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La RAZZA Umana e il concetto di razza. Ecco cosa non sanno e si DEVE sapere.

Le razze umane non esistono. Il razzismo sì.

 

 

Questo post è lungo. Rimuove però un equivoco critico. Esso spiega perché in senso genetico non è possibile circoscrivere razze umane. Quello delle razze umane è un pregiudizio duro a morire. Non parliamo di chi pensa che esistano razze migliori di altre.  ( Roberto Weitnauer )

INTRODUZIONE

La domanda non ha ragion d’essere. Bisogna però riconoscere che la confusione che si cela tra le parole con cui è formulata ha radici profonde nel linguaggio naturale e nella nostra percezione di animali sociali, quindi anche nella rilevazione delle diversità che caratterizzano il prossimo. Linguaggio e percezione se la giocano poi con le dinamiche culturali e, pertanto, con i nostri schemi di giudizio e le nostre aspettative.

La cultura moderna è alimentata però anche dalla scienza che, a questo specifico riguardo, parla con la voce più autorevole. Ascoltandola attentamente, si capisce perché non sia possibile disquisire attorno alle razze umane e occorra invece rigettare il concetto medesimo di razza umana.

A scanso di equivoci e per tagliare corto, fornisco subito in anteprima la posizione chiara e condivisa che assumerebbe oggi la scienza al cospetto di un questito come quello qui posto.

Illuminanti a tal riguardo sono risultate, tra altre, le ricerche di due grandi scienziati: lo statunitense Richard Lewontin (Richard Lewontin – Wikipedia) e l’italiano Luca Cavalli-Sforza (Luigi Luca Cavalli-Sforza – Wikipedia). I due studiosi hanno operato a livello interdisciplinare, indagando su campi afferenti alla biologia evolutiva, alla biologia molecolare, alla genetica delle popolazioni, alla matematica popolazionale, alla statistica, all’evoluzione del Dna e del Rna, alla storia delle migrazioni umane, alla linguistica, all’antropologia.

Ecco dunque in forma di decalogo cosa pensano oggi sulla questione posta dal quoriano i biologi, i genetisti, gli etologi, gli zoologi e, ormai, anche gli stessi antropologi. Segue una spiegazione più approfondita, ma di stampo divulgativo, che tocca i dieci punti elencati alla luce delle ultime conoscenze in campo scientifico.

  1. Le razze umane sono un costrutto di stampo sociale-culturale, sostanzialmente un mito, poiché sulla Terra non esistono costituzioni umane circoscrivibili mediante criteri chiari e univoci.
  2. Esiste sulla Terra un’unica specie umana residua nel genere “Homo” moderno, chiamata “Homo sapiens”. Questa specie non è certo indifferenziata, ma è monotipica.
  3. Una specie monotipica può ammettere divisioni di diverso tipo ed entità su singoli caratteri, ma non lascia trasparire fattori divisivi globali delle popolazioni che siano oggettivi, attendibili e condivisibili.
  4. Non trova alcuna giustificazione scientifica cercare di segmentare l’umanità in sottospecie o razze. Tantomeno è sensato quantificare o qualificare le razze umane o considerarne la distribuzione geografica.
  5. I caratteri esteriori sono meno della punta di un iceberg nel computo dell’identità biologica degli umani. Essi sono soggetti a demarcazioni influenzate dalla nostra natura di animali sociali.
  6. L’inconsistenza del concetto di razza umana è evidenziata dalla difficoltà storica, mai superata, di riscontrare limiti sufficientemente netti tra gruppi di umani.
  7. La fisiologia degli umani, esaminata sul piano scientifico- sanitario, attesta che non esistono resistenze o malattie particolarmente ascrivibili a delle razze, convenzionalmente classificate.
  8. Il concetto di razza umana risulta inconsistente se rapportato alla distribuzione dei caratteri ereditari umani all’interno della popolazione mondiale.
  9. Ogni essere umano è il frutto dell’interazione tra l’espressione dei geni che porta e l’ambiente naturale e culturale dove avviene l’espressione. Tale interazione ha una storia tracciata dalle migrazioni.
  10. La storia delle migrazioni e del nostro Dna attesta che siamo i discendenti di un genere Homo piuttosto recente che risiedeva in Africa e che ci siamo incrociati, omogeneizzando ovunque i nostri Dna.

Segue chiarimento per chi vuole approfondire.


LA PERSISTENZA DEL CONCETTO DI RAZZA UMANA

Eppure, qualcuno penserà, le razze sembrano distinguersi nella popolazione mondiale, considerati le differenti complessioni degli umani insediatisi in varie regioni del globo. Va sottolineato infatti che le soprastanti nette precisazioni scientifiche non necessariamente collimano con altri tipi di inquadramenti. Accade così che nella nostra cultura contemporanea la classificazione degli umani in razze sia ancora presente in alcuni contesti. Ad esempio, esistono demarcazioni di questo tipo in ambito legale e giuridico, ma esistono anche nelle pratiche mediche. Molti antropologi fino a due generazioni fa pensavano che le razze umane esistessero.

Come verrà più sotto illustrato, gli ambiti dove il raggruppamento degli umani in razze è ancora in auge non solo non collima oggi col punto di vista prettamente scientifico, ma è in netto contrasto con esso. Rispetto alle indicazioni offerte dalla biologia contemporanea, quegli inquadramenti si pongono come obsoleti o addirittura fuorvianti. Il punto di vista scientifico, ormai ben consolidato su queste tematiche, è indubbiamente il più maturo e attendibile, sostanzialmente l’unico cui si possa fare riferimento a questo proposito, in virtù dei dati a disposizione che possono indicare l’identità biologica degli individui, al di là delle sole convenzioni sull’aspetto esteriore.

L’immagine qui sotto è paradigmatica e rappresenta una triplice suddivisione delle razze umane, così come veniva concepita nel passato. La mappa raffigurata era presente nella prestigiosa enciclopedia tedesca Meyers Konversations-Lexikon nelle pubblicazioni avvenute negli ultimi anni del XIX secolo (si può visionare anche su Wikipedia: Race (human categorization) – Wikipedia

). Essa attesta di un inquadramento inconsistente degli umani che popolano la Terra. Oggi sappiamo infatti che distinzioni etno-geografiche di questo genere sono completamente superate.


LE RAZZE NELLA ZOOTECNIA

Si noti che il termine “razza” viene con ogni probabilità dal francese antico “haraz” che significava “allevamento di cavalli”. In effetti, la nozione di razza rispecchia in origine un concetto zootecnico, cioè relativo ad animali di allevamento artificialmente selezionati e, quindi, modellati dall’uomo. In questo essa denota senz’altro una propria consistenza, qualora il discorso venga circoscritto a esemplari non ibridizzati. Analogo discorso vale per gli animali domestici che pure possono derivare da incorci controllati dall’uomo. Nella foto sotto un esempio eclatante di razza bovina. Si tratta di un toro “belgian blue”.

La suddetta razza bovina ha un’apparenza quasi mostruosa ed è stata allevata a cominciare dal XIX secolo attraverso un processo di selezione continuo che ha sempre previsto accoppiamanti tra soggetti molto muscolosi. La muscolatura ipertrofica non dipende dalla somministrazione di steroidi o da pratiche di ingegneria genetica. Essa si deve invece alla riduzione progressiva della miostatina negli incroci decisi dagli allevatori. Si tratta di una proteina che controlla la crescita delle fibre muscolari. In epoca più moderna la selezione degli accoppiamenti viene praticata attraverso inseminazioni artificiali. Una condizione analoga riguarda la razza bovina “piemontese”.

Lo sviluppo anomalo dei muscoli produce una carne magra e molto buona per uso commerciale, ma mina la salute dell’animale, creando diversi scompensi. L’ipertrofia in oggetto va ricondotta biologicamente a un’originaria e spontanea mutazione genetica, poi esaltata nelle selezioni effettuate dagli allevatori, sempre mirate a ottenere una carne migliore da offrire sul mercato. In natura questo animale avrebbe probabilmente difficoltà di adattamento.

Non c’è comunque dubbio alcuno che si tratti di una razza a sé, anche per via della mutazione di cui sopra. Come si diceva il concetto di razza ha una ragion d’essere nella zootecnia. Qualora applicata a tutti gli organismi viventi, la nozione di razza inizia invece a diventare meno chiara, poiché le diversità strutturali e morfologiche tra un raggruppamanto di organismi e l’altro non sono sempre nette, né fisse. Oggi gli zoologi tendono a evitare il più possibile il riferimento alle razze, per via delle variazioni graduali che possono comparire tra una delimitazione convenzionale e l’altra.

Nel caso degli esseri umani la questione è ancora più confusa, per quanto a prima vista sembri di poter circoscrivere gruppi di individui dall’aspetto omogeneo. All’atto pratico, le osservazioni popolazionali mostrano invece quanto i caratteri esteriori degli umani siano distribuiti con continuità e variabilità, rendendo praticamente impossibile una demarcazione razziale attendibile.


“RAZZA”, UN TERMINE AMBIGUO

Secondo un aneddoto ricorrente quando Einstein compilò la scheda dell’ufficio d’immigrazione statunitense, alla voce “razza” scrisse: “umana”. Ebbene, si tratta di una falsità. Einstein non ha mai scritto nulla del genere, anche se può fare piacere pensarlo. Tuttavia, è vero che Einstein parlò in altre occasioni di “razza umana” (come riferito nel libro Albert Einstein, The Human Side di Helen Dukas, Banesh Hoffmann, e altri).

Einstein era un fisico, non un biologo; e usava la parola “razza” ad effetto, con chiaro intento anti-discriminatorio e anti-nazionalistico durante il triste periodo bellico che contraddistinse la sua attività intellettuale. Stiamo qui riferendoci a un termine frequente nel linguaggio corrente, ma proprio perché è di uso comune, esso risulta anche foriero di ambiguità.

Oggi sappiamo che a risultare baricentrico nel discorso attorno all’identità biologica è il riferimento al genoma, ovvero all’ereditarietà che costituisce un tratto saliente di ogni organismo vivente. Chi non è avvezzo a questo tipo di discorso (come alcuni noti giornalisti che oggi scrivono in Italia sul tema), dovrebbe decidersi a prendere atto di cosa afferma la scienza, considerando attentamente le relative spiegazioni genetiche. In caso contrario, dovrebbe astenersi dal parlare di razze umane, come emergerà dalle righe che seguiranno.

Oggi siamo in grado di mappare il Dna umano su vasti campioni popolazionali. Si può così rilevare quali diversità intercorrano tra singoli individui appartenenti a varie popolazioni viventi sul globo. Ebbene, in base alla distribuzione delle uguaglianze e delle differenze genetiche si può stabilire che non ha senso distinguere razze umane. Lo vedremo più nel dettaglio nel prosieguo.

Qui sotto una fotografia (tratta da La razza “umana” di Einstein — BUTAC – Bufale un tanto al chilo

) di un modulo che gli immigranti dovevano compliare nella prima metà del XX secolo all’atto dello sbarco negli Usa. Il modulo è del 1933, ma fa il paio con un altro analogo documento di registrazione del 1921. Da entrambi si vede che alla voce “razza” Einstein scrisse “ebreo”. In realtà, quella ebraica non può consisderarsi una razza, bensì una confessione, al più un’etnia, giacché questo termine implica anche tratti culturali.


CONVENZIONI E NOMENCLATURE

Rispondere con i colpi d’accetta in senso positivo o negativo al quesito posto dal quoriano non ha molto senso se prima non si fa chiarezza proprio sul termine centrale in esso contenuto: cosa dobbiamo intendere esattamente per “razza”? Se riusciamo a rimuovere alcuni equivoci gli interrogativi posti si semplificano drasticamente e possiamo anche comprendere come sia facile essere condotti fuori strada dalla nostra interpretazione comune del concetto di razza. Conviene aggredire il problema per gradi, iniziando dalle suddivisioni sulle quali più ha insistito l’antropologia del passato. Poi approfondiremo il discorso in ambito medico, fisiologico e genetico.

Una prima indicazione è molto semplice e intuitiva. Si tratta comunque di quella storicamente più duratura e che, come accennato, si basa sull’aspetto fisico, ovvero sui tratti somatici e altre caratteristiche esteriori, come il colore della pelle o la complessione. In questa ottica particolare le razze umane sono esistite convenzionalmente, nel senso che gli antropologi si sono presi la briga in passato di riscontrare comunanze e diversità esteriori e di farle rientrare in gruppi caratteristici, stilando una corrispondente nomenclatura.

Si presti intanto attenzione a una circostanza. Se è vero che quegli studiosi abbiano tentato di riunire gli umani in gruppi distinti, ciò non significa che abbiano sempre inteso istituire anche una corrispettiva scala qualitativa. Qualcuno di essi in verità l’ha anche fatto, ma si tratta di ipotesi di livello professionale basso e formulate in un’epoca in cui le idee scientifiche ancora non erano debitamente maturate.

Ricordiamo in generale che il discorso qualitativo esula completamente dalla scienza che si sofferma ove possibile solo sul lato quantitativo, senza offrire giudizi di ordine etico o morale. Il razzismo fondato su taluni fattori antropologici è oggi il risultato inconsistente sortito da interpretazioni che col metodo scientifico non hanno nulla a che vedere. Questo vale ovviamente anche per i nazisti e i fascisti nelle cui cerchie mancavano voci autorevoli scientifiche.

La condizione descritta e l’ambiguità del concetto di razza furono esattamente ciò che concorse a distinguere dei gruppi umani in modo fuorviante e, in Italia, a promulgare le leggi razziali negli anni ’30 e ‘40. Le distinzioni implicavano inoltre che la razza ariana fosse la migliore: una totale idiozia in senso scientifico e un orrore in senso etico. I nazisti effettuarono addirittura una serie di spedizioni nel Tibet (Spedizioni naziste in Tibet – Wikipedia

) per trovare le radici della razza ariana, erroneamente intesa da alcuni antropologi dell’800 (come de Gobineau) come discendente dai popoli ancestrali indoeuropei. Gran parte del concetto di razza ariana venne infarcito dai nazionalsocialisti tedeschi (primo fra tutti lo stesso Hitler) di elementi ideologici che nulla avevano a che fare con l’antropologia dell’epoca, peraltro già di per sé in parte completamante “sballata.


VARIAZIONI ALL’INTERNO DI UNA SPECIE

La nozione di razza applicata al regno animale, e quindi anche all’uomo, sottintende una classificazione all’interno di quella di specie; in biologia si usa talora anche “sottospecie”. Parlare di “razza umana” a intendere gli homo sapiens nella loro totalità non è pertanto del tutto corretto, anche se rende l’idea e contrasta i pregiudizi ancor oggi esistenti nella nostra società. Allo stesso modo, non è scientificamente significativo affermare: “Esiste una sola razza umana”, come può capitare di leggere in rete. La dicitura corretta è “specie monotipica”, ma non si tratta solo di una questione di terminologie.

Semplificando, una specie è formata sostanzialmente da individui interfecondi che producono a loro volta una discendenza capace di generare successori. Una specie può essere formata da più razze, ovviamente tutte interfeconde, più o meno morfologicamente simili e con strutture e fisiologie più o meno confrontabili. Si capisce pertanto che affermare che una specie sia formata da un’unica razza è un po’ come sostenere che la specie e la razza siano la stessa cosa. Insomma, si confonderebbero i livelli. Ha senso usare il termine “razza” solo in presenza di almeno due o più razze. Possiamo anche immaginare che una si sia estinta e sia rimasta solo l’altra, ma allora occorre dare riferimenti precisi.

Dire che esiste una sola razza umana è una frase d’impatto che riflette comunque dei buoni intenti. Si vuole infatti indicare che dal punto di vista del patrimonio ereditario tutti gli umani sono molto simili, in virtù della storia passata di miscugli migratori e selezioni. Viene in conseguenza inferito che tali ridotte diversità dovrebbero impedire di pensare che esistano razze umane distinte. Tuttavia, questo ragionamento non taglia la testa al toro. Non esistono razze umane, questo è ben vero (il che non è come dire che esiste una sola razza), come vedremo. Tuttavia, ciò è vero non semplicemente perché siamo tutti molto simili in termini erditari. Questa spiegazione da sola non ci condurrebbe da nessuna parte. Capiremo meglio la faccenda dopo qualche digressione sul concetto di razza.

Nell’immagine qui sotto quattro diversi tipi di zebre con le relative distribuzioni geografiche in Africa. Il tipo in biologia è un organismo che è stato ben descritto e al quale si è dato un nome. Quando gruppi di una medesima specie evidenziano caratteristiche fisiche o morfologiche diverse in funzione delle zone geografiche in cui vivono si dice che quei tipi sono dei clini (Variazione clinale | Wikiwand). Una singola variazione clinale non identifica necessariamente un razza. Una razza si distingue in natura solo quando più tratti (clinali o non) possono essere raggruppati, ma si tratta di attribuzioni non sempre univoche e che sono stabilite inevitabilmente con qualche arbitrarietà.

Per nulla arbitraria e del tutto netta e oggettiva è però la manifestazione evolutiva che prende piede quando le differenziazioni progressive delle razze o dei tipi nel corso del tempo producono una divergenza di caratteri tale da sfociare infine nella comparsa di esemplari che non sono più interfecondi. A quel punto si ha la costituzione di nuove specie. La specie corrisponde a un concetto univoco e rigoroso in biologia, mentre la razza rispecchia classificazioni di comodo sulle quali non sempre si trovano accordi.


RAZZISMO ANTROPOLOGICO

Due parole su alcuni studi storici, più che altro per sottolineare come l’approccio razziale al caso dell’umanità sia risultato fallimentare (per maggiori informazioni sulla storia della ricerca delle razze umane, si veda: Razzismo scientifico – Wikipedia). Dopo diversi tentativi grossolani e incoerenti, nel 1865 l’antropologo tedesco Blumenbach (Johann Friedrich Blumenbach – Wikipedia

) propose una distinzione razziale di una certa importanza, individuando cinque categorie, sostanzialmente in base a misure condotte sul cranio. Ne derivavano ulteriori suddivisioni, operate in base ad altri aspetti anatomici e al colore della pelle.

In questo modo Blumenbach circoscriveva la razza caucasica o bianca (tipo gli europei), la razza indiana o rossa (quella dei nativi americani), la razza malese o marrone (sud-est asiatico), la razza mongola o gialla (tipo i cinesi), la razza etiope o nera (gli africani). Nella figura qui sotto, le cinque razze secondo la craniometrica di Blumenbach. L’antropologo tedesco si appoggiava ai servizi di un artista per raffigurare su carta le proprie suddivisioni carniometriche.

Questo inquadramento generale restò valido sino alla seconda grande guerra e, a discapito delle intenzioni scientifiche di Blumenbach che non intese minimamente accennare a diversità intellettuali o morali, venne purtroppo inteso in termini qualitativi. Tra l’altro, Blumenbach aveva compreso quanto i confin idelle sue delimitazioni potessero risultare sfumati e quante forme umane intermedie potessero sussistere. Un suo successore, il francese de Gobineau (Joseph Arthur de Gobineau – Wikipedia), prese il suo impianto e lo rese più drastico, facendo inoltre distinzioni a proposito della nobilità delle razze, tra le quali quella bianca doveva spiccare. Il seme della presunta supremazia ariana venne così gettato verso la metà del XIX secolo.

Dopo il conflitto mondiale la classificazione desunta dall’approccio originario di Blumenbach perse gradualmente colpi. Il tedesco aveva erroneamente ipotizzato che le razze umane da lui individuate oltre quella caucasica discendessero evolutivamente da essa. Inoltre, divenne sempre più evidente che il colore della pelle non solo non dicesse molto, ma poteva portare a confondere i gruppi. Per esempio, certi indiani possono avere la pelle più scura di certi africani, ma certo non possono definirsi “neri”. A quel punto le classificazioni dovettero giocoforza modificarsi.


 

LA FALSA IPOTESI SULLE RAZZE PALEOLITICHE

Venne così il turno dell’antropologo americano Coon (Carleton S. Coon – Wikipedia). Vale la pena citarlo, per le influenze che ha esercitato e, in alcuni ambiti, ancora oggi esercita. Questi riconobbe in un primo tempo ben 30 gruppi razziali, descritti in base a indicatori che attenevano alle forme e alle funzioni degli organismi umani e delle loro parti. Emerse però presto che le classificazioni non funzionavano, cioè che non riuscivano a delimitare in maniera coerente i gruppi umani.

Nel 1962 Coon ricorse a un diverso approccio, riferendosi a una suddivisione delle popolazioni umane in razze geografiche. In conformità alla congettura di un’origine multiregionale, Coon pervenne a una classificazione in cinque gruppi all’apparenza similare a quella di Blumenbach. La segmentazione in oggetto contempla questi gruppi: razza caucasoide, razza mongoloide, razza amerinoide o indianoide, razza negroide (congoidi e capoidi), razza australoide.

Nell’ottica di Coon le razze umane non erano un risultato recente dell’evoluzione, bensì la conseguenza di discendenze da diversi gruppi di uomini paleolitici, successivamente andate soggette a segregazione geografica. Secondo questo inquadramento la razza africana risultava 200.000 anni più arretrata rispetto alle altre e specialmente rispetto alla razza bianca. Diciamo subito che, seppure scientificamante invalidato, l’impianto di Coon è oggi grossolanamente assunto come un riferimento in alcuni ambiti, ma soltanto al di fuori del campo scientifico.

A titolo di completezza, viene riportata qui sotto (da Wikipedia, Razzismo scientifico – Wikipedia

) una grafica delle distribuzioni razziali cooniane nel corso del tempo e, dunque, con delle modifiche imputabili alle (Pleistocenne: tra 2,58 milioni di anni fa e 11.700 anni fa; Olocene: da 11.700 anni fa ad oggi). La rappresentazione dell’Olocene non si riferisce ai giorni nostri. Si nota infatti come le due Americhe siano contraddistinte in qualità di regioni occupate dalla razza mongoloide.

Va osservato anche come secondo Coon il Nordafrica, l’Europa e l’Asia occidentale vengano considerate razze caucasiche, quindi senza troppo considerare il colore della pelle, assunto come derivazione successiva dalle origini caucasiche. Oggi questa assunzione è nettamente rigettata nella scienza. Le sole diversità nella pigmentazione della pelle sono molto antiche, risalenti a periodi ancora precedenti la comparsa dell’uomo moderno nell’evoluzione del genere “Homo”. Se ne darà qualche cenno anche più avanti.


ASPETTI SOMATICI INTERMEDI

Dato che la discendenza paleolitica di Coon non trovò riscontri paleoantropologici, così come non resse l’idea di razze più antiche di altre, i modelli di Coon vennero anch’essi abbandonati dalla scienza, cioè dall’antropologia biologica e dalla biologia. Tuttavia, l’impianto è rimasto sostanzialmente conservato in alcuni ambiti extra-scientifici. Nei limiti in cui si decide di poter parlare di razze la suddivisione in cinque razze di Coon vale ancora in termini convenzionali.

La domanda però è fino a che punto possa avere senso accettare quel tipo di limiti. Qui abbiamo preso in esame solo due studiosi che con le loro idee sulle similitudini tra umani hanno influenzato l’antropologia del passato, sino a lasciare qualche retaggio ai giorni nostri. Va comunque precisato che molti altri studi sulle razze sono stati compiuti nel passato. A seconda dello studioso che si considera, il numero delle razze può andare da 2 a un centinaio, il che dimostra quanta arbitrarietà può esserci in questo campo. Ripetiamolo una volta di più: i limiti razziali sono scientificamente un’ipotesi irricevibile.

Non c’è alcun dubbio che un ivoriano abbia un aspetto radicalmente diverso da quello di un cinese. Tutto noi sappiamo riconoscerlo. Così come riconosciamo che esiste un retaggio biologico che trasferisce i caratteri dei genitori ai figli, generando umani simili tra loro. Tuttavia, procedendo per piccoli passi, di somiglianza in somiglianza, potremmo passare per molti tragitti diversi da un cinese a un ivoriano all’interno della specie umana. L’ivoriano e il cinese non sono che due espressioni biologiche umane tra le quali esiste tutta una serie di espressioni intermedie, senza che sia riconoscibile uno spartiacque netto nelle complessioni generali degli individui che si possono incontrare.

Nel 1871 Darwin scrisse (in The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex): “L’uomo è stato studiato più estesamente di qualsiasi altro animale, eppure vi è la più grande diversità possibile di opinioni tra gli studiosi eminenti circa il fatto che l’uomo possa essere classificato come una singola specie o razza, oppure come due (Virey), tre (Jacquinot), quattro (Kant), cinque (Blumenbach), sei (Buffon), sette (Hunter), otto (Agassiz), undici (Pickering), quindici (Bory St. Vincent), sedici (Desmoulins), ventidue (Morton), sessanta (Crawford), o sessantatre, secondo Burke.” Darwin era consapevole di quanto scivoloso potesse essere da un punto di vista scientifico il discorso su presunte razze umane.

Riporto intanto a titolo di esempio le fotografie di cinque ragazze intorno ai 25 anni, ciascuna delle quali appartenente a uno dei cinque gruppi umani di Coon sopra indicati. Non si tratta cioè di soggetti ibridi, frutto dell’incrocio di genitori appartenenti a gruppi differenti secondo l’approccio cooniano. Lascio al lettore indovinare a quale razza appartenga ciascuna ragazza. Non credo però che questi possa andare sempre a colpo sicuro, dato che ho scelto soggetti che, pur rispondendo alla classificazione cooniana, non sono sempre nelle aspettative comuni. Inoltre, a qualcuno potrà sembrare che manchino alcune fisionomie tipiche. Ebbene, queste incertezze non vanno attribuite al particolare raggruppamanto in esame, ma alle sfumature e alle variabilità somatiche che possono evidenziare gli individui appartenenti a qualunque tipo di segmentazione razziale.


 

OLTRE LE SOMIGLIANZE ESTERIORI

Le razze umane, secondo i suddetti criteri di Coon (o similari), vengono ancora oggi distinte in ambito giudiziario-forense. Ciò avviene praticamente in tutto il mondo, specialmente nei paesi con molti gruppi umani (come gli Usa), anche se talvolta (in Europa) si preferisce parlare di etnia, il che non è proprio lo stesso, dal momento che in quest’ultimo caso sono implicate anche considerazioni di ordine culturale e non solo fisionomiche o somatiche. Come appureremo, non si tratta di una differenza da poco.

Noi umani rileviamo le differenze e le somiglianze in base a talune caratteristiche capacità di elaborazione del nostro cervello. Riconoscere i volti, ad esempio, è un tratto fondamentale della nostra natura di animali sociali che hanno stretti rapporti col prossimo all’interno della specie. Il nostro volto può modificarsi sotto l’azione di ben 43 muscoli facciali. La nostra evoluzione ha fatto in modo che ciascuno di noi diventasse capace di rilevare le emozioni del nostro interlocutore, o in genere del prossimo, attraverso l’elaborazione veloce di espressioni anche solo fuggevoli derivanti dall’azione combinata dei suddetti muscoli.

L’immagine qui sotto vuole essere un esempio intuitivo, anche se estremo ed ironico, di come siamo in grado di cogliere le somiglianze espressive: un parallelismo di fortuna tra due specie diverse, laddove però l’atteggiamanto dell’umano con gli occhiali ben poco ha a che vedere con quello del cane. Walt Disney fu uno dei primi che sfruttò a livello multimediale la nostra propensione a leggere le espressioni e cogliere somiglianze e differenze nei volti, usando proprio animali al posto di personaggi umani. Oggi industrie cinematografiche che producono film d’animazione, come la Pixar o la Industrial Light & Magic, sfruttano interi archivi di espressioni digitalizzate per richiamare l’empatia dello spettatore (si veda ad esempio: Sistema di codifica delle espressioni facciali – Wikipedia).

Siccome l’attitudine al rilevamanto dei volti e delle espressioni è insita nella nostra costituzione neurale, essa porta a giudizi in genere piuttosto condivisibili sul riconoscimento delle persone e anche sul loro stato d’animo. Più in generale, la facoltà umana di scovare abilmente differenze e somiglianze nella complessione fisica ha inevitabilmente influenzato gli antropologi che in passato hanno cercato di descrivere dei gruppi razziali. La stessa attitudine spiega verosimilmente perché alcune loro classificazioni siano ancora in auge in taluni ambiti extra-scientifici.

In verità, il nostro giudizio sulle somiglianze non è in grado di circoscrivere attendibilmente gruppi specifici di umani. Il nostro sistema di rilevazione può facilmente portarci ad accentuare taluni aspetti a discapito di altri. Può persino portarci a riscontrare solo ciò che ci aspettiamo di riscontrare nella varietà degli umani. Il fatto è che l’aspetto immediatamente visibile è un corpo d’informazioni che, al di là dell’empatia o dei rapporti interpersonali, ben poco ci può dire a proposito della natura biologica di un individui o di un gruppo di individui.

S’intuisce che per risultare davvero consistente la nozione di razza dovrebbe avere attinenza con qualcosa di più profondo della sola complessione o del colore della pelle. Si dovrebbe dunque superare l’apparenza somatica e cercare qualcosa di più profondo e globale, qualcosa di più oggettivo e meno convenzionale di quanto non succeda con le classificazioni in uso in settori esterni alla scienza (come in quello investigativo, giudiziario e forense).


PRECONCETTI RAZZIALI NELLE TERAPIE

La domanda da porsi è dunque se esistano tratti inequivocabili e oggettivi di tipo biologico che possano circoscrivere gruppi umani in modo tale da stilare limiti razziali. Se una simile suddivisione razziale fosse possibile dovremmo attenderci che alcuni parametri anatomici, fisiologici e metabolici risultino legati in modo caratteristico all’appartenenza a un gruppo umano piuttosto che a un altro. Questo dovrebbe valere anche per le resistenze o, viceversa, per le fragilità che si manifestano nelle patologie. Per fare un esempio tra altri, alcune statistiche indicano che il morbo di Crohn (un tipo d’infiammazione grave dell’intestino) colpisca maggiormente i soggetti di origine africana. Quanto sono attendibili?

Il discorso sulle patologie e sulla fisiologia umana ci conduce dunque a interrogarci in questo modo: ha senso una classificazione razziale in campo medico? In effetti, le razze umane vengono talvolta distinte anche in medicina e dalle grandi aziende farmaceutiche il cui marketing ragiona per macroregioni geografiche e, quindi, secondo un inquadramento che per molti finisce per essere razziale. Quando inoltre si fanno studi clinici, per prassi si indica sempre l’età, il sesso e l’appartenenza etnica del campione esaminato, poiché si presuppone che quest’ultima potrebbe risultare discriminante per una corretta interpretazione dei risultati.

I medici pensavano, e in parte ancora pensano, che una distinzione razziale abbia un fondamento nell’espletamento della loro professione. Non è stata pertanto la medicina operativa a gettare lumi sulla questione delle razze umane. D’altra parte, convinti da ricerche ad hoc, molti medici hanno da tempo iniziato a ricredersi a proposito della significatività della suddivisione razziale dei pazienti. Gli atteggiamenti stanno cambiando e non semplicemente perché si vuole essere “politicamante corretti”.

Salvo quelli attivamente coinvolti nella ricerca, i medici non sono sempre inclini a ragionare sul piano dei dati scientifico-statistici. Perché? Il motivo è semplice: la medicina non può essere una scienza esatta e un valido medico curante ha sempre la responsabilità di agire in base a esperienze personali o dei colleghi, facendo inferenze che i soli dati statistici non sempre possono guidare senza fallo. Un medico curante si trova insomma spesso a operare “tra le righe” dei protocolli dettati dalle molte statistiche presenti nella letteratura medica, non sempre tra loro perfettamente congruenti.

Per altri versi, questa inevitabile mancanza d’indagine approfondita su campioni larghi, che spetta piuttosto a chi fa ricerca e raccoglie dati, può condurre ad alcuni preconcetti terapeutici. Ciò è ampiamente dimostrato da vari studi di settore e sondaggi eseguiti tra il personale medico. A puro titolo d’esempio, risulta dalle inchieste che i medici specializzandi bianchi negli Usa ritengono erroneamente che sussistano alcune diversità fisiologiche e anatomiche tra i pazienti bianchi e quelli afro-americani. Per dettagli in merito si vedano questi studi:

https://www.pnas.org/content/113/16/4296/tab-article-info


AMBIENTE E COSTITUZIONE

Il fatto cruciale da porre sotto la lente dell’attenzione medica è questo: le diversità tra gruppi umani condotte sul piano delle classificazioni razziali correlano sovente con caratteristici stili di vita o condizioni socio-economiche che possono falsare l’interpretazione dei risultati sanitari.

Per intenderci, sono ben pochi negli Usa gli afro-americani che hanno lo status sociale della famiglia Obama. In genere, i neri africani vivono in condizioni culturalmente e socialmente più disagiate dei bianchi. Questo comporta una peggiore igiene, una minore informazione, una minore prevenzione o una peggiore alimentazione. Risulta inoltre che la dieta dei neri americani è maggiormente contraddistinta da preferenze verso fritti e sale. Attribuire un maggiore rischio cardiovascolare agli afro-americani, senza tenere conto di questa abitudine alimentare sarebbe dunque scorretto. Si veda, ad esempio:

Association of Clinical and Social Factors With Hypertension Risk in Black vs White US Adults

Un altro esempio di questo genere riguarda i giapponesi. Questa popolazione presenta un basso rischio di contrarre problemi specifici coronarici (ostruzione) che conducono al decesso, il che potrebbe facilmente far pensare a una maggiore resistenza fisiologica di base, cioè costituzionale. Tuttavia, i membri di questa stessa popolazione che nascono da genitori trasferitisi negli Usa, denotano un tasso di mortalità più prossimo a quello degli americani bianchi, seppure ancora inferiore. Per contro, la mortalità cardiovascolare generale (che, oltre alle coronarie, include altre problematiche cardiache) risulta maggiore per i giapponesi che vivono in Giappone.

Sono evidentemente le abitudini alimentari, non particolarmente virtuose negli Usa e buone in Giappone, a fare le differenze in merito alla questione coronarica. In generale, il welfare può fare la differenza in molti casi. La longevità dei giapponesi va in gran parte senz’altro ricondotta al regime alimentare e al welfare nipponico. In quanto alla mortalità per ragioni cardiache generali (non solo coronariche), evidentemente giocano un ruolo anche altri fattori che riconducono alle differenze, in meglio o in peggio, tra la vita in Giappone e quella in America. Si veda la grafica qui sotto (per le fonti, si veda in calce a questa pagina: Japanese | Cadi

).

Queste considerazioni indicano in modo piuttosto netto che ciò che la vecchia medicina attribuiva a caratteristiche costituzionali si deve invece alle condizioni esistenziali, cioè allo stile di vita e all’alimentazione. Non è facile stilare statistiche attendibili in campo medico, giacché le variabili coinvolte sono davvero tante. Può così capitare di prendere abbagli e di non rilevare quali siano i ‘driver’ principali dei rischi di patologie.


SINGOLE VARIAZIONI CLINALI NON IDENTIFICANO LE RAZZE

Quando una razza convenzionalmente delimitata viene a sovrapporsi all’incidenza di una certa malattia o, magari, anche solo di un’allergia o un’intolleranza, ecco che subito qualcuno è portato a stabilire una correlazione con la razza. Per fare ancora un esempio, prendiamo l’intolleranza al lattosio. Questa tipo di condizione va ricondotta alla carenza o alla mancanza della lattasi, un enzima presente in taluni soggetti solo nel periodo dell’allattamento). Tracciamo la mappa mondiale degli intolleranti. Otteniamo quanto illustrato nella prima figura sottostante.

Osservando la grafica, sembrerebbe a prima vista che la razza bianca sia meno intollerante delle altre. Tuttavia, la cosa è tutt’altro che chiara. Gli scandinavi sono i meno intolleranti di tutti; dobbiamo dunque ritenere che formino un’altra razza? Inoltre, nei meno intolleranti rientrano anche popolazioni nord-asiatiche e mongole. Possiamo anche ribaltare la questione: la mancanza dell’enzima lattasi dovrebbe forse farci ritenere che i sudamericani, i sudafricani, i cinesi e gli indiani costituiscano una razza a sé?

Non c’è dubbio che questi dati evidenzino dei raggruppamenti di caratteristiche fisiologiche sul globo tarracqueo. Tuttavia, non sembra però proprio il caso di sostenere che essi corrispondano a qualche tipo di delimitazione razziale. L’intolleranza (o la tolleranza) pare essere trasversale alle delimitazioni geografiche, al colore della pelle e ai tratti somatici. In verità, quello che otteniamo con le mappe geostatistiche dell’intolleranza al lattosio è semplicemente una distribuzione nelle popolazioni mondiali dei gradi d’intolleranza al lattosio, non una distribuzione delle razze.

In biologia evolutiva differenze o variazioni geografiche di questo tipo si chiamano clini. Abbiamo ricordato in precedenza che le variazioni clinali non identificano necessariamente delle razze distinte. Il fatto è che una razza, per potersi descrivere come tale, dovrebbe distinguersi per tutta una serie di caratteristiche biologiche concorrenti, non solo per un singolo aspetto (in questo caso metabolico). Inoltre, le diversità devono manifestarsi con una certa discontinuità da un gruppo all’altro.

Un discorso del tutto analogo può condursi, ad esempio, per i gruppi sanguigni. Non sussiste una sovrapposizione chiara tra la delimitazione di razze comunque delimitate e il tipo di fattore Rhesus. Le distribuzioni geografiche sono pure eterogenee. Si vedano a titolo di esempio le ultime tre cartine per i gruppi sanguigni O, A e B. In definitiva, non sono oggi conosciuti degli insiemi di clini che siano realmente indicativi per demarcare razze umane.


GLI ERRORI DELLA MEDICINA RAZZIALE

Gli stili di vita, l’alimentazione, le tradizioni, l’ambiente esterno, le possibilità d’incrocio influiscono sul modo in cui le caratteristiche ereditarie possono diffondersi o segregarsi. Questa dinamica attraversa facilmente i limiti di ciò che qualche antropologo del passato può aver (erroneamente) delimitato in termini di razza. Dunque, la demarcazione non è significativa nell’ambito medico-sanitari. Volendo fare dei raggruppamanti, più scientificamente informativi sono senz’altro le comunanze di tipo culturale, sociale, linguistico e geografico.

Il problema medico-sanitario che qui si delinea con l’accettazione del concetto di razza nell’ambito della specie umana è abbastanza evidente: si rischia la somministrazione di farmaci o l’indicazione di terapie non del tutto appropriate o addirittura controindicate. Con questo non si vuole affatto affermare che la medicina debba trattare tutti con lo stesso approccio clinico. Questo sarebbe un errore, dato che persone con assetti biologici differenti possono manifestare fisiologie diverse.

Non è un caso che la farmacogenomica stia facendo progressi (immagine simbolica qui sotto). I raggruppamenti etnici eseguiti con i succitati criteri culturali e gografici possono tuttavia dimostrarsi fuorvianti. In linea generale, l’azione di un farmaco dipende da come esso venga metabolizzato dall’organismo, ossia dipende dalla sua assimilazione, dalla sua distribuzione e dal processo biochimico che lo contraddistingue (farmacocinetica e farmacodinamica). Questi aspetti sono largamente influenzati dalle proteine in possesso dell’individuo e quindi dal Dna che reca le istruzioni per sintetizzarle.

A proposito della medicina che formula diagnosi, somministra farmaci e prescrive terapie in funzione dell’appartenenza razziale di un individuo umano, annetto qui sotto un video pubblicato da Ted. Consiglio vivamente al lettore quoriano di ritagliarsi qualche minuto per visionarlo (magari alla fine di questo post). A tenere la disserazione è Dorothy Roberts, difensore della giustizia sociale e studiosa di legge. La Roberts spiega come la medicina razziale sia sostanzialmente sbagliata e sia causa di una visione dell’umanità falsa e nociva.

Spesso le demarcazioni razziali in ambito sanitario non sono nemmeno di origine prettamente medica, bensì sono il risultato di convenienze commerciali. Abbiamo visto, ad esempio, che il mercato farmaceutico è diviso in aree geografiche, conducendo a segmentazioni razziali di comodo che possono risultare lucrative. Questa influenza più o meno sotterranea del marketing è spesso origine di un ingiusto e pericoloso divario sociale nella sanità, come accade negli Usa.

 
 

MIGRAZIONI E GENI

Si diceva prima che le razze dovrebbero delinearsi attraverso tipiche differenze biologiche. Abbiamo visto che queste non emergono in modo chiaro in medicina, poiché le statistiche, una volta che vengano ben interpretate, non pongono in risalto diversità particolari legate a presunte razze convenzionalmente delimitate, quanto piuttosto differenze dovute agli influssi ambientali-culturali. Lo stile di vita e l’ambiente sociale contribuiscono a plasmare l’identità biologica di un individuo. Quando si parla di tale identità il pensiero non può però non andare al genoma.

Come si accennava, sul Dna di ogni creatura della biosfera è codificata l’istruzione per la sintesi di proteine. Ad ogni gene corrispone una proteina. Le proteine costituiscono circa il 70% del peso secco (tolta l’acqua) di un umano e fanno quasi tutto nell’attività di sopravvivenza, essendo esse enzimi, ormoni, strutture, veicoli di risposta agli stimoli, controllori genetici, neurali, del metabolismo, etc. S’intuisce dunque che il modo in cui un organismo si interfaccia con l’ambiente è in larga parte il modo in cui lo fanno le proteine di cui è portatore. In questo modo il Dna è responsabile della fisiologia di un individuo collocato in un certo ambiente.

Il genoma riflette la storia degli incroci e delle selezioni ambientali che ha subito la nostra specie. Questa storia è stata ampiamente influenzata dalle nostre migrazioni. Il genere Homo è sempre stato composto da gruppi e popolazioni che hanno migrato alla ricerca di nuovi territori e nuove risorse. Questo è un tratto ancora oggi tipicamente umano, poichè le migrazioni hanno accompagnato ogni epoca storica e ogni cultura.

Le migrazioni possono oggi essere tracciate attraverso la genetica delle popolazioni. La prima cosa che emerge da questi studi e dai reperti fossili è che siamo tutti sostanzialmente africani; e lo siamo grosso modo in egual misura, a prescindere dal colore della pelle. La mappa sottostante mostra le migrazioni dell’uomo moderno da 65.000 a 15.000 anni fa, a partire da una regione vicina al corno d’Africa. Sono tracciati il flusso dei geni e i percorsi migratori.

Non si può escludere che in un lontano passato sia esistito qualche gruppo di umani, più isolato degli altri e vissuto a lungo in condizioni ambientali molto particolari, che abbia preso a divergere a un punto tale formare quello che si potrebbe intendere per razza. Se tali gruppi sono esistiti devono anche essersi estinti, giacché dagli studi genetici emerge che i nostri antenati sono piuttosto recenti e vengono tutti dall’Africa. Inoltre, in base agli studi sulle migrazioni, si evince che gli incroci tra gente proveniente da aree geografiche diverse sono stati davvero molteplici. Poca segregazione, dunque. Ciò ha concorso a omogeneizzare i caratteri genetici umani, per quanto questo non appaia manifestamente a livello somatico. Sono queste condizioni storiche che non favoriscono la comparsa di gruppi razziali.


RAZZA E GENOMA

La fisiologia dipende dunque dall’interazione tra Dna e ambiente, laddove per ambiente dobbiamo intendere alimentazione, aria, stile di vita, condizioni sociali e persino cultura. A questo punto il discorso si sposta manifestamente sul Dna: affinché il concetto di razza umana abbia un senso, è necessario che esso venga riflesso da differenze caratteristiche a carico del genoma. Si tratta dunque di esaminare le variazioni globali genetiche in seno all’umanità e di comprendere se queste si distribuiscano in modo tale da consentire delle segmentazioni o dei raggruppamenti significativi. Il genoma umano è stato sequenziato quasi due decenni fa, ormai. Confronti di questo genere sono oggi più affidabili e più facilmente eseguibili anche a livello popolazionale.

Prendiamo ad esempio il colore della pelle. Vale la pena dare un paio di ragguagli in merito, dato che esso viene spesso associato alla nozione di razza. Le regioni del Dna umano coinvolte nella pigmentazione sono diverse e quindi diversi sono i geni che presiedono al colore della pelle. La cosa interessante è che nell’ambito dell’Africa esiste una variabilità molto ampia di pigmentazioni stabilite dal genoma, da quelle più chiare, simili alle asiatiche, a quelle più scure. Inoltre, emerge dagli studi che i geni coinvolti nella pigmentazione sono presenti nel Dna umano addirittura da periodi precedenti la comparsa del genere Homo moderno. Nulla quindi che abbia a che fare con una segmentazione dell’umanità in presunte razze attuali (si veda qui per i dettagli: Loci associated with skin pigmentation identified in African populations).

Non dobbiamo in effetti dimenticare che l’intera umanità odierna deriva da qualche migliaio di individui africani, a loro volta differenziatisi sul ramo delle scimmie circa 5 milioni di anni fa, poi evolutisi e, come visto, anche irradiatisi attraverso migrazioni multiple a successive ondate sull’intero globo. Questa affinità evolutiva è attestata proprio dal Dna, a cominciare dai primati in generale. Si guardi a tal riguardo la fotto qui sotto. Per quanto possa sembrare incredibile, il bambino con gli occhi azzurri e il piccolo scimpanzé hanno quasi il 99% del Dna in comune (l’immagine si trova in un articolo illuminante sull’inesistenza delle razze umane pubblicato dal National Geographic: There’s No Scientific Basis for Race—It’s a Made-Up Label).

L’esempio dello scimpanzé e del bambino è indicativo, in quanto ci mostra che minime differenze sul Dna possono sortire grandi diversità fenotipiche, fino a stabilire specie differenti. Dopotutto, condividiamo il 70% del Dna persino con le farfalle. Il fenotipo è l’espressione dell’organismo complessivo, cioè la sua impronta biologica, così come essa si configura attraverso l’interazione delle caratteristiche ereditarie con l’ambiente.

Per converso, accade anche che grandi varianti genetiche producano pochi effetti somatici. Per esempio, l’altezza di un individuo dipende da molti geni. Ciascuna variante produce un effetto minimale sull’altezza dell’individuo, ma la loro interconnessione può sortire risultati marcati (si veda qua: Recovery of trait heritability from whole genome sequence data

). Insomma, la condizione è complessa perché i geni agiscono come un tutto che è più della somma delle sue parti. Si tratta evidentemente di un fattore aggiuntivo che complica ulteriormente la ricerca di presunte razze.


SIAMO TUTTI GENETICAMENTE MOLTO SIMILI

Le diversità fenotipiche stabilite dalle differenze nel Dna dipendono per misura e tipo anche da quali specifici geni vengano considerati. Abbiamo inoltre appena visto che i geni non agiscono in modo indipendente, ma sono spesso collegati gli uni agli altri. Durante l’embriogenesi, ad esempio, si assiste a una vera e propria gerarchia di controlli (geni “Homeobox” e “Hox”). Modificare una piccola porzione nella base del piano di costruzione embriogenetica può significare assistere a sviluppi successivi decisamente difformi e divergenti.

Se le somiglianze esteriori dipendono dal nostro giudizio, cioè dalla nostra attitudine di animali sociali a soffermarci su alcune diversità caratteristiche, come quelle dei volti, non altrettanto può dirsi invece per le differenze genetiche che costituiscono un riscontro oggettivo. In effetti, è sulla base del Dna che possiamo dire da dove vengano certi scimpanzé. Questi primati possono in effetti suddividersi in 4 razze distinte. La domanda che sorge spontanea è a questo punto la seguente: se uno scimpanzé e un umano sono così simili, quanto simili possono essere tra loro gli umani? Possiamo riconoscere dal Dna umano da dove provengano certi umani, così come facciamo quando individuiamo la razza di uno scimpanzé?

Grazie alle tecniche moderne, screening popolazionali sul Dna umano sono stati ampiamante condotti a termine. Oggi disponiamo di una base dati sufficientemente estesa per formulare dei responsi a proposito della distribuzione dei geni. Ebbene, risulta che in media ciascuno di noi ha in comune con qualunque sconosciuto sulla Terra il 99,9% del Dna. In altre parole, la nostra specie è molto uniforme in senso genetico. Questo significa che le diversità nelle nostre complessioni dipendono da differenze minimali nel genoma.

Tutto ciò non toglie che le combinazioni che possono emergere dal Dna di due umani che si accoppiano sono circa 70 miliardi (La prima mappa in HD del genoma umano – Scienza & Tecnica). Ciò non toglie nemmeno che si possano tracciare i Dna e scoprire eventuali provenienze geografiche. La cartina qui sotto ne è un esempio. Essa mostra che gli italiani non esistono come unità genetica, ma solo come unità linguistico-culturale (la cartina è costruita in base a: Uniparental Markers in Italy Reveal a Sex-Biased Genetic Structure and Different Historical Strata

).


SIAMO ANCHE GENETICAMENTE UNIFORMI

Veniamo ora a un aspetto che abbiamo lasciato in sospeso dall’inizio. La circostanza che gli esseri umani siano tutti quanti molto simili in termini di assortimento genetico ancora non significa che non possano esistere segmentazioni significative della popolazione umana, ossia delle razze. Infatti, conta anche come le diversità nel genoma, grandi o piccole che siano, risultino distribuite nella specie. In sostanza, conta anche il livello di uniformità nell’assortimento genetico.

Chiariamo meglio. Gli umani condividono il 99,9% dei geni, quindi la variabilità che li riguarda sull’intero pianeta vale in media 0,1% (uno per mille). Tali differenze potrebbero distribuirsi a blocchi relativamente uniformi, formando quindi degli insiemi circoscritti di umani che condividono taluni tratti ereditari. In tal caso, avremmo una segmentazione della specie in razze molto simili, ma pur sempre demarcate da quei tratti ereditari segregati a gruppi.

Perché questa condizione si verifichi e venga mantenuta nel tempo, occorre che quei geni non vengano troppo dispersi al di fuori dei gruppi, cioè che continuino a essere coinvolti insieme negli accoppiamenti, marcando diversità ereditarie nette tra i gruppi, ancorché piccole. Questo succede tipicamente se gli incroci hanno caratteristiche regionali. In tal caso avremmo delle razze distribuite sulla Terra in zone geografiche piuttosto delimitate.

A questo punto dobbiamo dunque interrogarci sulla distribuzione di quello 0,1% di differenze genetiche medie tra gli umani. Dobbiamo cioè capire se quell’aliquota è segmentata oppure distribuita uniformemente tra gli umani. Ebbene, vale la seconda risposta. Quell’uno per mille di diversità è distribuito senza salti sull’intera popolazione mondiale. Questo sta a significare che gli abitanti di una regione italiana, ad esempio l’Umbria, saranno in media più simili tra loro di quanto ciascuno di loro non lo sia rispetto agli abitanti di una zona scandinava o sudamericana. Tuttavia, umbri, scandinavi e sudamericani condivideranno molti geni che fanno parte di quell’uno per mille.

Quanto esposto è come asserire che qualunque gruppo di umani, ovunque residente e comunque delimitato, manifesta una variabilità genetica abbastanza simile alla variabilità presente nell’intera umanità. Per essere ancora più chiari, non sussistono le basi genetiche per poter segmentare la specie umana in razze. Le differenze genetiche all’interno del gruppo dei neri africani sono all’incirca uguali alle differenze tra i cinesi o tra gli statunitensi. Ma il punto cruciale, per restare sull’esempio, è che le differenze genetiche medie all’interno dei neri africani o dei cinesi sono maggiori della differenza media tra il gruppo dei neri africani e quello dei cinesi. Tutto questo, ricordiamolo, indipendentemente da quanto le nostre inclinazioni a riconoscere e delimitare certe complessioni ci possano far pensare a gruppi umani chiaramenti delimitati.

La figura qui sotto restituisce la questione genetica in forma intuitiva. La partre superiore (A) raffigura l’idea delle cinque razze sopra descritte (approccio cooniano). Si osserva che le differenze all’interno di ciascun gruppo sono molto meno marcate delle differenze tra i gruppi. Questa non è la condizione che si verifica nella realtà. La porzione inferiore (B) riflette invece la realtà dei fatti. Gli umani possono essere raggruppati con qualche difficoltà in svariatissimi gruppi regionali. Tuttavia, le diversità medie tra i vari cluster non sono pronunciate e sfumano spazio. Viceversa, le differenze all’interno di ogni cluster sono piuttosto pronunciate, senza che si possa identificare un’identità rappresentativa.

 

 

Grandioso il post originale di Roberto Weitnauer da rileggere QUI

 

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