Il falso mito della Germania. Divergenze in Europa: questione di prezzi o di quantità?

Il falso mito della Germania.

germany-illusion

Interessante analisi da EconomiaePolitica.it:

Guido Iodice
Posted: 24 Jul 2015 03:58 AM PDT

Thomas Fazi
Posted: 24 Jul 2015 02:55 AM PDT

Divergenze in Europa: questione di prezzi o di quantità?

Come è noto, tra l’entrata in vigore dell’euro e il 2008, all’interno della zona euro si sono determinati degli squilibri di partite correnti senza precedenti, che sono esplosi in coincidenza con lo scoppio della crisi finanziaria: in quegli anni alcuni paesi (Germania in primis) hanno accumulato degli enormi surplus con l’estero, mentre altri (i paesi della periferia) hanno accumulato dei deficit altrettanto grandi. Anzi, gli uni erano praticamente lo specchio degli altri.
Ovviamente la specularità dei due trend non è una coincidenza: l’avanzo commerciale della Germania nei confronti del resto dell’UE è quasi triplicato in quel periodo, e buona parte di quell’incremento è stato assorbito dai paesi del Mediterraneo. La vulgata del dopo crisi ha addossato la colpa di questi squilibri tutta sui paesi in deficit, rei di aver fatto lievitare troppo gli stipendi dei propri lavoratori – o, come spesso si sente dire, di aver “vissuto al di sopra delle loro possibilità” –, perdendo competitività nei confronti della Germania, che invece avrebbe seguito una politica lodevole e “responsabile” di compressione dei salari, guadagnando competitività nei confronti delle “cicale” della periferia. A prima vista sembrerebbe una lettura corretta degli eventi: nella prima decade dell’euro, salari nominali e costi unitari del lavoro sono effettivamente cresciuti notevolmente di più nei paesi della periferia (e in Francia) che in Germania. Ma un’analisi più attenta rivela un quadro dei “colpevoli” e delle “responsabilità” molto diverso da quello che siamo soliti sentire. In primo luogo, prima di addossare la colpa ai lavoratori, di qualunque nazionalità, è opportuno ricordare che la quota salari sul PIL è in calo da trent’anni, ed è continuata generalmente a calare in quasi tutti i paesi europei anche dopo l’introduzione dell’euro, garantendo alle imprese europee una fetta crescente del reddito prodotto (e una maggiore “competitività”).
Detto questo, nel valutare i meriti e le responsabilità dei singoli paesi, occorre guardare a chi si è comportato bene e chi no relativamente agli altri. Se prendiamo per un attimo il punto di vista dei prezzi relativi – che, come vedremo, è un punto di vista limitato – in un sistema di cambi fissi l’ideale sarebbe che il costo unitario del lavoro e il tasso di inflazione dei vari paesi tendano a convergere, prevenendo le divergenze di competitività; data la stretta correlazione tra costo unitario del lavoro e tasso inflazionistico, la maniera più semplice per favorire tale convergenza è far sì che in tutti i paesi membri il costo unitario del lavoro aumenti di pari passo con il tasso di produttività nazionale sommato all’obiettivo inflazionistico che si sono date le autorità monetarie dei paesi o dell’unione in questione, che nel caso dell’eurozona è del 2 per cento, come è noto. In altre parole, per evitare l’insorgere di divergenze in termini di competitività (e dunque di squilibri nelle bilance dei pagamenti), è importante che nei vari paesi i salari non crescano troppo – ma neanche troppo poco – rispetto all’obiettivo inflazionistico prefissato. Da questo punto di vista, è senz’altro vero che i paesi della periferia sono “andati lunghi”, nel senso che in questi paesi la crescita dei salari nominali è stata superiore alla crescita del tasso di produttività sommato all’obiettivo inflazionistico del 2 per cento – e dunque hanno vissuto per certi versi “al di sopra delle loro possibilità” –, ma è altrettanto vero che la Germania è “andata corta”, e di molto, tenendo i propri salari nominali nettamente al di sotto dell’obiettivo inflazionistico, mancando il target del 2 per cento e discostandosi dalla media europea in misura molto più significativa dei paesi della periferia.
In altre parole, chi non si è comportato bene, adottando una politica di “svalutazione interna” – o beggar- thy-neighbour (‘affama il tuo vicino’) – nei confronti degli altri paesi dell’eurozona, attraverso la compressione dei salari, è proprio la Germania. Quanto i leader politici tedeschi fossero coscienti di questo – e quanto questo esito sia stato il risultato di una strategia intenzionale – non ci è dato sapere.
Come abbiamo detto, però, il punto di vista dei prezzi e dei costi non dice molto di per sé. Le divergenze del costo del lavoro e dell’inflazione, infatti, non sono abbastanza grandi da spiegare l’indebitamento delle periferie dell’eurozona. Il fattore più importante, quello trascurato dalla maggior parte degli economisti, è che la compressione salariale tedesca ha costituito un freno ai consumi – la cui crescita si è quasi appiattita dai primi anni Duemila – e quindi alle importazioni dai paesi periferici, mentre dall’altro lato ha creato vaste eccedenze produttive, assorbite dai paesi meridionali soprattutto grazie al credito concesso dai paesi centrali dell’eurozona. Anche in base a questa considerazione, cioè alla prevalenza dei fattori legati alla domanda su quelli legati ai prezzi quale spiegazione degli squilibri interni all’eurozona, sarebbe illusorio pensare che l’uscita dall’euro e la svalutazione delle monete dei paesi meridionali siano un’opzione risolutiva, anche qualora fosse praticabile, visto peraltro che la Germania ha ancora ampi margini per comprimere i salari e la domanda interna e spiazzare l’effetto competitivo della svalutazione del cambio da parte dei paesi che dovessero tornare alle monete nazionali. L’errore che commettono i cosiddetti “no-euro” è quello di ragionare quasi esclusivamente in termini di prezzi invece che di quantità. Questo errore li porta a non comprendere, tra l’altro, come mai le svalutazioni degli ultimi anni non hanno sortito gli effetti sperati sulla bilancia commerciale di paesi anche diversissimi tra loro, dal Giappone alla Gran Bretagna [1].
Come è noto, il contenimento dei salari in Germania è in parte il risultato della celebre riforma del mercato del lavoro (detta “Hartz”) introdotta dal cancelliere social-democratico Gerhard Schröder nel 2003-05, a cui, secondo la narrazione ufficiale del “miracolo tedesco”, andrebbe il merito di aver ridotto la disoccupazione e di aver reso l’economia tedesca più “produttiva” ed “efficiente”. Trattasi però di una narrazione che ha poco a che vedere con la realtà. Lo sostiene Marcel Fratzscher, presidente di uno dei principali istituti di ricerca economica tedeschi, in un libro intitolato Die Deutschland-Illusion. Tanto per cominciare, dice Fratzscher, bisogna sfatare il mito della Germania come “locomotiva d’Europa”: a ben vedere, dal 2000 a oggi il tasso di crescita del paese è stato un misero 1,1 per cento, ponendo la Germania al tredicesimo posto tra i 19 membri dell’eurozona. È anche da notare, poi, come sia del tutto infondato il mito secondo cui i tedeschi sono più competitivi perché “lavorano di più”, così come è falso un maggiore aumento della produttività in Germania rispetto alla periferia dall’introduzione dell’euro a oggi: la crescita della produttività in Germania è stata appena superiore a quella registrata in Spagna ma nettamente inferiore a quella di Portogallo, Irlanda o Grecia. La riforma Hartz, poi, ha sì diminuito la disoccupazione ma lo ha fatto allargando enormemente il bacino dei lavoratori precari, part-time e sottopagati (alla riforma va il merito di aver introdotto i cosiddetti mini-job e midi-job), col risultato che il monte ore totale è rimasto praticamente invariato. A causa della riforma, sono anche aumentati drammaticamente i livelli di povertà nel paese, che nel 2013 hanno toccato un nuovo record storico: il 16,1 per cento della popolazione totale, il 69 per cento dei disoccupati, il 35,2 per cento dei genitori single e il 5,7 per cento dei bambini.
La “disciplina” imposta ai lavoratori tedeschi dalla riforma è uno dei fattori che ha permesso alle imprese del paese – col beneplacito dei sindacati – di “congelare” di fatto i salari reali, riducendo in maniera significativa la quota salari sul PIL (a vantaggio soprattutto delle industrie esportatrici del paese, che hanno visto aumentare i loro profitti) e comprimendo pesantemente la domanda interna, permettendo così al paese di ottenere un notevole vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi europei.
In definitiva, è innegabile che la politica tedesca di compressione dei salari sia uno dei fattori alla base degli squilibri sviluppatisi in Europa in seguito all’introduzione dell’euro. Allo stesso tempo, ricondurre questi squilibri unicamente a una questione di competitività di costo (e in particolare di costo del lavoro) sarebbe riduttivo. È evidente che la competitività della Germania dipende anche da un insieme di altri fattori che potremmo definire qualitativi: la dimensione delle sue imprese, l’alto livello tecnologico della sua produzione, la rete infrastrutturale del paese, la difesa della propria industria dell’export, anche per mezzo di politiche industriali attive, ecc. In questo senso, da un punto di vista di competitività internazionale, i paesi periferici dell’eurozona presentavano dei ritardi strutturali riconducibili a fattori estranei al costo ben prima dell’introduzione della moneta unica. E tuttavia è altrettanto innegabile che la politica economica tedesca non sia stata “coordinata” con l’intera eurozona, come auspicano gli stessi trattati.
C’è poi un altro fattore centrale da tenere in considerazione: ossia che il boom delle esportazioni tedesche è stato reso possibile dal fatto che gli altri paesi del continente non hanno seguito la stessa politica salariale, ma hanno invece mantenuto un livello di domanda tale da poter assorbire le esportazioni tedesche (accumulando dunque un disavanzo commerciale). Questo è perfettamente normale: il surplus di certi paesi corrisponde naturalmente al deficit di altri. La competitività, in altre parole, è un concetto relativo: dipende anche dalla (relativa) prodigalità altrui. Ma c’è di più: se è vero che l’alto livello della domanda in alcuni di questi paesi era in parte il risultato di bolle speculative (soprattutto nel settore immobiliare) – il risultato di una naturale tendenza all’eccesso dei paesi periferici, da espiare per mezzo dell’austerità, secondo la lettura moralistica che i tedeschi danno della crisi –, è altrettanto vero che il settore finanziario tedesco (insieme a quello francese) ha attivamente contributo alla creazione di queste bolle.
Se da un lato i paesi che registrano un deficit della bilancia dei pagamenti – ossia che spendono più di quanto producono – devono necessariamente ricorrere a capitali esteri per finanziare i propri deficit, dall’altro i paesi che registrano un surplus – ossia che consumano e investono meno di quanto producono – non possono che accumulare attività finanziarie nei confronti dei paesi importatori, finanziando così la possibilità di quei paesi di spendere più di quanto producono e di acquistare la produzione eccedente del loro finanziatore. Questo è tanto più vero all’interno di un’unione monetaria con un alto livello di scambi interni e un cambio fisso che elimina il rischio di cambio. E infatti, tra il 2000 e il 2007, le banche dei paesi core, soprattutto Francia e Germania, hanno accumulato un’enorme esposizione nei confronti delle banche dei paesi della periferia – e nel caso della Grecia anche nei confronti del governo –, permettendo così ai consumatori di questi paesi di continuare a importare prodotti tedeschi. E dividendo progressivamente il continente in paesi creditori e paesi debitori. È quello che gli americani chiamano vendor financing: ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto.
Questo è un punto importante, perché evidenza un concetto di cui spesso ci si dimentica: ossia che per ogni paese (banca, individuo) che si indebita troppo, ce n’è sempre un altro che presta troppo; creditori e debitori, insomma, condividono le stesse responsabilità. Sarebbe a dire che surplus e deficit (crediti e debiti) sono sempre due facce della stessa medaglia; senza gli uni non potrebbero esistere gli altri (e vice versa). O, detto ancora più chiaramente, che “colpa” può avere un paese debitore se qualcuno gli presta denaro a buon mercato? Cosa dovrebbe fare, rifiutare l’ingresso dei capitali esteri? Sarebbe una richiesta assurda se provenisse proprio da quanti propendono per la massima libertà dei movimenti di capitali!
L’esito di questo enorme afflusso di capitale nei paesi della periferia era inevitabile; come scrive Michael Pettis, professore di finanza all’università di Pechino: «La storia dimostra che afflussi di capitale di queste entità sono sempre accompagnati da bolle speculative e crisi finanziarie»[2]. Così come era inevitabile che questi afflussi di capitale peggiorassero la bilancia dei pagamenti dei paesi della periferia, a vantaggio della bilancia commerciale tedesca, soprattutto se consideriamo che queste dinamiche centro-periferia tendono ad essere auto-rinforzanti: maggiori i surplus del paese esportatore, maggiori i capitali che quel paese avrà da “riciclare” nei paesi in deficit, che continueranno quindi ad acquistare sempre più prodotti dal paese in surplus, e così via, in una spirale molto difficile da spezzare in assenza di un intervento politico o di uno shock esterno (come la crisi finanziaria del 2008, appunto).
Da questo si evince quanto sia fallace l’idea che il “modello tedesco” possa rappresentare un esempio per l’eurozona o per l’Europa nel suo complesso. Eppure uno degli scopi delle misure di austerità imposte ai paesi della periferia in questi anni – che non hanno agito solo sul fronte della domanda pubblica per mezzo di tagli alla spesa statale ma anche sul fronte della domanda privata per mezzo di politiche di flessibilizzazione del lavoro e compressione dei salari reali – è stato proprio quello di imporre a tutta l’Unione, e in particolare all’eurozona, un modello strettamente neomercantilista in cui la crescita è trainata in primo luogo dalle esportazioni (sulla base, appunto, del modello tedesco).
[1] Questa rivista ho sviluppato un ampio dibattito sul tema dell’uscita dall’euro, a cominciare da uno studio di Realfonzo e Viscione sugli effetti che essa comporterebbe alla luce delle esperienze recenti di abbandoni di accordi di cambio seguiti da ampie svalutazioni (ndr).
[2] Michael Pettis, “Syriza and the French Indemnity of 1871-73”, Carnegie Endowment for International Peace, 4 febbraio 2015.

Facebooktwitterlinkedininstagramflickrfoursquaremailby feather

Spagna, Irlanda, Portogallo: I falsi trionfi del rigore ci portano verso nuovi disastri

Spagna, Irlanda, Portogallo: I falsi trionfi del

rigore ci portano verso nuovi disastri

di Mario Seminerio | 18 luglio 2013 Articolo originale da Il Fatto Quotidiano

auster

Mentre l’intera Eurozona è in messianica attesa delle elezioni politiche tedesche del prossimo 22 settembre, lo stato dell’arte del cosiddetto risanamento dei conti pubblici procede sempre più incerto, con tentativi di aggiustamenti marginali che non fanno che rinviare il giorno del giudizio, mentre nei singoli Paesi crescono gli ostacoli di natura costituzionale ai tentativi di incidere in profondità e retroattivamente sulle voci di spesa relative a pensioni e licenziabilità dei pubblici dipendenti. Il denominatore comune è l’assenza di un “modello di successo” nella gestione della crisi, malgrado la propaganda della Commissione europea si sforzi di affermare il contrario.

Non era difficile immaginare un simile esito, da subito: questo accade, quando 17 paesi, fortemente interdipendenti, stringono la politica fiscale in contemporanea, e i loro sistemi creditizi vengono destabilizzati da deflussi di quegli stessi capitali globali che li avevano beneficiati per anni, al punto da indurre una sorta di nirvana in cui i fondamentali macroeconomici finivano col perdere rilevanza agli occhi degli investitori rispetto all’oceano di liquidità che occulta ogni problema.

Il mito assurdo dell’Irlanda
Il primo allievo prediletto della leggenda del risanamento a mezzo di austerità è stata l’Irlanda. Il paese era stato duramente colpito dallo scoppio della bolla immobiliare e il successivo salvataggio pubblico del sistema bancario attraverso la nazionalizzazione aveva fatto esplodere deficit e debito. Dopo venne una durissima austerità, fatta di aumenti di imposte e tagli di spesa pubblica e pensioni. Il Paese oppose una strenua resistenza al tentativo francese e tedesco di imporre un aumento dell’aliquota imposta sulle società (soltanto il 12,5 per cento) che rappresenta un magnete per attirare le sedi di imprese da tutto il mondo, che spesso (come nel caso di Apple) riescono ad avere un carico d’imposta anche sensibilmente inferiore alle aliquote ufficiali. Oggi, l’Irlanda ha un tasso di disoccupazione ancora molto alto, intorno al 14 per cento, peraltro frutto di un calo nel tasso di partecipazione alla forza lavoro e di emigrazione. Il deficit resta pesante, il debito è al 120 per cento del prodotto interno lordo (Pil), che è la grandezza su cui si calcola il salvataggio sovranazionale, ma balza al 145 per cento del prodotto nazionale lordo (Pnl), che non considera i profitti delle multinazionali. Il Pil indica un boom dell’export che il Pnl semplicemente non rileva, mentre Dublino attende ancora con fiducia che il fondo Salva Stati europeo Esm si prenda in carico parte del debito causato dai salvataggi bancari.

Portogallo, l’allievo prediletto
Dopo l’Irlanda, il Portogallo era l’allievo prediletto dell’ideologia del virtuosismo fiscale. Il Paese si è trovato da subito in grave affanno fiscale, ma la vulgata del risanamento a mezzo di prevalenti tagli di spesa ha resistito a lungo. Quei tagli, tuttavia, nascondevano una realtà ben più problematica: una soppressione violenta della spesa pubblica in conto capitale, che di solito è quella che può essere più agevolmente incisa rispetto a quella corrente. Abbattere gli investimenti pubblici può essere considerato una iattura o un beneficio, a seconda che tali investimenti siano la base per la crescita di lungo periodo o voragini di spreco. La riduzione della spesa corrente portoghese è stata invece fatta soprattutto con il mancato pagamento delle mensilità aggiuntive, estiva e natalizia, a dipendenti e pensionati pubblici. La Corte Costituzionale portoghese si è messa di traverso e il governo di centrodestra è stato costretto a trovare nuove coperture, individuate a inizio 2013 in folli aumenti di pressione fiscale, con un delirante aumento di circa il 30 per cento dell’aliquota media effettiva dell’imposta personale sui redditi, frutto di addizionali a pioggia su tutti gli scaglioni d’imposta. Nel frattempo, la gravità della crisi ha causato un crollo delle entrate, inizialmente compensato con la nazionalizzazione di alcuni grandi fondi pensione.

In simili circostanze si tende a ignorare che la spesa pubblica tende a espandersi spontaneamente per l’operare degli stabilizzatori automatici, cioè sussidi di disoccupazione e altri trasferimenti di welfare. Questo è un altro punto critico della gestione della crisi del debito dell’Eurozona. Sotto la fretta tedesca di “risanare”, il “suggerimento”, mai tuttavia elevato a precetto ufficiale per la sua impopolarità, è stato quello di sopprimere o ridimensionare gli stabilizzatori automatici: tagliare i sussidi di disoccupazione per tagliare la spesa pubblica. Ma una simile manovra, in Paesi che hanno un drammatico buco di domanda e gravissima stretta creditizia, significa porre le basi per continua a negoziare rinvii del percorso verso il pareggio di bilancio. L’ultima missione del Fondo monetario internazionale a Lisbona, a metà giugno, ha evidenziato una inarrestabile ascesa del rapporto debito-Pil, che quest’anno dovrebbe arrivare al 134 per cento: se il costo del debito pubblico eccede la crescita nominale del Pil, il rapporto debito-Pil si autoalimenta e distrugge l’economia. Il Portogallo, nei giorni scorsi, ha visto il rendimento richiesto dal mercato sui propri titoli di Stato decennali salire all’astronomico livello dell’8 per cento.

Per un paese il cui Pil è atteso contrarsi quest’anno del 2,5 per cento, il disastro è nell’ordine delle cose, ma questo è anche il problema di Spagna e Italia, che sono in condizioni più o meno simili, anche se noi abbiamo il vantaggio di un avanzo primario, non è chiaro per quanto tempo sostenibile. Anche questa è un’altra costante del processo di “risanamento” dei conti pubblici che sta mettendo una corda intorno al collo di alcuni Paesi. Come potrà il Portogallo rientrare sui mercati, a metà del prossimo anno, come previsto dal piano di salvataggio della Troika? Non potrà. Motivo per cui servirà una ristrutturazione degli aiuti ufficiali, come già fatto per la Grecia, con allungamento delle scadenze e riduzione del tasso d’interesse. Tuttavia, poiché i conti continueranno a non tornare, al paese verrà richiesto di moltiplicare gli sforzi di dismissione del patrimonio pubblico, come accaduto per la Grecia. Anche qui, poiché ha poco senso privatizzare in un paese il cui contesto economico è fortemente deteriorato e in cui il credito manca, avremo un buco di entrate rispetto alle previsioni, motivo per cui la ristrutturazione degli aiuti ufficiali, dovendo rispettare il vincolo dell’importo originariamente erogato, richiederà anche la ristrutturazione del debito pubblico portoghese, cioè un default. Ma questo metterà le banche locali a rischio di insolvenza, visto che sono piene di titoli di Stato del proprio paese.

La Spagna si è avvitata
Il drammatico processo di avvitamento verso il dissesto è ancora più chiaro nel caso spagnolo: a fine marzo, il rapporto debito-Pil del paese era all’88,2 per cento. Nel 2007, prima della crisi, era intorno al 36 per cento. Un aumento di oltre 600 miliardi di euro, frutto del crollo del gettito d’imposta, delle spese per stabilizzatori automatici e degli aiuti al settore bancario in crisi, inclusi i 40 miliardi ricevuti dall’Europa e che peseranno sul debito sovrano. Negli ultimi sei mesi il debito è cresciuto di 106 miliardi di euro. Anche qui è all’opera la regola infernale: nel 2012 il Pil nominale spagnolo è diminuito dell’1,3 per cento, mentre il costo medio all’emissione dei titoli di Stato decennali è stato del 5,5 per cento e il deficit primario del 4 per cento. Nel 2013 il Pil nominale è atteso crescere di un esile 0,2 per cento, e nel 2014-2016 del 2,5 per cento. Troppo poco, se nel frattempo il costo medio del debito non registrerà un crollo al momento improbabile.

In questi mesi si è affermata una leggenda metropolitana secondo la quale la Spagna starebbe registrando un vero miracolo delle esportazioni, grazie alla riduzione del costo del lavoro, e questo sarebbe l’inizio della riscossa del paese. Le cose non stanno così, purtroppo: con una domanda interna prostrata e un sistema creditizio occluso, l’export da solo non permetterà alla Spagna di riprendere a crescere in modo tale da rendere sostenibile il proprio debito. Questa considerazione vale anche per quanti, in Italia, sono convinti che l’export da solo possa toglierci dai guai.

L’illusione dell’export
Nessun recupero di competitività può contrastare una simile degenerazione dei rapporti di debito, soprattutto considerando che il miglioramento dei saldi delle partite correnti, per i Paesi europei in sofferenza, è avvenuto soprattutto attraverso la distruzione della domanda interna e il conseguente crollo delle importazioni. E le mie importazioni sono le esportazioni del mio vicino partner commerciale. Alcuni elementi di questa crisi (il rapporto di indebitamento) vanno a una velocità nettamente superiore a quella delle riforme di struttura: l’evoluzione converge verso il dissesto, a meno di un “qualcosa” che ripristini condizioni di crescita, cioè di sostenibilità del debito, pubblico e privato. Ad oggi, continua a non essere chiaro cosa possa essere quel qualcosa, in assenza di un enorme piano di stimolo, basato su tagli d’imposta in deficit e/o su spesa pubblica su scala continentale, una pura utopia. Se il quadro europeo resterà quello oggi in essere, sarà pressoché impossibile evitare un redde rationem sullo stock di debito, pubblico e privato, di alcuni paesi europei.

 

 

 

Facebooktwitterlinkedininstagramflickrfoursquaremailby feather

Corralito. L’Argentina ha finito di pagare il suo debito.

L’Argentina ha finito di pagare il suo debito.

A poco più di dieci anni dal default, un crack del valore di oltre 100 miliardi di dollari, Buenos Aires ha onorato l’impegno preso con i detentori delle obbligazioni che in seguito a quella crisi  si trasformarono in carta straccia. Con il Corralito, il nome con cui vennero etichettate le misure economiche adottate dal ministro dell’Economia Domingo Cavallo a fine 2001 per tamponare gli effetti della crisi, si cercò di porre un freno alla corsa agli sportelli congelando i conti bancari e proibendo il prelievo dai conti in dollari americani.

I risparmiatori si trovarono allora di fronte a due scelte: convertire i depositi in pesos – una valuta dal valore crollato – per accedere a quanto era rimasto dei risparmi, oppure accettare in cambio il titolo Boden 2012 in valuta Usa, un pezzo di carta che conteneva la promessa che il governo avrebbe ripagato l’ammontare in dollari nel corso dei 10 anni successivi. Il Corralito venerdì è stato definitivamente sepolto dal pagamento dell’ultima tranche del debito.

“Non è un giorno qualsiasi nella storia del calendario delle scadenze del debito pubblico”, ha detto il giorno prima il ministro dell’economia Hernan Lorenzino, ricordando che quel nome “è stato il simbolo della peggior crisi economica e sociale della quale abbiamo memoria”. Durante le celebrazioni, giovedì, del 158esimo anniversario della Borsa di Buenos Aires, anche la “presidenta” Cristina Fernandez ha voluto celebrare questa pietra tombale messa sul debito argentino: “Non ho avuto nulla a che vedere con tale passo (le misure economiche del 2001-2002, ndr), ma con il pagamento dell’ultima quota del Boden saremo più liberi”, ha affermato.

Ma se non fu l’attuale capo di Stato a decidere l’istituzione di quei titoli, sono stati lei e il defunto marito e predecessore, Nestor Kirchner, a promuovere e portare avanti la politica di ‘sdebitamento’ che ha portato l’Argentina a onorare il suo debito con i risparmiatori attraverso la ristrutturazione, con tagli del 70% del debito estero (accettata dal 96% dei possessori di bond) e l’estinzione, con le riserve nazionali, dei circa 10 miliardi di dollari dovuti all’Fmi.

Una politica che ha tirato fuori l’Argentina dalla palude dell’indebitamento facendola diventare una potenza economica in costante crescita. Il pagamento del debito, ha affermato Cristina, “ci ha assicurato una indipendenza immensa dall’attività dei mercati”. Un’esperienza che dovrebbe insegnare qualcosa ai Paesi che oggi in Europa,vivono una crisi che ricorda molto da vicino quella che portò al default di Buenos Aires. Lo ha sottolineato la stessa “presidenta”, che ha messo in guardia il Vecchio Continente: “C’è una incredibile crisi speculativa (nel mondo, ndr) come poche volte si è vista, causata da una crisi che noi conosciamo bene”.

Un fatto che “non conosce precedenti, sono fuggiti dalla Spagna capitali per 200 miliardi di dollari, Francia e Germania nella terza settimana del mese hanno collocato il debito allo 0,007 a tre mesi e dopo, la settimana successiva, lo hanno portato allo 0,003 per cento (…) questo per pagare la gente, per fargli tenere i soldi nelle banche”, ha sottolineato Cristina, puntando il dito contro i colossi finanziari responsabili della crisi, quella che 11 anni fa colpì l’Argentina e quella che oggi attanaglia l’Europa. Da Buenos Aires arriva un segnale, un avvertimento all’Europa. Ma soprattutto viene un insegnamento: il modello argentino ha avuto successo, e in un contesto di crescita economica e di rafforzamento delle reti di protezione sociale, senza l’imposizione delle misure di austerity che oggi stanno invece mettendo in ginocchio i popoli europei.

 

Facebooktwitterlinkedininstagramflickrfoursquaremailby feather