all’inizio del programma, il Fondo non fa retromarcia sulla sostanza delle ricette da seguire: il punto critico appare la sproporzione tra obiettivi prefissati e capacità della classe politica greca di farli propri.
In conclusione, la responsabilità del fallimento viene scaricata principalmente sui governi greci succedutisi in questi anni, ma viene anche ammesso che le probabilità di successo sarebbero state maggiori se non ci si fosse basati su previsioni macroeconomiche troppo ottimistiche.
4. Quanti altri errori?
Il ricorso alla pubblica ammenda, seppur parziale, non rappresenta una novità né per il Fondo Monetario, né per altre istituzioni economiche. Appare evidente, non solo ad analisti economici avveduti, come gli indicatori prospettici inclusi in molti dei reports del Fmi, cosi come di altre istituzioni economiche, siano spesso inaffidabili e irrealistici. Ci si chiede quale sia la causa di tali errori sistematici e perché istituzioni come il Fmi si basino su modelli le cui previsioni, essendo estremamente sensibili al cambiamento di ipotesi alla base, siano soggette a un enorme margine di incertezza (Wyplosz, 2017). Vi è, poi, la questione riguardante il merito delle riforme, frutto dell’impostazione dottrinale liberista, i cui effetti pro-ciclici sono stati riscontrati più volte nel corso della storia. L’insistenza su politiche rivolte esclusivamente al lato dell’offerta, il diktat universale secondo il quale “bisogna competere globalmente” prescindendo dalla realtà produttivo-industriale di un paese, appare come l’ennesimo esempio di superficialità, se non di autistico affidamento a teorie sganciate dai contesti reali. É vero che la stabilità politica è un fattore importante nel perseguimento di obiettivi di lungo periodo, ma può rappresentare anche un alibi per il loro mancato raggiungimento. Basilari principi macroeconomici, se non il buon senso, avrebbero suggerito che, con un debito pubblico elevato, il ricorso a politiche fiscali fortemente restrittive avrebbe alimentato ulteriormente il rapporto debito/Pil, fino a raggiungere un livello insostenibile per l’economia greca.
* Docente a contratto di Economia Politica, Università “Magna Graecia” di Catanzaro
Riferimenti
IMF (2017a), Greece: Ex-Post Evaluation of Exceptional Access Under the 2012 Extended Arrangement, IMF Staff Country Reports, February.
IMF (2017b), IMF Executive Board Concludes 2016 Article IV Consultation, and Discusses Ex Post Evaluation of Greece’s 2012 Extended Fund Facility, Press Release n. 17/38.
Wyplosz C. (2017), When the IMF evaluates the IMF, Voxeu, 17 February, http://voxeu.org/article/when-imf-evaluates-imf.
(1) Dubbi sui programmi di aggiustamento strutturale erano stati espressi da più parti. Si veda, per esempio, P. Pini, La Grecia si salverà? E l’Europa è riformabile? Economia e Politica, vol. 7 (10).

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La favola della disoccupazione “naturale” e la lezione della storia

La favola della disoccupazione “naturale” e la lezione della storia

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L’epoca attuale è segnata dalla crescita delle disuguaglianze e dei divari economici. La crisi economica in corso, ormai quasi decennale, sta ampliando le divergenze, non solo all’interno dell’Italia ma anche fra l’economia italiana nel suo complesso e i centri forti dell’economia europea, capeggiati dalla Germania. Questo processo è testimoniato dall’inarrestabile desertificazione industriale del nostro Paese, già evidente da diversi anni e in buona parte figlia della furia privatizzatrice dell’ultimo ventennio[1]. Anche i dati sull’occupazione ci parlano di un’Europa a due velocità. Tra il 2008 e il 2013 gli occupati in Germania sono cresciuti di quasi un milione e mezzo, mentre l’Italia ne ha persi quasi un milione. Nello stesso arco di tempo la disoccupazione è cresciuta fortemente in tutta Europa, con la sola eccezione della Germania, dove è persino diminuita[2]. Questa dinamica chiama in causa l’attuale assetto economico dell’Unione europea, le cui basi istituzionali – a cominciare dal Trattato di Maastricht – confliggono apertamente con quanto stabilito dalla Costituzione italiana in materia di diritto al lavoro e intervento pubblico in economia, impedendo una politica per la diminuzione della disoccupazione e il rilancio dell’economia italiana.
Il quadro politico dentro cui ci muoviamo, in Italia e in Unione europea, non contempla più l’idea che si possa sconfiggere radicalmente il male della disoccupazione. Sembra ormai chiaro, d’altra parte, che il pieno impiego è stato solo un obiettivo novecentesco, nato inizialmente in occasione della mobilitazione generale sperimentata durante la prima guerra mondiale e affermatosi successivamente come conseguenza della sfida posta al sistema capitalistico dall’economia pianificata dell’Unione sovietica. Nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale il perseguimento della piena occupazione nelle società «libere», come aveva presagito l’economista liberale William H. Beveridge, richiese l’introduzione di buone dosi di programmazione anche nelle economie di mercato, nonché il superamento del vecchio tabù del pareggio di bilancio, alla luce della lezione teorica di John Maynard Keynes, convinto che la disoccupazione involontaria dipenda essenzialmente dalla carenza di domanda all’interno del sistema economico[3].
Oggi la disoccupazione è tornata a essere un elemento normale, funzionale agli stessi equilibri del sistema economico capitalistico. La presenza di lavoratori disoccupati contribuisce a tenere bassi i salari, esercitando al contempo un effetto di disciplinamento sulla forza lavoro. Non deve quindi stupire il fatto che di tanto in tanto faccia capolino la vecchia idea ottocentesca secondo cui la disoccupazione può derivare dall’oziosità dei singoli. E non è un caso se il concetto di «disoccupazione naturale», riconducibile alle idee dell’economista monetarista Milton Friedman, è oggi pienamente accolto fra le categorie che guidano l’azione governativa. Opponendosi alle idee keynesiane in voga durante la cosiddetta «età dell’oro» (1945-1975), Friedman sostenne che il «tasso naturale di disoccupazione» è quel livello di disoccupazione «strutturale» ritenuto coerente con la stabilità dei prezzi. In inglese tale concetto ha assunto nel tempo il nome di Non accelerating inflation rate of unemployment (Nairu), ed è ormai da molto tempo parte integrante della teoria economica prevalente[4]. Come si diceva, questo dispositivo analitico ha ricadute concrete sulle politiche economiche: sin dal 2002 la Commissione europea diffonde una stima del Nairu che viene ripresa e rielaborata anche nei documenti programmatici del governo italiano[5]. È interessante notare che il livello del Nairu è stato sempre più alto negli ultimi anni, seguendo da vicino l’andamento del tasso di disoccupazione, quasi a volere legittimare a posteriori i crescenti squilibri nel mercato del lavoro.
Come ha implicitamente indicato, tra gli altri, l’economista Thomas Piketty[6], la crisi economica globale iniziata nel 2007 ha tra le sue cause profonde la crescita delle disuguaglianze economiche e il fallimento delle politiche neoliberiste dell’ultimo trentennio. Di fronte a questa evidenza, non vi è stata un’inversione di rotta nelle politiche economiche. Le vecchie ricette, anzi, sono state rilanciate, con l’effetto di una crescita senza precedenti della disoccupazione e di un’ulteriore riduzione della dinamica salariale. Le politiche economiche affermatesi in Italia e in Unione europea negli ultimi anni sembrano approdate a una sorta di «coesistenza pacifica» con gli attuali livelli di disoccupazione, considerati come ineliminabili a meno di ulteriori deregolamentazioni del mercato del lavoro (le famose «riforme»). Come prescritto dalle teorie economiche monetariste e neoclassiche, infatti, se la disoccupazione non cala lo si deve alle rigidità del mercato, fra cui rientrano le eccessive tutele, la scarsa mobilità del lavoro e i salari troppo alti. Idee vecchie, risalenti per lo meno agli anni Cinquanta, ma che vengono propinate come la quintessenza del nuovo «riformismo».
In realtà, come rivelano i dati dell’Ocse e come ammette la gran parte dei sociologi che si occupano del mercato del lavoro, «le norme giuridiche o contrattuali a tutela dell’occupazione hanno effetti scarsi o nulli sul livello generale della disoccupazione»[7]. Sono altri i fattori che determinano la dinamica dell’occupazione, fra cui soprattutto gli investimenti in tecnologia e formazione: in Germania, ad esempio, pur in presenza di una tutela dell’occupazione più «rigida» che in Italia, i livelli di disoccupazione sono più bassi e quasi uguali per i giovani e per gli adulti, grazie a un modello produttivo più innovativo e a un sistema educativo più orientato all’istruzione professionale dei giovani. Sebbene tutti i riscontri empirici dimostrino dunque che non vi è un legame fra flessibilità normativa e occupazione, in Italia gli interventi di politica del lavoro degli ultimi anni hanno proseguito il cammino della deregolamentazione iniziato negli anni Ottanta, favorendo la frammentazione del mondo del lavoro e il contenimento dei livelli salariali. Il Jobs act varato dal governo Renzi non è che l’ultima tappa di questo percorso. Composto da vari provvedimenti (le leggi 78 e 183 del 2014 e i successivi decreti attuativi), il Jobs act ha previsto fra le altre cose sia una maggiore libertà nell’uso del contratto di lavoro a tempo determinato, sia un ulteriore depotenziamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’ampliamento degli ammortizzatori sociali per i lavoratori atipici stabilito dal provvedimento renziano, peraltro, è ben lungi dal configurare un sistema di protezione sociale contro la disoccupazione di tipo universalistico.
Il dramma della disoccupazione di massa si unisce oggi da un lato a una crescita dei fenomeni di povertà, anche fra chi lavora, dall’altro a un più ampio senso di precarietà del lavoro. Oggi la deregolamentazione normativa e la frammentazione del lavoro rendono a volte più difficile distinguere chiaramente l’occupato dal disoccupato, riproponendo per alcuni versi la fragile condizione del lavoro salariato della prima metà del Novecento. L’idea diffusa che negli ultimi anni sia aumentata la precarietà occupazionale trova un chiaro riscontro nei dati statistici. Va chiarito che la precarietà, come condizione di insicurezza e incertezza del lavoro, può coinvolgere anche i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato. Secondo i dati dell’Inps e dei Centri per l’impiego, il 30-40% dei contratti di lavoro «stabili», specialmente nelle piccole imprese, non dura più di un anno. La disoccupazione, sia pure di breve durata, è quindi un’esperienza molto diffusa anche tra i lavoratori a tempo indeterminato. La precarietà occupazionale colpisce a maggior ragione i lavoratori inquadrati con contratti temporanei o «atipici». Dalla fine degli anni Ottanta a oggi il peso dei lavoratori a tempo determinato è cresciuto in tutta Europa, ma in Italia più che altrove. Nel 2008, a crisi già iniziata, in rapporto al totale degli occupati la percentuale dei lavoratori instabili (i lavoratori a tempo determinato più tutta la galassia dei lavoratori parasubordinati) in Italia ha raggiunto il 16%, un valore al di sopra della media europea. Da allora a oggi il volume dell’occupazione instabile è rimasto pressoché stazionario, ma i pochi nuovi posti di lavoro che si sono creati sono stati in misura crescente lavori precari (nel 2012, fra i nuovi occupati, il 55% risultava in una posizione instabile). Oggi la probabilità di svolgere un lavoro precario è più alta per i giovani e i giovani adulti[8].
Come può insegnare la storia del movimento operaio, affinché muti lo stato di cose presente è determinante la ricostruzione di un’organizzazione dei lavoratori e di un soggetto politico in grado di imporre il tema della disoccupazione all’ordine del giorno, proponendo validi strumenti di contrasto, a cominciare dal rilancio degli investimenti e dalla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Se ciò non accadrà, le attuali politiche restrittive dominanti nell’eurozona non permetteranno mutamenti significativi del quadro occupazionale. In futuro la persistenza o meno della disoccupazione dipenderà quindi dalle scelte politiche che prevarranno, non meno che dalle dinamiche economiche e dalle sorti stesse della società capitalistica.

*Università degli Studi Roma Tre. Autore di Senza lavoro. La disoccupazione in Italia dall’Unità a oggi, Laterza 2016.
 
[1] Cfr. L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino, Einaudi 2003.
[2] Istat, Rapporto annuale 2014. La situazione del Paese, Roma, Istat 2014, p. 92.
[3] W. H. Beveridge, Relazione su l’impiego integrale del lavoro in una società libera (1944), Torino, Einaudi 1948; J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), Torino, Utet 2005.
[4] Il concetto venne formulato per la prima volta in M. Friedman, The role of monetary policy, «The american economic review», LVIII, 1, march 1968, pp. 1-17.
[5] European Commission, The Production Function Methodology for Calculating Potential Growth Rates & Output Gaps, Economic Papers 535, November 2014.
[6] T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo (2013), Milano, Bompiani 2014.
[7] E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, I. Il mercato del lavoro tra famiglia e welfare (2005), Bologna, il Mulino 2011, p. 137.
[8] I dati, elaborati nell’ambito dell’indagine Istat sulle forze di lavoro, sono tratti da E. Reyneri, F. Pintaldi, Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi, Bologna, il Mulino 2013.

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L’aporia del debito pubblico: Keynesiani vs Classici

L’aporia del debito pubblico: Keynesiani vs Classici
Posted: 10 Sep 2015 10:48 PM PDT   su Economia e Potica.it

L’intera architettura dell’Unione Europea poggia le sue basi sull’apodittico assunto che il debito pubblico rappresenti un vincolo insostenibile per la crescita di lungo periodo, nonché un grave ostacolo a una corretta e completa integrazione economica fra i Paesi. Si tratta chiaramente di un modello di stampo ortodosso, che dimentica l’essenza stessa del capitalismo, ossia la possibilità/opportunità di prendere denaro a prestito e di contrarre debiti/crediti.
Da qui l’idea che lo Stato sia assimilabile al buon pater familias e che il consolidamento delle finanze pubbliche rappresenti l’unico viatico possibile per rilanciare consumi e investimenti. Un paradigma antitetico a quello proposto da Keynes (1936), che vedeva nella spesa di matrice statale uno strumento di perequazione e di composizione dei fallimenti privati, nonché una leva fondamentale per azionare una crescita sostenibile e bilanciata.
Secondo l’approccio classico mainstream, dato che la crisi sarebbe da ascriversi principalmente a un eccesso sistematico di spesa pubblica, che avrebbe favorito in sequenza, prima l’accumulazione e poi l’implosione dei debiti pubblici, sarebbe necessario – per riattivare il sistema – tagliare drasticamente la spesa di matrice nazionale (Reinhart e Rogoff 2013).
Tuttavia, il rapporto di causazione non sembra reggere alla prova dei fatti, né a quella empirica. Innanzitutto, come dichiarato apertamente dallo stesso vicepresidente della commissione UE, Victor Constâncio (2012), il debito pubblico è semmai l’effetto, non la causa della crisi.
Alla base del collasso, vi sarebbe, invece, l’accumulazione di ingenti debiti privati e pubblici verso l’estero determinati da un disavanzo strutturale della bilancia dei pagamenti delle economie più deboli (Arcand et al. 2012; Cesaratto 2013). In seconda istanza, autorevoli studi dimostrano chiaramente come non esista alcuna soglia fissa del rapporto debito pubblico/Pil capace di trascinare l’economia in una crisi sistemica (Manasse e Roubini 2005). Si tratta di fatto tutto sommato stilizzato è che paradossalmente trova implicito riscontro anche nelle analisi provenienti dagli esponenti più autorevoli dell’ortodossia economica. Ci riferiamo al pluri-citato studio “Growth in a Time of Debt” di Reinhart e Rogoff (2010), pubblicato sulla prestigiosa American Economic Review. Secondo i due economisti di Harvard, quando il debito supera la soglia critica del 90% la crescita tende a rallentare progressivamente, fino a diventare, in alcuni casi, negativa. Pur specificando l’inesistenza di alcun rapporto causale fra le due variabili, lo studio ha suscitato un notevole clamore sia a livello accademico che politico, finendo in molti casi col giustificare l’adozione di politiche fiscali fortemente restrittive. Tuttavia, come spesso accade, le cose stanno diversamente. Lo dimostra un’accurata rivisitazione operata da un gruppo di economisti dell’Università di Amhrest; un loro recente paper ha messo in luce l’esistenza di manipolazioni, grossolani errori di calcolo e problemi di coerenza metodologica che, una volta rimossi, permettono di escludere recisamente la significatività del debito stesso nel determinare e influenzare la crescita economica (Ash et all 2013).
Quest’ultima asserzione può essere verificata empiricamente attraverso un semplice modello statistico. In particolare, poniamo in relazione diretta il rapporto debito/Pil rilevato all’alba della crisi e la variazione % del Pil reale occorsa nel periodo 2007-2014, per un campione di 173 economie nazionali (tutti i dati disponibili). Il coefficiente di correlazione lineare di Pearson, pur se negativo, risulta molto marginale; quindi, le variabili considerate sono ortogonali. Il livello del debito pre-crisi non ha in alcun modo inciso sulla dinamica registrata dal reddito aggregato nel periodo immediatamente successivo. A titolo di mero esempio citiamo il caso del Qatar e del Giappone; difatti, il piccolo emirato del golfo Persico ha fatto registrare un incremento del rapporto debito/Pil superiore al 100% a fronte di un livello iniziale inferiore ai 10 punti percentuali, mentre il Giappone, nonostante uno stock iniziale del 180% ha fatto segnare solo un marginale aumento dell’1,21% del rapporto debito/Pil.
 
Grafico 1.  Scatterplot fra il debito pubblico del 2007 e l’incremento/decremento del Pil reale nel periodo 2007-2014.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI [1]
 
Ma non solo, disaggregando i dati, possiamo ottenere altre utili informazioni circa la validità delle assunzioni mainstream. A tal fine, ripartiamo i paesi esaminati in 4 grandi cluster, ciascuno corrispondente a uno specifico intervallo del rapporto debito/Pil. Per maggiore chiarezza, disponiamo tali intervalli secondo un ordine strettamente crescente e costante, che ci permetta di apprezzarne appieno la meccanica. L’obiettivo è quello di pervenire a gruppi omogenei all’interno e il più possibile eterogenei all’esterno.  Ebbene, considerato anche l’effetto ‘distorsivo’ della crisi economica e la precarietà di una siffatta analisi, non rileviamo alcuna significativa differenza nei saggi medi di crescita associati ai diversi intervalli. Difatti, fino ad un livello del debito del 60% la crescita tende a crescere in media, per poi contrarsi lievemente e stabilizzarsi anche per quozienti debito/Pil molto grandi. Possiamo quindi escludere recisamente che elevati livelli del debito pubblico possano avere un significativo effetto depressivo sulla crescita economica.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI.
 
Alle medesime conclusioni si perviene anche se si analizza il rapporto intercorrente fra il quoziente debito/Pil del 2007 e la sua variazione % netta nel periodo 2007-2014. Infatti, secondo la vulgata un debito particolarmente consistente dovrebbe porre seri vincoli alla sua sostenibilità e successiva solvibilità, col corollario di esacerbarne l’evoluzione successiva. Quindi, a livelli del debito più elevati, dovrebbero corrispondere incrementi più considerevoli.
Tuttavia, contrariamente a tali sussunzioni, le due variabili non sono legate da alcun rapporto statisticamente significativo. Anzi, esse presentano persino una limitata discordanza; al crescere dell’una, l’altra decresce in media. In definitiva, il livello del debito pre-crisi non sembra avere alcuna funzione predittiva del suo successivo sentiero dinamico.
 
Grafico 3. Scatterplot fra il debito pubblico del 2007 e il suo incremento/decremento nel periodo 2007-2014.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI [2]
 
Non si tratta affatto di un caso. Difatti, già nel 1994 l’economista russo Evsey Domar – autorevole esponente della scuola post-keynesiana – chiariva che la crescita del debito pubblico è tutto sommato un falso problema; ciò che ne determina la sostenibilità nel lungo periodo è la crescita del reddito aggregato e quindi, i fattori che concorrono a dissipare gli ostacoli che si frappongono a essa.
 

[1] Il coefficiente di correlazione di Pearson risulta equivalente a -0,1086; quindi, le due variabili sono debolmente correlate. La retta di regressione mostra che ogni incremento unitario percentuale del rapporto debito/Pil nel 2007 è associato a una diminuzione dello 0,0779% del saggio di crescita del Pil reale nel periodo 2007-2014. Infine, il coefficiente di determinazione risulta estremamente basso; il modello consente di spiegare solo l’1,18% della variabilità dei tassi di crescita.
[2] Il coefficiente di correlazione di Pearson risulta equivalente a -0,3703; quindi, le due variabili presentano una correlazione inversa di medio-bassa intensità. La retta di regressione mostra che ogni incremento unitario percentuale del rapporto debito/Pil nel 2007 è associato a una diminuzione dello 0,30% del saggio di crescita del medesimo rapporto debito/Pil nel periodo 2007-2014. Infine, il coefficiente di determinazione risulta pari a 0,1371; il modello consente di spiegare solo il 13,71% della variabilità dei tassi di crescita.
 
Bibliografia
Arcand J. L., Berkes E. and Panizza U. (2012), “Too much finance?”, International Monetary Fund, Working Papers, n. 161.
Ash M., Herndon T. and Pollin R. (2014), “Does high public debt consistently stifle economic growth? A critique of Reinhart and Rogoff”, Cambridge Journal of Economics, 38(2): 257-279.
Cesaratto S. (2013), “Controversial and novel features of the Eurozone crisis asa balance of payment crisis”, in Post-Keynesian Views of the Crisis and its Remedies, Routledge Critical Studies in Finance and Stability.
Constancio V. (2013), The European Crisis and the role of the financial system, Speech at the Bank of Greece conference on “The crisis in the euro area”, Athen,23 May.
Domar E. (1944), The “Burden of Debt” and the National Income, American EconomicReview, 34, 798-827.
Keynes J. M. (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money, Palgrave Macmillan, London.
Manasse P. and Roubini N. (2005), “Rules of thumb” for sovereign debt crises, Journal of International Economics, 78(2); 192-205.
Reinhart C. and Rogoff K. S. (2010), “Growth in a Time of Debt”, American Economic Review, 100(2), 573-578.
Reinhart C. and Rogoff K. S. (2013), Financial and Sovereign Debt Crises: Some Lessons Learned and Those Forgotten (No. 13/266), International Monetary Fund.

 

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Lezione a Monti da Hollande e il socialismo di Bersani

 

Quante volte è capitato, andando nello studio di uno specialista, di sentirsi dire: ” Oggi non è in studio, si trova a un corso di aggiornamento tecnico”.

Ci domandiamo allora perché i tecnici  non eletti che stanno al governo dell’Italia, mai vanno a fare aggiornamenti tecnici. Le riunioni al Bilderberg Club, Commissione Europea, BCE e quant’altro, in realtà servono solo a prendere le consegne. Come bravi camerieri. Difatti con le loro teste, non riescono a cavare nulla. Solo a peggiorare le cose, volutamente, per spingere gli Stati  all’accettazione di regole che danno un potere faraonico ai soliti noti economisti.

Il fallimento della politica economica neo-liberista, tanto cara ai bocconiani, è sotto gli occhi di tutti. Le alternative sono molte, e certamente più adeguate a quell” eccesso di democrazia ” tanto vituperato dal liberismo montiano. E la lezione viene proprio da una delle nazioni più forti dell’area euro: la Francia di “Flanby”. Budino è il nomignolo o soprannome di Hollande.  Le sue ricette? Purtroppo sono chiamate di ” sinistra”. Ma se servono alla crescita, sono proprio quelle che non riescono a fare i tecnici come Monti, Passra, Fornero  & C. ! Anzi, sono  l’opposto delle ricette imposte da Bruxelles ai paesi completamente sotto tutela (la Grecia) o agli altri dell’area mediterranea in grave difficoltà, sia che abbiano un governo politico (la Spagna) sia che abbiano un governo tecnico (l’Italia).

Assunzione di insegnanti e finanziamenti alla scuola che erano stato tagliati da Sarkozy: cioé aumento della spesa pubblica per far ripartire l’economia.

Incentivi per gli acquisti di auto elettriche o ibride per affrontare la crisi del settore e scongiurare licenziamenti (Peugeot Citroen ha annunciato un maxitaglio di 8.000 posti di lavoro): cioé l’occupazione va difesa ad ogni costo.

Aumento sull’imposta patrimoniale: cioé, se si devono mettere a posto i conti (uno dei cardini del suo programma) deve pagare chi se lo può permettere, i ricchi.

Ma stranamente la reazione di Bruxelles non è stata furiosa, come ci si aspettava, dato che in questo Hollande sta operando all’opposto dei dettami imposti a stati come Grecia, Spagna e Italia stessa.

Eppure anche le casse francesi lamentano un debito pubblico oltre l’ 80 per cento del pil, un deficit verso il 5 per cento, la crescita zero e il Paese ha perso nei mesi scorsi la Tripla A. Invece l’inversione di rotta rispetto al rigore della Merkel del fiscal compact è stato premiato. Spread poco sopra i cento punti (un quinto del nostro) e in discesa: il che significa mercati soddisfatti.

Questa opposizione di Hollande agli schemi neoliberisti di Monti & Cricca, si sta rivelando vincente. Qualcuno potrà obiettare che le ripercussioni siano solo nel breve termine. D’accordo. Intanto il paese non è tassato e tartassato e sta resistendo. Nel lungo termine, quali sono le previsioni ? Il mantenimento dello status di soddisfazione dei ” mercati” tanto cari a Monti e seguaci bocconiani liberisti.

Il Modern Money Theory, che di moderno ha solo il nome, è basato proprio sulla soddisfazione momentanea dei mercati. E’ basata sulla crescita insieme al rigore. Ma il rigore equamente diviso. Chi più ha più paga. Ma in Italia i ricchi non devono piangere. Parola di Monti. E col sostegno del PD. Ma non è Bersani, quel socialista che ha sostenuto Hollande durante la sua campagna elettorale?

Possibile che non riesca a indicare a Monti la via, non dico del socialismo di Holland, ma almeno la strada per la democrazia.  ” L’eccesso di democrazia ”  decantato in tutte le sue forme negli scritti montiani, era una attualità, ma solo per i liberisti, nei primi anni 50. Può darsi che, per loro, lo sia ancora. Ma oggi noi  lo chiamiamo nazismo, fascismo, dittatura. E cosa sta cercando fare Monti se non questo. Basta guardare ai faraonici poteri che si sono dati imponendo il trattato ESM.

A Monti potrebbe essere dato il merito di avere ridato all’Italia una facciata migliore. Rispetto alla burlesque del passato governo. Ma come fanno tutti i tecnici, non potrebbe Monti e & C., partecipare a un corso di formazione professionale sui nuovi sistemi politico economici ? Nuovi si fa per dire. Perchè Bersani sa benissimo che se si vuole un poco di socialismo, prima si deve passare dalla democrazia.

Non basta solo battere le mani dietro un palco. Si devono condividere gli ideali e metterne in pratica gli insegnamenti.

Rox

 





 

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