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Disparità e disuguaglianze in una Italia povera






Disparità e disuguaglianze in una Italia povera
Una delle cose più sottovalutate in Italia è probabilmente la disparità sociale, con ciò che le ruota attorno; col passare degli anni, abbiamo assistito a un accrescersi delle diseguaglianze, con tutto ciò che ne consegue. Ma appunto: cosa ne consegue?
Sono proprio le conseguenze a essere sottovalutate, con pericolosi rischi per la stabilità sociale.
Innanzitutto va detto che mai le diseguaglianze sono state così ampie, e sono andate acuendosi a partire dalle riforme liberiste degli anni Settanta, che si sono mischiate alla scoperta dei primi limiti fisici, ovvero ambientali, della crescita “materiale”. Non solo era finito il modello di crescita keynesiano, ma il modello di sviluppo del boom industriale si stava avviando verso una saturazione del mercato dei beni durevoli e a uno scenario di scarsità di risorse, ovvero di aumento dei prezzi delle materie prime.
Questo ha conseguenze non secondarie: mentre prima le teorie neoliberiste del “dare i soldi ai ricchi affinché possano spendere”, seppur smentite agevolmente dalla teoria macroeconomia keynesiana, potevano apparentemente funzionare all’interno di un trend di crescita continua, veloce e inarrestabile, il rallentamento dell’economia le ha esposte a tutti i loro limiti.
Mentre il potere d’acquisto dei salariati diminuiva, la rendita del capitale (il profitto) aumentava a dismisura, portando all’incremento delle diseguaglianze. Mentre prima la “classe media” rincorreva rapidamente i “ricchi”, riducendo il distacco mentre tutti diventavano più ricchi, si è passati a una classe di “super-ricchi” che aumenta sempre di più il distacco dal resto della società, mentre le fasce basse della società non solo non stanno al passo coi ricchi e super-ricchi, ma retrocedono: i salari calano, la disoccupazione aumenta e il potere d’acquisto cala.
La situazione è evidementemente grave: mentre una parte della popolazione diventa sempre più povera, e la spesa pubblica necessaria all’assicurazione di standard minimi di dignità e vita cresce ancora di più, un’altra parte accumula sempre più reddito e ricchezza.
Accumulo che avviene per motivi naturali: ottenuta una posizione, questa vuole essere conservata, e dal momento che il reddito appare incerto, l’unico modo per sentirsi “sicuri” è mettere da parte un patrimonio tante, tante volte maggiore del reddito stesso. E questo è un patrimonio improduttivo: se fosse investito, ci sarebbe il rischio di perderlo. Ma questo sottrae inevitabilmente ricchezza al resto della società, che paga in diversi modi:
- Nella tendenza a incrementare il profitto, calano i salari, ovvero il potere d’acquisto. Le famiglie diventano sempre più povere, ma spesso in modo graduale, il che produce una distorsione nell’analisi della situazione. La capacità di risparmiare si annulla.
- Le famiglie continuano a fare quello che facevano prima, ovvero a indebitarsi per acquistare beni particolarmente costosi; anzi, dal momento che non riescono più a risparmiare, ricorrono sempre più spesso a mutui o acquisti a rate.
- I “capitalisti”, intesi come gli investitori di capitale, ragionando sul profitto immediato e personale, investono dove il costo del lavoro è minore per aumentare i profitti. In questo modo, però, fanno tracollare il potere d’acquisto nel paese natio, senza crearne altrettanto nei paesi dove delocalizzano. Così, nel medio periodo, le loro aziende perdono profitti in quanto nessuno nel paese d’origine può permettersi di acquistare i prodotti che prima vendevano.
- Quando il potere d’acquisto è tracollato, senza che nessuno ne abbia tenuto conto, i consumi crollano. Inizia una crisi come quella odierna. Crisi di minore entità si sono verificate per tutti anni ’90 e nei primi anni nel nuovo secolo, ma su scala nazionale, tutte sopratutto come crollo delle Borse e bolle edilizie: si era continuato a speculare e costruire senza tener conto che le famiglie non sarebbero più state in grado di acquistare.
Una crisi in cui in un primo momento a pagare sono soprattutto coloro che non hanno delocalizzato, e quindi “nostri” salariati e imprenditori, ma che a seguire causano un collasso anche del mercato da esportazione estero: pensiamo alla Cina, che non riesce più a vendere molte merci perché noi europei non riusciamo più ad acquistarle.
Non dimentichiamo poi altri prodotti della povertà: cresce la spesa pubblica perché cresce l’uso dei beni pubblici a discapito di quelli privati e gli ammortizzatori sociali necessitano di nuovi fondi;diminuiscono le entrate perché il crollo dei redditi, dei consumi e della produzione causa un crollo del gettito fiscale. Si reagisce spendendo in deficit, senza ricordarsi di riportare il bilancio in attivo nei periodi di crescita (in questo i Paesi scandinavi sono stati molto accorti), oppure con l’austerity, tagliando la spesa e aumentando le entrate, generando nuova povertà.
Proprio qui è la questione sociale: un travolgimento, uno scivolamento verso il basso di buona parte della società, che a causa della ricerca di enormi profitti porta molti a perdere sia il lavoro che i profitti, e pochi ad accumulare ricchezze esagerate.
Anche per questo bisogna distinguere “crescita” da “sviluppo”: mentre quest’ultimo è un reale progresso della società, la prima indica semplicemente un incremento di alcuni dati macroeconomici. Un paese può crescere senza che la sua popolazione diventi più ricca, se tutta la nuova ricchezza viene fagocitata da pochi ricchi sempre più ricchi.
Si rischia una frattura sociale, un ritorno a una situazione di poveri poverissi e ricchi ricchissimi, come la Francia del ‘700, dove c’era la società aristocratica e quella “popolana” che non avevano nulla da condividere. Ancor più grave, si rischia che questa frattura sia male interpretata, e che diventi uno scontro generazionale: il nuovo contro il vecchio, anziché gli impoveriti contro gli accumulatori.
Forse è proprio questo il paradosso della questione sociale e la vera vittoria del liberismo: oggi, i giovani chiedono principalmente lo smantellamento dei privilegi dei “vecchi”, e non di ciò che ha creato questa disparità di trattamento.







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