COMUNICATO UFFICIALE DELLA FIMA Federazione Italiana Movimenti Agricoli

COMUNICATO UFFICIALE

DELLA FIMA 

Federazione Italiana Movimenti Agricoli

 

FIMA

La XIII Commissione agricoltura della Camera, presieduta dall’ On. Paolo Cova, ha ascoltato l’ 8 ottobre in audizione la Fima, Federazione Italiana Movimenti Agricoli, su Pac e  problematiche del grano duro.

Alla presenza di numerosi deputati, è intervenuto il coordinatore nazionale Fima Saverio De Bonis che ha illustrato il parere della Federazione sulla nuova Pac e si è soffermato sugli annosi problemi del grano duro italiano, consegnando due documenti alla Commissione.

“Gli agricoltori – dichiara il coordinatore Fima – vogliono una Pac che premi chi produce e vive di sola agricoltura. Per questo, adesso che l’ Italia deve declinare adeguatamente la riforma in ambito nazionale e le risorse si sono assottigliate, occorre mirare gli aiuti per recuperare la forte perdita di reddito subita dagli agricoltori italiani rispetto ai colleghi europei che ha costretto alla chiusura migliaia di aziende agricole”.

“A tal proposito – aggiunge – sarà decisivo il modo in cui verrà definita la figura dell’ agricoltore attivo e la velocità di erogazione degli aiuti affinché la nuova riforma ci avvicini all’ Europa e non ci separi”.

Sulla vicenda del grano, “per contrastare l’ ennesima speculazione in atto – evidenzia De Bonis – è tempo di attuare il divieto di vendita sottocosto delle materie prime agricole previsto dall’ art 62. La norma c’è ma non si applica”. Inoltre – sottolinea – i regolamenti delle attuali borse merci sono datate di un secolo ed in contrasto con la normativa europea antitrust. Affinché i mercati possano funzionare meglio occorre prima di tutto garantire una buona informazione, la trasparenza e la neutralità dei commissari, attraverso una commissione unica nazionale. E’ pertanto necessario – aggiunge – rivedere l’ intero sistema delle Borse merci nazionali, sempre più maschere di meccanismi di cartello a danno dei produttori e consumatori. Servono, però, regole cogenti di funzionamento emanate dallo Stato, per evitare che le lobby le annacquino, come già accade in altre filiere”.

“Le regioni del Sud – fa notare – una volta erano il granaio dell’ Europa con in testa la Sicilia, Puglia e Basilicata. Oggi, prezzi di vendita al ribasso e svalutati rispetto a venti anni fa, costi di produzione in progressivo aumento, mercati poco trasparenti, oppressione fiscale e stretta creditizia, scarsa tutela sindacale e assenza di controlli sui prodotti alimentari, definiscono un quadro molto grave della situazione agricola del Paese e, in particolare, della cerealicoltura del mezzogiorno. Solo in queste regioni in dieci anni hanno chiuso 224 mila aziende, di cui nessuno parla”.

“Per avere un’ idea della perdita del nostro potere d’ acquisto – spiega De Bonis – all’epoca con 80 qli di grano si poteva comprare un piccolo trattore, oggi si possono comprare solo i pneumatici! I fornai, al contrario, da un quintale di grano duro che costa 25 euro ottengono un quintale di pane da cui ricavano almeno 250 euro al sud! Un valore aggiunto che si decuplica in maniera spropositata grazie agli egoismi della filiera. Basterebbe dividere in tre parti tale valore (1/3 a chi produce la materia prima, 1/3 a chi la trasforma e 1/3 a chi la distribuisce) e agli agricoltori arriverebbero 80 euro a quintale. La filiera così raggiungerebbe velocemente il riequilibrio dei redditi”.

In una piccola regione come la Basilicata, al terzo posto come produttore di grano duro, negli ultimi dieci anni si è quasi dimezzato il numero delle aziende agricole (erano 81.922 nel 2000, sono calate a 51.756 nel 2010 (-26,8%) e si è ridotta la superficie (la Sau è passata da 537.695 ettari nel 2000 a 519.127 ettari nel 2010 (-3,4%).

In Puglia e in Sicilia sono invece aumentate le superfici (Puglia: 1.247.577 ettari nel 2000 e 1.285.289 nel 2010 (+2,9%); Sicilia: 1.279.706 nel 2000 e 1.387.520 nel 2010 (+7,7%), ma sono diminuite le aziende (in Puglia erano 336.694 nel 2000, sono calate a 271.754 nel 2010 (-19,2%); in Sicilia erano 349.036 nel 2000, sono calate a 219.677 nel 2010 (-37%).

“Questo tsunami – evidenzia il coordinatore – che ha distrutto migliaia di aziende e posti di lavoro, in assenza di una politica agricola efficace, si è verificato in regioni che dispongono di un giacimento d’ oro per il Paese rappresentato da un grano che oltre ad essere buono è anche salubre. In alcune regioni, dove è scarsamente valorizzato, potrebbe valere più del petrolio! Con una differenza: il petrolio inquina, il grano buono disintossica!”

Già, perché la battaglia del grano è una battaglia per la vita? Una battaglia che non si vince salvaguardando solo l’uso delle sementi certificate o sospendendo le quotazioni. “Il raccolto 2013 pur proveniente da sementi certificate – dichiara – ha subito un repentino calo delle quotazioni già alla raccolta, mentre oggi addirittura siamo quasi al crollo: 24 euro in Puglia e Basilicata e 22 euro in Sicilia, a fronte di un costo di produzione superiore a 30 euro! Gli agricoltori temono perciò una nuova bolla.“

Questa battaglia, al contrario, si vince con l’ informazione. A distanza di molti mesi dalla raccolta 2013, la produzione italiana di grano duro è, infatti, misteriosa. Secondo l’ultima rilevazione Istat la produzione italiana nel 2013 sarebbe diminuita appena di 1.1270.000 qli, mentre addirittura la superficie a duro è aumentata quasi dell’ 1% grazie a quasi centomila ettari in più del meridione!

Un risultato del tutto differente dai dati divulgati da un noto settimanale specializzato qualche settimana fa che riportava un netto calo di superfici e produzioni di grano duro in Italia 2012 vs 2013 (-17% superfici pari a -220.000 ettari, -11% produzione pari a circa -458.000 t).

“La confusione e l’incertezza – sottolinea De Bonis – sono il terreno ideale per la speculazione. E’ corretto imputare un calo di produzione nel meridione che invece non c’è stato, a fronte di un aumento di 2,7 milioni di quintali? E non evidenziare il calo che si stà registrando nel Centro-Nord per circa 3,9 milioni di quintali? Questo fenomeno occultato potrebbe forse dipendere dalla salubrità del grano ovvero dalla presenza di micotossine e dalla crescente consapevolezza dei consumatori? “

Il dubbio è che qualcuno potrebbe avere interesse a far si che la disponibilità teorica di grano duro buono al Sud appaia ridotta, per giustificare le importazioni, mentre i dati dimostrano che la produzione di qualità cresce e sottrae quote di mercato alla produzione più scadente sotto il profilo sanitario.

E se si è prodotto molto grano duro di qualità in Italia nel 2013 perché ne stiamo importando a manetta dall’estero? Solo una indagine approfondita dell’ antitrust e dell’ antifrode può contrastare la BOLLA SPECULATIVA IN ATTO. Non dimentichiamo che gli industriali sono già stati ‘multati’ una volta dall’ antitrust per aver fatto cartello sui prezzi della pasta!

“In realtà – evidenzia De Bonis – potremmo essere di fronte ad un uso strategico della leva import-export per controllare i prezzi sul mercato nazionale del grano buono attraverso l’ importazione di quello cattivo. L’ alibi è quella della globalizzazione secondo cui l’ Europa può diventare pattumiera delle materie prime che all’ estero non sono commestibili nemmeno per gli animali”.

L’ arrivo in Europa di materie prime di pessima qualità, danneggia la salute pubblica, la bilancia commerciale e avvantaggia solo i profitti dell’ industria di trasformazione, che continua ad affermare strumentalmente che: (i) il grano italiano è insufficiente a soddisfare i nostri fabbisogni e  manca la capacità di stoccaggio, nonostante le misure del Piano cerealicolo nazionale; (ii) il grano straniero è migliore perché è un grano di forza (più proteico) che gli agricoltori italiani non riescono a produrre per garantire la tenuta di cottura; (iii) il made in Italy stà nella ricetta e nello stile italiano con cui si fanno le cose!

“I fatti dimostrano il contrario – dichiara il coordinatore Fima – da un lato, gli agricoltori sono scoraggiati a produrre per via di comportamenti illeciti che rendono antieconomica la coltivazione, ragion per cui ci sono tantissimi silos vuoti. Basta solo censirli. Dall’ altro, hanno dimostrato che è possibile produrre pasta con grano locale. Ci sono tanti piccoli pastifici che lavorano solo semole locali e, peraltro, i consumatori stanno imparando a capire se nel pane vi sono micotossine: basta conservare una fetta di pane per quindici giorni e osservare se si formano muffe”.

E allora quali politiche adottare? L’ Italia ha spazio per recuperare 685 mila ettari che abbiamo perso in sette anni ed essere autosufficiente in quantità, qualità e salubrità!

Occorre inoltre intendersi sul significato di made in Italy e stile italiano con cui si fanno le cose, aldilà degli schermi legali e lobbistici. “E’ prioritario il know-how – evidenzia De Bonis – che genera profitto per pochi o la salute pubblica e il bilancio dello Stato a vantaggio di tutti? E la presenza dell’ uomo sul territorio non appartiene forse al costume italiano? Il vero made in Italy non è forse rispetto verso la nostra storia e cultura millenaria della pasta fatta con grani locali sin dagli Etruschi, dai Greci e dai Romani? Non è forse vero che nella “valle dei mulini” in Sicilia, all’ inizio del secondo millennio, si fabbricava una pasta, con grani siciliani, che veniva spedita in tutta l’ area del mediterraneo? O piuttosto appartiene allo stile italiano fare cartello e continuare ad adottare pubblicità ingannevoli a danno dei consumatori italiani, senza aver rispetto nemmeno per la salute dei bambini? Dobbiamo privilegiare la tecnologia che ha esasperato la raffinazione delle semole o  tornare alle farine di una volta più integrali?”

La pasta è un simbolo del made in Italy e della dieta mediterranea, un pilastro della nostra alimentazione. “Tuttavia – conclude il coordinatore Fima – se nel mondo un piatto di pasta su quattro è italiano, possibile che ai consumatori italiani non debba essere consentito di poter scegliere, attraverso un marchio, una pasta fatta con il grano di qualità del proprio territorio obbligando in etichetta l’indicazione di origine della materia prima? Perché spacciare per italiana, una pasta la cui materia prima viene dall’ Arizona, dall’ Ontario o dalle Montagne Rocciose o dal territorio francese dei Galli e Celti? Chiunque è libero d’importare, ma quantomeno si vieti di utilizzare i trulli, il tricolore o le donne in abiti tipici con spighe di grano o altre immagini che evocano nella mente dei consumatori la provenienza della materia prima dall’ Italia.”

Per difendere il made in Italy e lo stile italiano autentico che è fatto di valori, la Fima ha consegnato una proposta di legge alla Commissione agricoltura della Camera dei Deputati dal titolo: “Disposizioni per lo sviluppo di grano duro a zero micotossine e di pasta ad alta salubrità prodotta in Italia” con cui si chiede la riduzione dei limiti di micotossine a livello nazionale e l’ adozione di traccianti atossici a livello nazionale e internazionale per le partite di grano che andrebbero destinate ad usi diversi da quello alimentare“.

Paolo Rubino
Ufficio Stampa Fima

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Gioco d’Azzardo. Interrogazione Parlamentare M5S

Gioco d’Azzardo. Interrogazione Parlamentare M5S

slot

La deputata Maria Edera Spadoni e la senatrice Elisa Bulgarelli del M5S hanno iniziato con una domanda:

“Quali azioni intende mettere in campo il governo italiano per recuperare subito i 98 miliardi di euro evasi dalle slot machines?”.

Le due relatrici, che si rendevano conto della totale indifferenza dei rappresentanti del governo, hanno osato andare avanti nella loro richiesta.

“A fronte di un costo sociale così elevato ed esorbitante e delle sempre più numerose patologie dovute al gioco d’azzardo, il governo non ritiene opportuno vietare su tutto il territorio nazionale la diffusione e la distribuzione degli apparecchi di slot machines, videolottery e i giochi d’azzardo on-line?”.

Accorgendosi che non c’era nessuno disponibile all’ascolto fisico, l’interpellanza è stata presentata ufficialmente sotto forma scritta, firmata da 61 parlamentari. In tal modo, viene rubricato come atto parlamentare formale. Tale domanda-interpellanza impone al governo una immediata risposta, sia da parte del ministro degli interni che da parte del ministro del Tesoro e del primo ministro attualmente in carica, il dimissionario prof. Mario Monti, il quale è in carica “solo per gestire gli affari correnti”. Appunto. Questi 61 parlamentari hanno specificato che, in questo caso, si tratta, per l’appunto di “un affare corrente”: urge trovare i 100 miliardi di euro per consentire alla Pubblica Amministrazione di saldare in toto al 100% i debiti che hanno contratto con i fornitori, in modo tale da consentire alle aziende in crisi di credito di poter riavviare un percorso virtuoso dell’economia.

Nel documento dell’interrogazione parlamentare si spiega come

“nel 2011, il mercato italiano del gioco d’ azzardo ha raccolto, al netto dei premi erogati, 18,4 miliardi di euro, pari al 4,4% del mercato mondiale e oltre il 15% di quello europeo. Secondo il Conagga (Coordinamento Nazionale Gruppi per Giocatori d’ Azzardo), a fronte di una netta riduzione dei risparmi delle famiglie e della spesa per alimenti a causa della crisi economica, nel 2011 la spesa sul gioco d’azzardo e’ cresciuta del 30% rispetto al 2010. Secondo una rielaborazione dei dati AAMS del 2012, la spesa annua pro capite sul gioco d’azzardo e’ di 1703 euro e per il CNR, il gioco d’ azzardo coinvolge il 58,1% dei maschi tra i 15 e i 19 anni e il 36,8% delle ragazze“.

I firmatari della interrogazione parlamentare hanno spiegato come “di fronte ad un aumento della spesa sul gioco d’azzardo, le entrate per l’erario hanno visto una riduzione di circa il 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e secondo le indagini della Guardia di Finanza, ammonta ad oltre 98 miliardi di euro l’evasione fiscale di alcune societa’ concessionarie di slot machines, dei quali solo una minima parte e’ stata ad oggi recuperata”. Un caso questo, nato dalle inchieste del colonnello Rapetto, che aveva denunciato con forza gia’ dal 2007 lo stato delle cose e che fu rilanciato pubblicamente nel V day ‘Parlamento Pulito’ del 2007 da parte di Beppe Grillo“.

Il documento prosegue nella disamina del problema e conclude nel seguente modo:

“Chi vede nel gioco d’azzardo diffuso e liberalizzato un fattore economico positivo per il Paese si sbaglia di grosso dato che il rapporto 2011 della Corte dei Conti dice e spiega che il consumo dei giochi interessa prevalentemente le fasce sociali piu’ deboli’ e, secondo Conagga, gioca di piu’ chi ha una minore scolarizzazione. Secondo una stima della stessa associazione che tiene conto dei costi sanitari, dei costi indiretti e dei costi per la qualita’ della vita” (sono sempre la Spadoni e la Bulgarelli a spiegarlo) “i costi sociali complessivi causati in Italia dai giocatori d ‘azzardo patologici sono stimabili tra i 5,5 e i 6,6 miliardi di euro, andando percio’ ad assorbire gran parte delle risorse incassate dall’erario. I soldi che le famiglie spendono nei giochi vengono tolti dai consumi, provocando un danno indiretto per le casse dello Stato dovuto alla ‘mancata’ Iva incassata, quantificabile, secondo Conagga, in 3,8 miliardi di euro ogni anno. Gli apparecchi, quali slot machines e videolottery, raccolgono il 54% del fatturato complessivo e, grazie alle loro caratteristiche quali minore lasso di tempo fra una partita e l’ altra, l’assenza di relazioni umane, la spazialita’ e temporalita’ diffusa e gli stimoli visivi e sonori, risultano essere i maggiori responsabili d’ instaurarsi di dipendenze“.

Chiudono l’interrogazione parlamentare chiedendo “formalmente e ufficialmente” al governo in carica di provvedere immediatamente a far valere l’applicazione della Legge per fare in modo che l’erario si riappropri dei 98 miliardi di euro che sono stati fin qui evasi dai gestori delle slot machines. Tra i firmatari di tale documento vi sono i seguenti eletti, alla Camera: Spadoni, Dell’Orco, Ferraresi, Sarti, Di Stefano, Bernini, Dell’Osso, Mucci, Colletti, Cominardi, Giordano, Tacciono, Grande, Di Battista, Sibilia, Scagliusi; e al Senato della Repubblica: Bulgarelli, Mussini, Montevecchi, Gambaro, Taverna, Scibona, Cioffi, Martelli, Puglia e altri.

Il gruppo di parlamentari vuole a tutti i costi che il governo intervenga subito per far valere lo Stato di Diritto pretendendo ed esigendo l’immediato pagamento dei 98 miliardi dovuti all’erario (per lo più ascrivibili alla famiglia mafiosa messinese dei Corallo, proprietari della società madre Atlantis, con sede in Florida, Usa, e le sue 12 sotto-società operanti nel territorio della Repubblica Italiana) pensando che in tal modo si troverebbero subito i soldi per pagare le aziende italiane creditrici sull’orlo del fallimento.

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