Immortalità provata. Da Mac lo sono i panini.

Immortalità provata. Da Mac lo sono i panini.

 

La fotografa Sally Davies ha deciso di verificare con mano se è vero che i panini McD sono per così dire “immortali”.
Per questo motivo sabato 10 aprile 2010 si è recata al McDonald’s più vicino e ha ordinato un bel Happy Meal, il panino dedicato ai bambini.
Senza mangiarlo, l’ha messo sopra un piatto e ha atteso, fotografandolo ogni giorno, con pazienza la sua decomposizione…
Purtroppo per lei, ad oggi, dopo 3 anni e 3 mesi circa, sta ancora attendendo!
In un qualsiasi prodotto alimentare, la decomposizione è un processo normalissimo: decomposizione, fermentazione e putrefazione.
Un panino che dopo oltre 3 anni è ancora quasi immacolato, indica solo una cosa: non appartiene al Regno della Natura. Perfino i batteri, che rappresentano gli spazzini della natura, e le muffe ci stanno lontani.
Additivi, conservanti, aromi e chissà quante altre sostanze chimiche di sintesi sono state usate per sfornare un delizioso panino dedicato ai bambini, un panino che fa impallidire le più avanzate tecniche usate dai mummificatori egiziani….

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Sito ufficiale della fotografa  QUI

 

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Il veleno nel piatto. I rischi mortali nascosti in quello che mangiamo

Il veleno nel piatto.

I rischi mortali nascosti in quello che mangiamo

tratto dal libro “Il veleno nel piatto” di Marie Monique Robin, ed. Feltrinelli

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Non era mai successo prima.
Nella lunghissima storia plurimillenaria l’uomo è sempre stato immerso nella natura cercando con tutti i limiti del caso, di rispettarne il ruolo basilare per la vita stessa.
Oggi invece, ci siamo così allontanati dalla Natura che viviamo completamente immersi nella chimica di sintesi, cioè nell’anti-natura per antonomasia.
Nel giro di poco più di un secolo, oltre 105.000 sostanze chimiche diverse sono state immesse nell’ambiente dalle industrie. Moltissime di queste sono cancerogene, creano malformazioni nei feti e danni al DNA.
Le respiriamo, beviamo, mangiamo ogni giorno, e come se non bastasse, ce le fumiamo e spalmiamo sulla pelle.

Qual è il risultato di questa pazzia?
Crescita esponenziale di tutte le patologie cronico-degenenerative, tumorali e autoimmunitarie.
La spesa sanitaria nazionale, cioè il mercato dei farmaci, cresce ogni anno a vista d’occhio: nel 2011 ha raggiunto la ragguardevole cifra di 26,3 miliardi di euro (1), oltre 50.000 miliardi delle vecchie lire. Ogni cittadino italiano quindi, spende all’anno di media, 434 euro, per avvelenarsi.

Idem per i tumori: nel 2011 nel nostro paese sono stati diagnosticati 360.000 nuovi casi di tumori maligni, cioè 1000 nuovi tumori al giorno (2), senza contare quelli epiteliali.
Escludendo infatti questi ultimi, il tumore più frequente tra uomo e donna, risulta essere quello del colon-retto con quasi 50.000 nuove diagnosi all’anno.
Pelle e intestino, sono gli organi più colpiti dal tumore.
La pelle è il primo organo a diretto contatto con l’ambiente esterno e quindi con i veleni del mondo; il colon-retto è l’organo che accumula e dovrebbe espellere verso il mondo esterno, i veleni e le tossine autoprodotte con il nostro stile di vita.

Secondo l’ISTAT, i decessi per tumore nel 2007 sono stati 172.000 (il 30%) degli oltre 572.000 decessi totali verificatisi quell’anno.
I morti per cause cardiovascolari sono stati invece 223.000 (il 39%).
Questi dati confermerebbero che la prima causa di morte sono i problemi cardiocircolatori.
Ma non è così.
Quando una persona, magari di una certa età, muore in ospedale, si certifica il decesso per arresto cardiocircolatorio e/o cardiorespiratorio, e questo fa gonfiare le statistiche.
Se teniamo conto di questo artifizio matematico, oggi il cancro è la prima causa di morte almeno nel mondo occidentale!
E’ chiaro come la luce del sole che la chimica in tutto questo gioca un ruolo fondamentale.

Diossine nel piatto
Nel 2006 è stata eseguita un’analisi chimica su campioni di alimenti, provenienti da Gran Bretagna, Polonia, Svezia, Italia, Spagna, Grecia e Finlandia, ha rinvenuto in tutti i prodotti – chi più, chi meno – inquinanti vecchi e nuovi, comprese sostanze chimiche di tipo persistente e bioaccumulabile come il DDT e i PCB banditi da decenni perché riconosciuti cancerogeni.
La ricerca, durata 10 anni, ha preso in esame 27 campioni di alimenti (tra cui latte, carne, pesce, pane, olio d’oliva e succhi d’arancia), di marche comuni e presenti normalmente nei supermercati e ha riscontrato la presenza di ben 119 contaminanti, tra cui le cancerogene diossine.
Questa è solo una delle tante indagini che dimostrano, dati alla mano, come oggi, grazie alla mortifera industrializzazione della vita, mangiamo chili di sostanze chimiche deleterie e cancerogene ogni anno.

Storia dei pesticidi
I pesticidi sono i soli prodotti chimici concepiti dall’uomo e intenzionalmente liberati nell’ambiente per uccidere o danneggiare altri organismi viventi.
Tutta la grande famiglia dei pesticidi, è identificabile dal suffisso “cida” (erbicida, fungicida, ecc.), che deriva dal latino cœdere, che significa “uccidere” o “abbattere”.
Quindi pesticidi, secondo l’etimologia sono dei sterminatori di “pesti” (dall’inglese pest: animale, insetto o pianta nociva e dal latino pestis che indica un flagello o una malattia contagiosa).
Ecco perché nel mondo industriale, si evita accuratamente di parlare di pesticidi, preferendo la dicitura prodotti fitosanitari, o l’ancor più edulcorato, prodotti fitofarmaceutici.
Sostituire il termine corretto e reale pesticidi con fitofarmaceutico non è solo un gioco di prestigio semantico che rassicura tutti, ma mira proprio ad ingannare prima i coltivatori e poi noi consumatori.

L’impiego di pesticidi risale all’antichità, ma fino al Ventesimo secolo gli sterminatori di pesti, erano derivati di composti minerali o vegetali, di origine naturale (piombo, zolfo, tabacco o foglie di neem). Oggi invece usiamo derivati cancerogeni del petrolio…
I pesticidi conobbero un primo balzo in avanti grazie alla chimica inorganica del XIX secolo, ma bisognerà attendere la Grande Guerra perché siano gettate le basi della loro produzione di massa, e questo grazie allo sviluppo della chimica organica e della ricerca sui gas bellici.

Pesticidi, chemio e guerra chimica hanno un unico padre: Fritz Haber
L’origine storica dei pesticidi e dei chemioterapici, è intimamente legata alla guerra chimica, la cui paternità è attribuibile al chimico tedesco Fritz Haber, i cui lavori sul processo di fissazione dell’azoto atmosferico, serviranno per la produzione dei famosissimi concimi chimici azotati, ma anche degli esplosivi.
Allo scoppio della Guerra, Haber è alla direzione del prestigioso Kaiser Wilhelm Institute a Berlino, e il suo laboratorio viene sollecitato a partecipare allo sforzo bellico. La sua missione sarà quella di sviluppare gas irritanti per stanare dalle trincee i soldati nemici, e questo alla faccia della Dichiarazione dell’Aia del 1899 che vieta l’uso di armi chimiche.

Tra tutti i gas studiati uno solo emerge per caratteristiche utili allo scopo: il cloro.
Il cloro è un gas gialloverde (da cui il nome greco chloros che significa appunto verde chiaro), estremamente tossico, caratterizzato da un odore soffocante che penetra violentemente le vie respiratorie.

Il 22 aprile 1915 l’esercito tedesco scarica 146 tonnellate di gas di cloro (detto dicloro o diossido di cloro) a Ypres in Belgio: le truppe francesi, britanniche e canadesi, prese alla sprovvista caddero come mosche, cercando di proteggersi le vie aeree con banali fazzoletti.
Fritz Haber pagherà molto cara questa vittoria, perché qualche giorno dopo aver usato il gas, la moglie Clara Immerwahr, chimico pure lei, si suicida con un colpo di pistola direttamente nel cuore, usando l’arma di servizio del marito, promosso al grado di capitano.
Ma come si sa: business is business, e il lavoro è lavoro, per cui Haber continua nella sua ricerca come se niente fosse successo.

Per gli Alleati, che nel frattempo si erano dotati di maschere antigas, il cloro non fu più un problema, per cui Haber mise a punto il fosgene, costituto da una miscela di dicloro e monossido di carbonio. Meno irritante per naso e gola del cloro stesso, ma rappresenta la più letale arma chimica preparata a Berlino, poiché attacca violentemente i polmoni riempiendoli di acido cloridrico.
Questa arma chimica, il fosgene, continua ad essere largamente utilizzato come composto dei pesticidi, ed è uno dei componenti del sevin, l’insetticida all’origine della catastrofe ambientale e umanitaria di Bhopal nel dicembre 1984.

Verso al fine della Guerra, quando le vittime dei gas si contano a decine di migliaia, il Nostro lancia l’ultimo ritrovato, il gas mostarda, detto anche iprite, che prende il nome dalla località in cui è stato sperimentato, come il gas cloro: le trincee di Ypres in Belgio.
Gli effetti del gas mostarda sono terribili: provoca vastissime vesciche sulla pelle, brucia la cornea causando cecità permanente e attacca il midollo osseo inducendo la leucemia. Proprio la distruzione del midollo, darà lo spunto di partenza alla grande ricerca medica per sviluppare il prodotto principe dell’oncologia: la chemioterapia.

I lavori di Fritz Haber, dopo l’armistizio, gli costarono l’iscrizione nella lista dei criminali di guerra e per questo si rifugiò in Svizzera fino a quando nel 1920 ricevette addirittura il Premio Nobel per la chimica.
L’ironia della sorte è che Fritz Haber era ebreo, ed è stato pure l’inventore del Zyclon-B, il gas usato nei campi di concentramento. Muore il 29 gennaio 1934 e non saprà mai che una parte della sua famiglia morirà asfissiata dal gas che lui stesso ha inventato.

La legge di Haber
Mentre sviluppava queste terribili armi, si dedicava anche a confrontare la tossicità dei gas formulando una legge che permettesse di valutarne l’efficacia, ossia la loro potenza letale.
Questa legge, usata ancor oggi, ha preso il suo nome: “legge di Haber”, ed esprime la relazione tra la concentrazione di un gas e il tempo di esposizione necessario a provocare la morte di un essere vivente.
La “legge Haber”, ha anche ispirato direttamente la creazione di uno degli strumenti più crudeli, dal punto di vista morale, e più assurdi da quello scientifico, per la valutazione e la gestione dei rischi chimici: la “Dose Letale-50” o semplicemente DL-50.
Questo paradossale indicatore di tossicità, misura la dose di sostanza chimica necessaria per sterminare la metà degli animali usati nei laboratori.

Organoclorati e il DDT
I lavori del chimico tedesco spianarono la strada alla produzione industriale degli insetticidi di sintesi, il più celebre dei quali è il DDT (diclorodifeniltricloroetano) che fa parte della famiglia degli organoclorati.
Gli organoclorati, sono composti chimici in cui uno o più atomi di idrogeno sono stati sostituiti da atomi di cloro, formando una struttura stabile.
Sintetizzato nel 1874 dal chimico austriaco Othmar Zeidler il DDT è rimasto a dormire in un cassetto fino al 1939 quando il chimico svizzero Paul Muller, stipendiato dalla Geigy (oggi Syngenta) individua le sue proprietà insetticide. A tempo di record, nove anni dopo, per questa grande scoperta ricevette il Premio Nobel per la medicina.
All’indomani della Seconda guerra mondiale il DDT è celebre in tutto il globo come l’insetticida miracoloso. Questo sarà la manna per l’industria chimica, in testa Monsanto e Dow Chemical che dal 1950 al 1980 riverseranno nel mondo 40.000 tonnellate. Solo nel 1963 la produzione tocca le 82.000 tonnellate.
Prima del suo divieto, avvenuto nel 1972, gli USA saranno irrorati con 675.000 tonnellate di DDT.
Nonostante sia classificato dall’OMS come “moderatamente pericoloso” i suoi effetti a lungo termine sono disastrosi: perturbatore endocrino, tumori, malformazioni congenite, disturbi della riproduzione, ecc.

Organofosforati
Una seconda categoria di insetticidi fa la sua comparsa dopo la Seconda Guerra Mondiale: gli organofosforati, il cui sviluppo è legato sempre alla ricerca militare di nuovi gas bellici.
Queste molecole sono concepite per attaccare il sistema nervoso degli insetti e presentano una tossicità molto più elevata degli organoclorati. In questa pericolosissima famiglia troviamo: parathion, malathion, diclorvos, clorpirifos, sevin e il sarin (gas sviluppato nei laboratori della nazista IG Farben, oggi considerato dalle Nazioni Unite “arma di distruzione di massa”).

Agli inizi degli anni Quaranta, i ricercatori isolano l’ormone che controlla la crescita delle piante, riproducendone sinteticamente la molecola. Constatano che iniettando l’ormone in piccole dosi, si stimola la crescita delle piante, mentre in dosi massicce, provoca la morte della pianta.
Così creano due diserbanti che danno il via ad una vera e propria “rivoluzione agraria”. Si tratta dell’acido 2,4-diclorofenossiacetico (2,4-D) e il 2,4,5-triclorofenossiacetico (2,4,5-D), due molecole che fanno parte dei clorofenoli.
Per comprenderne la pericolosità, è bene sapere che una miscela dei due, origina il tristemente noto “agente arancio”, il defoliante usato dall’esercito americano nella Guerra in Vietnam. Dal 13 gennaio 1962 al 1971 sono stati sganciati qualcosa come 80 milioni di litri di defolianti.

Oggi in Europa come siamo messi?
Ogni anno vengono sparse nell’ambiente 220.000 tonnellate di pesticidi: 108.000 tonnellate di fungicidi, 84.000 tonnellate di erbicidi e 21.000 tonnellate di insetticidi. Se ci aggiungiamo le 7000 tonnellate di “regolatori della crescita” questo equivale a mezzo chilo di sostanze attive per ogni cittadino europeo.
L’80% delle sostanze irrorate riguarda solo quattro tipi di colture, che però rappresentano il 40% delle superfici coltivate: i cereali a paglia, il mais, la colza e la vite (uno dei prodotti dove si usa più chimica)

Cosa provoca nella salute umana tutta questa chimica?
Dipende ovviamente dall’esposizione e dal tempo di esposizione.
I più colpiti ovviamente sono le popolazioni agricole, soprattutto i coltivatori che maneggiano queste sostanze, senza una corretta protezione; poi veniamo noi consumatori.
I disturbi osservati riguardano prevalentemente le mucose e l’epidermide, con irritazioni, ustioni, prurito o eczemi; l’apparato digerente; sistema nervoso; malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson o le miopatie, alcuni tipi di cancro (cervello, pancreas, prostata, pelle e polmone) e quelli del sangue; leucemie, linfomi non Hodgkin.
Questo tipo di linfoma, secondo l’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Bethesda (USA), in 18 dei 20 studi esaminati è associato agli erbicidi a base di acido fenossiacetico, i pesticidi organoclorati e organofosforici.
Altri risultati, questa volta dell’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Rockville, indicano per i clorofenoli una supermortalità per quattro tipi di cancro: linfoma NH, tumore al cervello, alla prostata e all’intestino.
Una trentina di studi epidemiologici hanno esplorato il rischio di tumore al cervello tra gli agricoltori e la maggioranza evidenzia un aumento del rischio del 30%. Il tumore al cervello è in crescita esponenziale, soprattutto a livello pediatrico, cosa questa inconcepibile solo qualche decennio fa.

Il Gaucho e le api
Prodotto a base di imidaclopride ideato dalla Bayer ha fatto “miliardi di vittime”.
Si tratta di un insetticida sistemico che viene applicato sulle sementi e penetra nella pianta attraverso la linfa avvelenando i parassiti della barbabietola, del girasole o del mais. Ma purtroppo avvelena anche gli insetti pungitori-succhiatori come le api. Si stima che tra il 1966 e il 2000 solo in Francia siano spariti letteralmente 450.000 alverari.

Dove finiscono i pesticidi?
Secondo David Pimentel, professore di Agricoltura e scienze della vita alla Cornell University: “meno dello 0,1% dei pesticidi applicati per il controllo degli agenti nocivi raggiunge il bersaglio. Più del 99,9% dei pesticidi migra nell’ambiente, e qui aggredisce la salute pubblica, contaminando il suolo, l’acqua, l’atmosfera dell’ecosistema”.
Nel corso della stagione il ruscellamento porta via in media il 2% di un pesticida applicato al suolo, raramente più del 5% o 10%…
In compenso si sono osservate perdite per volatilizzazione tra l’80-90% del prodotto applicato, alcuni giorni dopo il trattamento. Con i trattamenti aerei può essere portato via dal vento fino alla metà del prodotto.
In conclusione la stragrande maggioranza di questa chimica mortifera torna nell’ambiente e va ad inquinare pericolosamente il suolo, l’aria e l’acqua, entrando di conseguenza nella catena alimentare umana, minando la salute pubblica.

Cancro: malattia della civiltà
L’adozione della parola “cancro” è attribuita a Ippocrate, che osservando le ramificazioni che caratterizzano i tumori ne associò la forma a quella di un granchio (karkinos in greco).
La parola karkinos è stata presa a prestito nel latino dal medico romano Celso all’inizio della nostra era.
E’ al medico italiano Bernardino Ramazzini che si deve il primo studio sistematico sul rapporto tra cancro ed esposizione a inquinanti o a sostanze tossiche. Nel 1700 questo professore di medicina dell’Università di Padova pubblica il De morbis artificium diatriba (sulle malattie dei lavoratori e per questo considerato il padre della medicina del lavoro), opera in cui presenta una trentina di corporazioni esposte allo sviluppo di malattie professionali, i particolare al tumore al polmone. Sono a rischio tutti coloro che lavorano a contatto con il carbone, piombo, arsenico, o metalli, come i vetrai, pittori, doratori,vasai, conciatori, tessitori, chimici, speziali, ecc.

Aumento delle malattie croniche e invecchiamento
Ovviamente per le industrie l’aumento di tutte le patologie, in primis il cancro, non è dovuto alla chimica che loro stessi producono e spargono nel pianeta.
Un argomento regolarmente avanzato per spiegare l’aumento delle malattie croniche è l’invecchiamento della popolazione.
Certamente l’aspettativa di vita è cresciuta e quindi ci saranno più anziani che possono ammalarsi di cancro, ma quello che bisogna esaminare è l’evoluzione del tasso di incidenza dei casi di cancro o di malattie neurodegenerative nelle varie fasce di età.
E qui constatiamo che il tasso di incidenza di certi tumori è raddoppiato tra le persone di più si 65 anni.

L’invecchiamento della popolazione non spiega perché negli USA il numero delle donne e uomini che soffrono di tumore al cervello è 5 volte maggiore che in Giappone. Senza parlare dei tumori infantili, il cui aumento non può certo dipendere dall’allungamento dell’aspettativa di vita!
L’aumento dell’incidenza del cancro si riscontra in tutte le fasce di età, soprattutto nelle più giovani, quindi non c’entra assolutamente nulla l’invecchiamento della popolazione!
Per esempio, tra una donna nata nel 1953 e una nata nel 1913, il rischio di cancro al seno si è moltiplicato quasi per 3, mentre il rischio di cancro al polmone si è moltiplicato per 5.
Tra un uomo nato nel 1953 e uno nato nel 1913, il rischio di cancro alla prostata si è moltiplicato per 12, mentre il rischio di cancro al polmone è rimasto uguale.

L’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC) con sede a Lione, ha analizzato 63 registri europei del cancro, e il risultato è che nel corso dell’ultimo trentennio, la crescita annua dell’incidenza è stata dell’1% per la fascia di età da 0 a 14 anni e dell’1,5% per gli adolescenti (15-19 anni).
Il fenomeno si aggrava di decennio in decennio.
Per i bambini il tasso aumenta dello 0,9% dal 1970 al 1980, ma del 1,3% tra il 1980 e il 1990.
Per gli adolescenti la crescita è dell’1,3% tra il 1970 e il 1980 e del’1,8% tra il 1980 e 1990.

Secondo il voluminoso rapporto di 889 pagine intitolato Cancers et Environnement, tenendo conto dei mutamenti demografici, e cioè aumento e invecchiamento della popolazione francese, l’aumento dei tassi di incidenza dal 1980 è stimato a +35% negli uomini e +43% nelle donne!
Questa è la triste realtà. Nonostante i grandi e molto ben prezzolati esperti che in televisione continuano ad evangelizzare il gregge ripetendo che i tumori sono in diminuzione, e questo ovviamente grazie alla medicina e soprattutto agli screening di massa, la realtà è ben diversa: negli ultimi trent’anni i tumori sono costantemente aumentati!
Per essere ancora più precisi, 9 sono i tumori la cui incidenza NON ha cessato di crescere nel corso degli ultimi 25 anni: il cancro ai polmoni, mesoteliomi, emopatie maligne, tumori cerebrali, cancro al seno, alle ovaie, ai testicoli, alla prostata e alla tiroide.

Cancro e stile di vita
Secondo il nostri calcoli – dice il direttore dello IARC, il dottor Christopher P. Wild – tra l’80 e il 90% dei tumori sono legati all’ambiente e allo stile di vita”.
Questo è ciò che risulta dagli studi sulle persone che migrano da una regione del mondo a un’altra: dove l’esposizione agli inquinanti chimici e lo stile di vita variano, i soggetti adottano per così dire il modello cancerogeno delle regioni in cui si stabiliscono. Non è il loro patrimonio genetico a cambiare, ma il loro ambiente, quindi si potrebbe parlare di epigenetica.
Il risultato indica che l’ambiente svolge una funzione primaria nelle cause del cancro!
Non ci sono ormai più dubbi che la chimica sta lentamente avvelenando la Natura e noi stessi.

Chi controlla la chimica e farmaceutica?
A livello mondiale i giganti che controllano il settore della chimica e agrosementiera (Big Agro) sono: Basf Agro SAS, Bayer CropScience, Dow AgroScience, DuPont, Monsanto e Syngenta.
Big Pharma oggi è rappresentata da Pfizer, Glaxo Smith Kline, Johnson & Johnson, Merck, Novartis, Astra Zeneca, Roche, Bristol-Myers Squibb, Wyeth (Pfizer), Abbott Labs.
Con il termine Big Pharma s’intendono le prime 10 corporazioni della chimica e farmaceutica, cioè le industrie che a livello mondiale controllano la produzione e vendita di veleni legali: farmaci, vaccini e droghe.

Quello che non tutti sanno è che Big Pharma e Big Agro sono tra loro interconnesse e gestite dalle medesime figure, dai medesimi banchieri internazionali….
Da una parte ci avvelenano lentamente con la chimica di sintesi, predisponendoci a tutte le malattie possibili e immaginabili, e dall’altra ci curano sempre con la chimica di sintesi…
Follia? No, il risultato è che siamo sempre più ammalati rispetto al passato e non moriamo più di vecchiaia, ma per patologie degenerative e tumorali.
In tutto questo folle (per noi, ma non per loro) sistema, le industrie guadagnano migliaia di miliardi di dollari.
Non c’è alcun interesse da parte delle industrie, degli enti sovranazionali di controllo e salvaguardia della salute (FDA, EMEA, EFSA, OMS, ecc.), e ovviamente dei politici (beceri e squallidi camerieri dei banchieri), a cambiare l’attuale tendenza.
Dobbiamo essere noi i fautori del cambiamento, e questo è un dovere morale nei confronti dei bambini, di noi stessi e della Natura in genere.

Tratto dal libro: “Il veleno nel piatto: i rischi mortali nascosti in quello che mangiamo”, di Marie Monique Robin, ed. Feltrinelli

[1] Rapporto nazionale anno 2011 – L’uso dei farmaci in Italia – Rapporto Osmed.
[2] “I numeri del cancro in Italia 2011”, AIOM, Associazione italiana di oncologia medica e AIURTUM, Associazione italiana registri tumori

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VIVA LA COSTITUZIONE

VIVA LA COSTITUZIONE

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Si chiede la mobilitazione di tutti i cittadini per evitare l’ultimo disastro.

FIRMATE LA PETIZIONE SU ILFATTOQUOTIDIANO

Queste le parole di Ingroia:

LA MODIFICA del 138, dimezzando fra l’altro i
tempi fra le due votazioni (45 giorni anziché tre
mesi) e istituendo un comitato parlamentare che
porrà mano alla riforma delle strutture portanti
della nostra organizzazione costituzionale scardinerebbe
la cassaforte costituzionale. E il 29 luglio
si aprirà dunque una breccia che, dopo l’appro –
vazione definitiva in seconda votazione entro fine
ottobre, e senza referendum confermativo in vista
di una maggioranza “bulgara” di ben oltre i 2/3 dei
parlamentari, consentirà una slavina di modifiche
che cambierà il volto della nostra Costituzione e
della nostra Repubblica. Una Repubblica non più
parlamentare, ma presidenziale. Una svolta autoritaria
che determinerà la neutralizzazione di ogni
potere di controllo (magistratura e Parlamento, in
primis) in favore della teoria di “un uomo solo al
comando”. Così finendo per attuare il progetto
principe di Berlusconi che, a sua volta, ha cercato
di portare a termine un vecchio pallino di Licio
Gelli (il cui progetto tutti concordano nel definire
eversivo e golpista). Ma quel che è più inaccettabile
è che tutto ciò debba avvenire a totale insaputa
degli italiani. Ecco perché alcuni cittadini,
giuristi, costituzionalisti e rappresentanti di associazioni
hanno deciso di prendere l’iniziativa: rivolgersi
ai parlamentari democratici perché consentano
ai cittadini di partecipare al processo decisionale,
esprimendo le loro opzioni in un referendum
confermativo. E perciò chiediamo ai parlamentari
di far mancare la maggioranza dei 2/3, la
sola che renderebbe superfluo il referendum. Ma
per far ascoltare questo appello non basta la voce
dei pochi che si sono resi conto dell’emergenza
costituzionale in cui siamo, ignara la stragrande
maggioranza degli italiani. Occorre che si sollevi
una voce alta, forte, popolare. Per questo si stanno
costituendo in tutta Italia i comitati “Viva la Costituzione”,
che in coordinamento con le altre associazioni,
movimenti e comitati sorti in questi
anni a difesa della Carta, da domani inizieranno a
raccogliere le firme dei cittadini che vorranno
aderire all’appello. Un appello per la democrazia.
Un appello per la partecipazione dei cittadini al
dibattito sulla decisione se e come cambiare la Costituzione.
Un appello per rivendicare il diritto alla
cittadinanza attiva. Per ribellarci alla solita politica
sorda e distante che ci vuole condannare alla
sudditanza obbediente e silenziosa.

Da Il Fatto Quotidiano , dove è possibile firmare la petizione

Pubblichiamo l’appello contro il ddl di riforma costituzionale firmato da Alessandro Pace, Alberto Lucarelli, Paolo Maddalena, Gianni Ferrara, Cesare Salvi, Massimo Villone, Silvio Gambino, Antonio Ingroia, Antonello Falomi, Domenico Gallo, Raffaele D’Agata , Raniero La Valle, Beppe Giulietti e Mario Serio

Ignorando il risultato del referendum popolare del 2006 che bocciò a grande maggioranza la proposta di mettere tutto il potere nelle mani di un “premier assoluto”, è ripartito un nuovo e ancor più pericoloso tentativo di stravolgere in senso presidenzialista la nostra forma di governo, posponendo a questa la indilazionabile modifica dell’attuale legge elettorale. In fretta e furia e nel pressoché unanime silenzio dei grandi mezzi d’informazione la Camera ha iniziato a esaminare il disegno di legge governativo, già approvato dal Senato, di revisione della Costituzione in plateale violazione della disciplina prevista dall’articolo 138, che costituisce la “valvola di sicurezza” pensata dai nostri Padri costituenti per impedire stravolgimenti della Costituzione. CI APPELLIAMO a voi che avete il potere di decidere, perché il processo di revisione costituzionale in atto sia riportato nei binari della legalità costituzionale. Chiediamo che l’iter di discussione del disegno di legge costituzionale presentato dal governo Letta segua tempi e modi rispettosi del dettato costituzionale (…). Chiudere, a ridosso delle ferie estive, la prima lettura del disegno di legge, contrastando con le finalità dell’ar – ticolo 138 della Costituzione, impedisce un vero e serio coinvolgimento dell’opinione pubblica nel dibattito. In secondo luogo vi chiediamo di restituire al Parlamento e ai parlamentari il ruolo loro spettante nel processo di revisione della nostra Carta. L’aver abbandonato la procedura normale di esame esplicitamente prevista dall’articolo 72 della Costituzione per l’esame delle leggi costituzionali, l’aver attribuito al governo un potere emendativo privilegiato, la proibizione di porre le questioni pregiudiziali, sospensive o di non passaggio agli articoli, l’im – possibilità per i singoli parlamentari di sub-emendare le proposte del governo o del comitato, la proibizione per i parlamentari in dissenso con i propri gruppi di presentare propri emendamenti, le deroghe previste ai regolamenti di Camera e Senato, costituiscono altrettante scelte che umiliano e comprimono l’autonomia e la libertà dei parlamentari e quindi il ruolo e la funzione del Parlamento. Le conseguenze di tali scelte si riveleranno in tutta la loro gravità allorché, una volta approvato questo disegno di legge, l’istituendo comitato per le riforme costituzionali porrà mano alla riforma delle strutture portanti della nostra organizzazione costituzionale (dal Parlamento al presidente della Repubblica, dal governo alle Regioni) sulla base delle norme che oggi la Camera sta approvando in flagrante violazione dell’art. 138. (…) Vi chiediamo ancora che le singole leggi costituzionali, omogenee nel loro contenuto, indichino con precisione le parti della Costituzione sottoposte a revisione. (…) Non si tratta, in definitiva, di un intervento di “manutenzione” ma di una riscrittura radicale della nostra Carta non consentita dalla Costituzione, che apre ampi spazi all’arbitrio delle contingenti maggioranze parlamentari. CHIEDIAMO, infine, che nell’esprimere il vostro voto in seconda lettura del provvedimento di modifica dell’articolo 138, consideriate che la maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti le Camere per evitare il referendum confermativo, in ragione di una legge elettorale che distorce gravemente e incostituzionalmente la rappresentanza popolare, non coincide con la realtà politica del corpo elettorale del nostro Paese. Rispettare questa realtà, vuol dire esprimere in Parlamento un voto che consenta l’indizione di un referendum confermativo sulla revisione dell’articolo 138. È in gioco il futuro della nostra democrazia. Assumetevi la responsabilità di garantirlo.

 

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La Teoria Keynesiana John Maynard Keynes

La Teoria Keynesiana

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John Maynard Keynes

è stato un economista britannico, padre della macroeconomia e considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo. I suoi contributi alla teoria economica hanno dato origine a quella che è stata definita “rivoluzione keynesiana”. In contrasto con la teoria economica neoclassica, ha sostenuto la necessità dell’intervento pubblico statale nell’economia con misure di politica di bilancio e monetaria, qualora una insufficiente domanda aggregata non riesca a garantire la piena occupazione. Ecco in PDF la teoria keynesiana:

https://www.thesolver.it/pdf/keynes.pdf

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Spagna, Irlanda, Portogallo: I falsi trionfi del rigore ci portano verso nuovi disastri

Spagna, Irlanda, Portogallo: I falsi trionfi del

rigore ci portano verso nuovi disastri

di Mario Seminerio | 18 luglio 2013 Articolo originale da Il Fatto Quotidiano

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Mentre l’intera Eurozona è in messianica attesa delle elezioni politiche tedesche del prossimo 22 settembre, lo stato dell’arte del cosiddetto risanamento dei conti pubblici procede sempre più incerto, con tentativi di aggiustamenti marginali che non fanno che rinviare il giorno del giudizio, mentre nei singoli Paesi crescono gli ostacoli di natura costituzionale ai tentativi di incidere in profondità e retroattivamente sulle voci di spesa relative a pensioni e licenziabilità dei pubblici dipendenti. Il denominatore comune è l’assenza di un “modello di successo” nella gestione della crisi, malgrado la propaganda della Commissione europea si sforzi di affermare il contrario.

Non era difficile immaginare un simile esito, da subito: questo accade, quando 17 paesi, fortemente interdipendenti, stringono la politica fiscale in contemporanea, e i loro sistemi creditizi vengono destabilizzati da deflussi di quegli stessi capitali globali che li avevano beneficiati per anni, al punto da indurre una sorta di nirvana in cui i fondamentali macroeconomici finivano col perdere rilevanza agli occhi degli investitori rispetto all’oceano di liquidità che occulta ogni problema.

Il mito assurdo dell’Irlanda
Il primo allievo prediletto della leggenda del risanamento a mezzo di austerità è stata l’Irlanda. Il paese era stato duramente colpito dallo scoppio della bolla immobiliare e il successivo salvataggio pubblico del sistema bancario attraverso la nazionalizzazione aveva fatto esplodere deficit e debito. Dopo venne una durissima austerità, fatta di aumenti di imposte e tagli di spesa pubblica e pensioni. Il Paese oppose una strenua resistenza al tentativo francese e tedesco di imporre un aumento dell’aliquota imposta sulle società (soltanto il 12,5 per cento) che rappresenta un magnete per attirare le sedi di imprese da tutto il mondo, che spesso (come nel caso di Apple) riescono ad avere un carico d’imposta anche sensibilmente inferiore alle aliquote ufficiali. Oggi, l’Irlanda ha un tasso di disoccupazione ancora molto alto, intorno al 14 per cento, peraltro frutto di un calo nel tasso di partecipazione alla forza lavoro e di emigrazione. Il deficit resta pesante, il debito è al 120 per cento del prodotto interno lordo (Pil), che è la grandezza su cui si calcola il salvataggio sovranazionale, ma balza al 145 per cento del prodotto nazionale lordo (Pnl), che non considera i profitti delle multinazionali. Il Pil indica un boom dell’export che il Pnl semplicemente non rileva, mentre Dublino attende ancora con fiducia che il fondo Salva Stati europeo Esm si prenda in carico parte del debito causato dai salvataggi bancari.

Portogallo, l’allievo prediletto
Dopo l’Irlanda, il Portogallo era l’allievo prediletto dell’ideologia del virtuosismo fiscale. Il Paese si è trovato da subito in grave affanno fiscale, ma la vulgata del risanamento a mezzo di prevalenti tagli di spesa ha resistito a lungo. Quei tagli, tuttavia, nascondevano una realtà ben più problematica: una soppressione violenta della spesa pubblica in conto capitale, che di solito è quella che può essere più agevolmente incisa rispetto a quella corrente. Abbattere gli investimenti pubblici può essere considerato una iattura o un beneficio, a seconda che tali investimenti siano la base per la crescita di lungo periodo o voragini di spreco. La riduzione della spesa corrente portoghese è stata invece fatta soprattutto con il mancato pagamento delle mensilità aggiuntive, estiva e natalizia, a dipendenti e pensionati pubblici. La Corte Costituzionale portoghese si è messa di traverso e il governo di centrodestra è stato costretto a trovare nuove coperture, individuate a inizio 2013 in folli aumenti di pressione fiscale, con un delirante aumento di circa il 30 per cento dell’aliquota media effettiva dell’imposta personale sui redditi, frutto di addizionali a pioggia su tutti gli scaglioni d’imposta. Nel frattempo, la gravità della crisi ha causato un crollo delle entrate, inizialmente compensato con la nazionalizzazione di alcuni grandi fondi pensione.

In simili circostanze si tende a ignorare che la spesa pubblica tende a espandersi spontaneamente per l’operare degli stabilizzatori automatici, cioè sussidi di disoccupazione e altri trasferimenti di welfare. Questo è un altro punto critico della gestione della crisi del debito dell’Eurozona. Sotto la fretta tedesca di “risanare”, il “suggerimento”, mai tuttavia elevato a precetto ufficiale per la sua impopolarità, è stato quello di sopprimere o ridimensionare gli stabilizzatori automatici: tagliare i sussidi di disoccupazione per tagliare la spesa pubblica. Ma una simile manovra, in Paesi che hanno un drammatico buco di domanda e gravissima stretta creditizia, significa porre le basi per continua a negoziare rinvii del percorso verso il pareggio di bilancio. L’ultima missione del Fondo monetario internazionale a Lisbona, a metà giugno, ha evidenziato una inarrestabile ascesa del rapporto debito-Pil, che quest’anno dovrebbe arrivare al 134 per cento: se il costo del debito pubblico eccede la crescita nominale del Pil, il rapporto debito-Pil si autoalimenta e distrugge l’economia. Il Portogallo, nei giorni scorsi, ha visto il rendimento richiesto dal mercato sui propri titoli di Stato decennali salire all’astronomico livello dell’8 per cento.

Per un paese il cui Pil è atteso contrarsi quest’anno del 2,5 per cento, il disastro è nell’ordine delle cose, ma questo è anche il problema di Spagna e Italia, che sono in condizioni più o meno simili, anche se noi abbiamo il vantaggio di un avanzo primario, non è chiaro per quanto tempo sostenibile. Anche questa è un’altra costante del processo di “risanamento” dei conti pubblici che sta mettendo una corda intorno al collo di alcuni Paesi. Come potrà il Portogallo rientrare sui mercati, a metà del prossimo anno, come previsto dal piano di salvataggio della Troika? Non potrà. Motivo per cui servirà una ristrutturazione degli aiuti ufficiali, come già fatto per la Grecia, con allungamento delle scadenze e riduzione del tasso d’interesse. Tuttavia, poiché i conti continueranno a non tornare, al paese verrà richiesto di moltiplicare gli sforzi di dismissione del patrimonio pubblico, come accaduto per la Grecia. Anche qui, poiché ha poco senso privatizzare in un paese il cui contesto economico è fortemente deteriorato e in cui il credito manca, avremo un buco di entrate rispetto alle previsioni, motivo per cui la ristrutturazione degli aiuti ufficiali, dovendo rispettare il vincolo dell’importo originariamente erogato, richiederà anche la ristrutturazione del debito pubblico portoghese, cioè un default. Ma questo metterà le banche locali a rischio di insolvenza, visto che sono piene di titoli di Stato del proprio paese.

La Spagna si è avvitata
Il drammatico processo di avvitamento verso il dissesto è ancora più chiaro nel caso spagnolo: a fine marzo, il rapporto debito-Pil del paese era all’88,2 per cento. Nel 2007, prima della crisi, era intorno al 36 per cento. Un aumento di oltre 600 miliardi di euro, frutto del crollo del gettito d’imposta, delle spese per stabilizzatori automatici e degli aiuti al settore bancario in crisi, inclusi i 40 miliardi ricevuti dall’Europa e che peseranno sul debito sovrano. Negli ultimi sei mesi il debito è cresciuto di 106 miliardi di euro. Anche qui è all’opera la regola infernale: nel 2012 il Pil nominale spagnolo è diminuito dell’1,3 per cento, mentre il costo medio all’emissione dei titoli di Stato decennali è stato del 5,5 per cento e il deficit primario del 4 per cento. Nel 2013 il Pil nominale è atteso crescere di un esile 0,2 per cento, e nel 2014-2016 del 2,5 per cento. Troppo poco, se nel frattempo il costo medio del debito non registrerà un crollo al momento improbabile.

In questi mesi si è affermata una leggenda metropolitana secondo la quale la Spagna starebbe registrando un vero miracolo delle esportazioni, grazie alla riduzione del costo del lavoro, e questo sarebbe l’inizio della riscossa del paese. Le cose non stanno così, purtroppo: con una domanda interna prostrata e un sistema creditizio occluso, l’export da solo non permetterà alla Spagna di riprendere a crescere in modo tale da rendere sostenibile il proprio debito. Questa considerazione vale anche per quanti, in Italia, sono convinti che l’export da solo possa toglierci dai guai.

L’illusione dell’export
Nessun recupero di competitività può contrastare una simile degenerazione dei rapporti di debito, soprattutto considerando che il miglioramento dei saldi delle partite correnti, per i Paesi europei in sofferenza, è avvenuto soprattutto attraverso la distruzione della domanda interna e il conseguente crollo delle importazioni. E le mie importazioni sono le esportazioni del mio vicino partner commerciale. Alcuni elementi di questa crisi (il rapporto di indebitamento) vanno a una velocità nettamente superiore a quella delle riforme di struttura: l’evoluzione converge verso il dissesto, a meno di un “qualcosa” che ripristini condizioni di crescita, cioè di sostenibilità del debito, pubblico e privato. Ad oggi, continua a non essere chiaro cosa possa essere quel qualcosa, in assenza di un enorme piano di stimolo, basato su tagli d’imposta in deficit e/o su spesa pubblica su scala continentale, una pura utopia. Se il quadro europeo resterà quello oggi in essere, sarà pressoché impossibile evitare un redde rationem sullo stock di debito, pubblico e privato, di alcuni paesi europei.

 

 

 

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Nasce il FORUM SOLIDARIETA’

Nasce il FORUM SOLIDARIETA’

 

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Quante volte succede di doversi liberare di oggetti ancora in buono stato, ma che non hanno mercato?

Nella nostra società dei consumi, molto spesso. E così le discariche si riempiono di oggetti che a qualcuno potrebbero essere ancora utili.Il funzionamento del FORUM SOLIDARIETA’ è semplice. Basta solo iscriversi, pubblicare foto e descrizione di ciò che si intende regalare.Spetta a chi ha bisogno di tale oggetto il compito di ritirarlo o pagare le eventuali spese di spedizione.Con questa iniziativa, non nuova nella rete, si può dare una seconda chance agli oggetti dismessi, buttati in un cantuccio, o da portare in discarica,  cedendoli gratuitamente ad altre persone che ne possono avere bisogno. L’importante è fare in modo che ognuno di noi diventi una risorsa per l’altro, gratuitamente.

Inutile ricordare che ogni abuso, ogni tentativo o sotterfugio, atto a nascondere attività lucrative o finalizzate al profitto e/o alla pubblicità di beni e prodotti, comporterà, oltre alla cancellazione dell’account, la  denuncia alle autorità competenti per danni materiali e all’immagine.

Sappiamo che l’iniziativa non rappresenta assolutamente una novità. Si vuole aggiungere un ulteriore tassello alle, purtroppo poche, iniziative in tal senso. Pertanto eventuali scambi e link a siti simili e collaborazioni, purchè sempre finalizzate alla solidarietà, senza alcun fine di lucro e basate sul volontariato e sulla gratuità, sono ben accette.

Poche e semlici regole:
Niente promozioni, commenti personali, discussioni o per lasciare informazioni di qualsiasi genere.

Niente annunci che hanno come oggetto “ANIMALI, ARMI, MEDICINALI O MATERIALE DI CARATTERE SESSUALE”.

Veificate che  trattative e consegne siano effettuate da persone adulte o, se minorenni, assistite dai genitori.

Non sono ammessi riferimenti a problemi familiari, economici, di salute o appartenenze ad eventuali associazioni o enti benefici.

Partecipate.

 

 

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Latte, Grassi animali e Dubbi russi.

Latte, Grassi animali e dubbi russi.

di Gian Luca Mazzella – Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2013

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I camici bianchi partono da un fatto: la nota Harvard Medical School ha eliminato il latte dall’elenco dei prodotti salutari. Le mucche, per esempio, producono latte per 300 giorni all’anno, e per questo scopo vengono nutrite con mangimi speciali, mentre una mucca naturalmente darebbe latte per non più di 180 giorni all’anno

Mentre in Italia il latte è argomento di campagna elettorale, dato che le quote latte – secondo una recente relazione della Corte dei Conti – sono costate allo Stato 4,5 miliardi di euro, in Russia si raccomanda di evitare il consumo quotidiano di latte bovino. Accade in un programma del primo canale della tv russa: un gruppo di medici, dopo aver esitato per due anni, tratta il tema del consumo quotidiano di latte. Un tema contraddittorio e spinoso, argomento di ricerche e studi discordanti, o di patenti luoghi comuni. Certo è che il consumo quotidiano di latte bovino è un fenomeno degli ultimi ottant’anni, e fino al XX secolo nelle lingue europee non si trovava nemmeno la locuzione “bere latte”: prima di allora il latte si “mangiava”, specie sottoforma di latticini. Tutt’oggi ci sono popolazioni che non assumono latte dopo lo svezzamento.

I medici russi partono da un fatto: la nota Harvard Medical School ha eliminato il latte dall’elenco dei prodotti salutari. Difatti, pur se negli ultimi decenni il latte è stato stimato fondamentale per il benessere e la salute di adulti e bambini, la ricerca – in alcuni casi – ha mostrato evidenze scientifiche differenti. I medici russi ne hanno illustrate alcune: 1) Metà delle calorie nel latte provengono da grassi, fra questi il il 10% è colesterolo. Nonostante la mucca conduca una vita salutare mangiando erba, noi consumiamo grassi animali che portano allo sviluppo delle placche arteriosclerotiche. Cioè l’arteriosclerosi delle arterie del cuore, del cervello, degli arti inferiori. Ciò può portare all’infarto, all’ictus, alla perdita degli arti. E, come possibile conseguenza, alla morte. Tutto ciò è possibile se l’uomo consuma grandi quantità di latte. Meglio il latte con 0% di grassi. 2) La produzione moderna del latte avviene in luoghi simili a “fabbriche”, gli allevamenti intensivi che danno latte industriale. Le mucche producono latte per 300 giorni all’anno, e per questo scopo vengono nutrite con mangimi speciali, mentre una mucca naturalmente darebbe latte per non più di 180 giorni all’anno. Alcune ricerche hanno mostrato che il latte delle mucche da allevamento intensivo contiene un ormone, l’estrone solfato, in maniera 33 volte superiore a quello delle mucche che producono latte per non più di 180 giorni. L’estrone solfato pare la causa della maggior parte dei tumori alla prostata e ai testicoli. Il latte da allevamento intensivo sembra dunque legato a questo tipo di tumori. 3) Il latte è uno degli allergeni più importanti. Un quarto della popolazione mondiale non tollera il latte. Le proteine del latte possono provocare allergia. 4) Il latte si può sostituire con altri alimenti da cui trarre proteine, vitamine liposolubili e calcio. Per le proteine, e l’abitudine al gusto, si può assumere latte di cocco o di riso, dunque proteine vegetali. Per il calcio, si può mangiare ad esempio cavolo e fave, che garantiscono il fabbisogno quotidiano. Per la vitamina D, basta assumere grasso di pesce (2 grammi al giorno, in più si hanno anche omega 3, anche sottoforma di integratori.

Insomma i medici russi, sul primo canale tv, si sono dichiarati contro il consumo di latte industriale. Un fatto rilevante, che ha spinto alcuni a scervellarsi sui motivi più occulti di una tale azione. Eppure, anche in Italia, come riportato in questo breve video c’è chi da anni ai adopera per demolire i luoghi comuni e raccomandare una dieta anticancro. Peraltro nel nostro paese, la vitamina D si può trarre facilmente dai raggi del sole, bastano 15-20 minuti per 2-3 volte a settimana. E anzi come scrive l’oncologo Franco Berrino: “i tanto reclamizzati latticini sono certo ricchi di calcio, ma sono anche un concentrato di proteine animali. Non esiste un solo studio che abbia documentato che una dieta ricca di latticini in menopausa sia utile ad aumentare la densità ossea e a prevenire le fratture osteoporotiche. Alcuni studi hanno addirittura riscontrato che la frequenza di fratture in menopausa è tanto maggiore quanto è maggiore il consumo di carne e di latticini. Naturalmente rimane logico garantire un sufficiente apporto alimentare di calcio, purché non provenga solo dai latticini. Ne sono ricchissimi vari semi, soprattutto il sesamo e le mandorle, i cavoli, soprattutto i broccoli, i prodotti del mare, soprattutto le alghe, ma anche il pesce (soprattutto i pesci piccoli e le zuppe di pesce dove si mangiano anche le lische), il pane integrale a lievitazione naturale, i legumi”.

Del resto, se pure alcuni latticini (quale il burro), conterrebbero una quantità rispettabile di omega-3 (essenziali per l’alimentazione umana), lo spostamento dell’alimentazione degli animali dalle piante a foglia verde ai cereali nei mangimi, ossia dal pascolo all’allevamento intensivo, ha ridotto il contenuto di omega-3 (ma anche di vitamine come la A e la D) nei latticini. Quindi nel nostro organismo. Gli allevamenti intensivi accentuerebbero lo squilibrio omega- 3/omega-6 a favore di questi ultimi. Gli omega-6 stimolano la fabbricazione di cellule adipose fin dalla nascita e favoriscono l’accumulo di grassi, la coagulazione e la risposta infiammatoria delle cellule alle aggressione esterne. Inoltre agli animali d’allevamento intensivo non vengono risparmiati antibiotici, al fine di prevenire le malattie ma anche per farli crescere più velocemente. E ciò aumenta la resistenza batterica agli antibiotici negli animali stessi, e plausibilmente anche in chi se ne nutre. Del resto l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi è enorme: sono nocivi per l’atmosfera più dell’anidride carbonica, contribuendo al riscaldamento globale più di tutti i trasporti nel loro insieme; sono nocivi per le risorse idriche del pianeta, e sono nocivi perché contribuiscono alla deforestazione occupando quasi un terzo delle terre emerse”.

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San Benedetto da Norcia

San Benedetto da Norcia

Patrono d’Europa, patriarca del monachesimo occidentale, figura famosa quanto sconosciuta. 

 

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San Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.

Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.

La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.

Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.

Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.

All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.

Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 9.04.2008)

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Deflazione o politiche keynesiane?

Deflazione o politiche keynesiane?

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Le difficoltà riscontrate nell’adozione di politiche di rilancio keynesiane, hanno prodotto due tendenze: da un lato un crescente disimpegno generalizzato da parte dello Stato nell’economia; dall’altro lo sviluppo di strategie deflazionistiche. Pertanto, la lotta contro le recessioni e la disoccupazione congiunturale rimane un obiettivo possibile solo a condizione di superare il dilemma della globalizzazione attraverso un reale coordinamento internazionale. Ma nell’ipotesi più favorevole, le politiche congiunturali si riveleranno parzialmente impotenti nei confronti di un rallentamento della crescita o di una crescita della disoccupazione che costituiscono sempre più fenomeni strutturali indipendenti dalla domanda globale. In tale quadro, si comprende il crescente scetticismo nei confronti delle politiche congiunturali, e la riflessione teorica si rivolge ai possibili contenuti di un’azione strutturale in grado di promuovere e sostenere nuovi meccanismi duraturi di crescita e occupazione.
Per quanto concerne le strategie congiunturali di approccio ai temi del rallentamento della crescita e di incremento della disoccupazione si possono distinguere due principali strategie congiunturali: 1) la deflazione competitiva che si riconosce nelle strategie liberali tradizionali basate sulla competizione e sulla flessibilità di prezzi e salari; 2) il rilancio internazionale che si colloca nell’ambito di una tradizione keynesiana adattata al contesto della globalizzazione.
Per il primo punto, si tratta di una strategia dalla logica teorica, ma per quanto attiene il problema della disoccupazione la sua portata pratica è molto limitata a causa della lentezza dei meccanismi di aggiustamenti proposti. Tale strategia si basa sull’eredità delle tesi classiche: rigore monetario, debole inflazione e tasso di cambio forte, come contributi essenziali alla crescita, all’occupazione e all’equilibrio esterno. Infatti, una politica di rigore monetario e fiscale pone un freno alla domanda interna, un freno all’inflazione, e una forte crescita della disoccupazione. Inoltre, il freno alla domanda limita le importazioni; la deflazione migliora la competitività contribuendo per tale via al riassorbimento del deficit esterno. La crescita della disoccupazione tiene a bada i salari reali, mettendo i lavoratori e i sindacati di fronte alla scelta fra un incremento della disoccupazione o una diminuzione del potere di acquisto dei salari. Oltre che un effetto di stabilizzazione sulla crescita della disoccupazione, il ribasso dei salari reali produce due ulteriori effetti potenziali. La caduta del costo del lavoro aumenta la profittabilità dell’attività di impresa; infatti, a prezzi di vendita invariati essa migliora i margini di profitto. Le imprese sottoposte alla concorrenza sia sul mercato interno che internazionale possono mantenere invariati i tassi di margine di profitto e approfittare della caduta del costo del lavoro per diminuire i prezzi di vendita. La suddivisione tra l’effetto-profittabilità e l’effetto-competitività dipende dal grado di concorrenza, dai tassi di interesse e dal tasso di cambio. Più un settore è esposto alla concorrenza internazionale più gli imprenditori sono spinti alla ricerca di una forte competitività sui prezzi. Un tasso di cambio forte che limita la competitività-prezzi dei prodotti nazionali costringe le imprese a contenere i loro margini e a privilegiare l’effetto-competitività. Tra l’altro, i due effetti descritti hanno conseguenze favorevoli sulla crescita e sull’occupazione. Un miglioramento della competitività implica maggiori livelli di esportazioni e quindi maggiore produzione e occupazione. Uno sviluppo dei profitti favorisce l’investimento e dunque una maggiore domanda nel settore dei beni strumentali. Ciò riduce l’insufficienza del capitale che può costituire un’ulteriore causa strutturale di disoccupazione. Lo sviluppo e la modernizzazione del capitale sono anche condizioni per una maggiore competitività a medio e lungo termine. Complessivamente l’effetto-profittabilità, stimolando l’investimento, ha effetti positivi su produzione e occupazione nel lungo periodo, mentre l’effetto competitività, stimolando la domanda esterna, produce gli stessi risultati in tempi più rapidi.
Infine, altri effetti positivi di aumento di credibilità si possono rilevare presso i mercati finanziari. Quest’ultimi, se sono convinti che il governo è orientato verso politiche di stabilità monetaria, non possono puntare in forma speculativa su ipotesi di future svalutazioni. Di conseguenza i tassi di interesse saranno più deboli con benefici sul livello di accumulazione. Chiaramente l’intera strategia riposa, in gran parte, su una caduta del livello salariale e suppone una politica di sostegno a carattere strutturale destinata a garantire la flessibilità salariale.
Riassumendo, si può affermare che accettando momentaneamente un livello di disoccupazione più elevato si determina una caduta dei salari che migliora la competitività e la profittabilità delle imprese.
Questi due effetti congiunti contribuiscono a rilanciare la produzione e quindi l’occupazione. Inoltre, il miglioramento dei margini di competitività contribuisce a ripristinare l’equilibrio esterno. Ma, in verità, una parte rilevante di questi vantaggi resta puramente teorica a causa della lentezza dei meccanismi di aggiustamento su cui poggia l’intera strategia.
Sempre nell’ambito della strategia di deflazione competitiva si possono rintracciare altre problematiche: 1) la disoccupazione non produce con immediatezza una caduta del livello salariale. Spesso, si pone in evidenza come la crescita della disoccupazione strutturale rafforzi la rigidità verso il basso dei salari; 2) la caduta dei salari ha solo un effetto immediato di stimolo sulla domanda di lavoro (effetto-sostituzione) ma soprattutto un effetto depressivo sui consumi che tende a ridurre la domanda e l’occupazione (effetto-reddito). Tutte le simulazioni effettuate hanno dimostrato che l’effetto reddito domina nel breve periodo con un’ulteriore diminuzione dell’occupazione, e occorrono diversi anni prima che si manifesti un effetto positivo sull’occupazione; 3) l’effetto-profittabilità può prevalere sull’effetto-competitività. Infatti, non appena i salari reali diminuiscono, le imprese possono in un primo momento cercare un miglioramento dei loro profitti e quindi non scaricare sui prezzi la caduta dei costi. L’effetto-competitività, che dovrebbe ripercuotersi sui livelli produttivi e sull’occupazione, limita i suoi effetti sul livello dei profitti (effetto-profittabilità) con effetti su occupazione e produzione solo nel lungo periodo; 4) l’effetto di competitività influenza solo la disoccupazione congiunturale. Infatti, esso influenza soprattutto la domanda e dunque limita solo la disoccupazione congiunturale provocata da domanda insufficiente; 5) l’effetto-competitività è, inoltre, molto limitato quando si tratta di una strategia applicata da tutti i paesi contemporaneamente. Infatti, se tutti i partner commerciali adottano la stessa strategia, il suo effetto è solo simbolico. Dal momento che essi contemporaneamente abbassano salari e prezzi, nessuno migliora la propria competitività relativa. Il risultato è solo un grande marasma mondiale e la persistenza di un’elevata disoccupazione congiunturale.
Tuttavia, i rischi di un’esplosione della disoccupazione e del conflitto sociale e politico riportano, inevitabilmente, le scelte politiche e di politica economica verso strategie di crescita e di maggiore occupazione.
Si tratta di scelte che sul piano mondiale non possono realizzarsi in assenza di un coordinamento internazionale delle politiche economiche. Si è, ormai, consapevoli che politiche nazionali isolate risultano essere di difficile applicazione, dato l’insieme dei vincoli esterni in un contesto di economie globalizzate. La possibilità di realizzare politiche di rilancio efficaci è legata ad ipotesi di reale coordinamento internazionale in grado di neutralizzare in parte i vincoli esterni.
L’approccio keynesiano applicato correttamente ad un contesto economico compatibile rimane uno strumento efficace. Compatibilità di condizioni vuol dire capacità di produzione inutilizzate, deboli vincoli esterni, presenza di lavoratori dalle qualifiche adattabili a occupazioni nei settori con sbocchi insufficienti. Tutte condizioni oggi evidentemente presenti.
In tale quadro, un rilancio della domanda interna può contribuire a un rapido incremento dell’attività produttiva e ridurre la disoccupazione senza accelerare l’inflazione. Quindi, gli strumenti keynesiani di regolazione della domanda sono efficaci per lottare contro una disoccupazione congiunturale legata semplicemente a insufficienze degli sbocchi, a condizione che le imprese dispongano di una capacità produttiva inutilizzata e che si sia in un contesto privo di vincoli esterni.
*Docente di Istituzioni di economia e politica economica, Università di Messina

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PM1107 E MODDING. Nuova vita allo zte di poste

PM1107 E MODDING.

Nuova vita allo zte di PosteMobile

 

PosteMobile-PM1107
Arrivano segnalazioni che con il terminale ZTE Racer o Blade venduto da PosteMobile con la sigla PM1107 Smart, continuano a esserci seri problemi.
Ormai è passato parecchio tempo, e i miei stessi interventi, generalmente contrari ale diverse mod e root , hanno fatto il loro tempo.
Sicuramente, dopo già un paio d’anni, ci si è attrezzati con terminali più nuovi e competitivi, ma stringe un poco il cuore vedere relegato in un cassetto, quel piccolino attempato e con poca voglia di circolare.
Per questo ho deciso, in un impeto di altruismo e pietà, di dare una nuova vita al PM1107.
Il mio PM1107  sembrava completamente morto, Niente vibrazione, niente touch screen.
Da premettere che per ben tre volte è stato mandato in garanzia per la sostituzione, e per tre volte il gallo… oops, è tornato con uno schermo nuovo fiammante, una scheda madre nuova di zecca, ma le zecche cinesi sono rognosissime, credetemi. Ogni riparazione è durata in media 20 giorni. E poi punto e accapo.
Non avevo voglia di smanettare, ma dopo essere passato all’incredibile, fin’ora SIII,
guardare languidamente il PM giacere mi ha smosso.
Piccola ricerca, google e bing. Svariate prove. alcune senza risultato, tanto ormai è morto, male che va lo butto o lo regalo per pezzi di ricambio. Finchè … ecco la luce.

Fine premessa lunga. Inizio premessa breve.

Non accetta superoneclick per i permessi di root. Neppure advancedroot. cosa fare ?
Ho provato Z4Root e voilà. Roott..ato come se avesse ingerito un kg di bicarbonato.
Fine premesse e inizia il lavoro.
Procuratevi:
1) z4root_blade_perm_root_v2k@. apk ( nell’archivio sono presenti 3 files)
2) RecoveryManager_v0.34bk@. apk
3) recovery-RA-mooncake-gen1-v2.3-CM-update_signed.zip
4) cm7_2.3.7_Racer_full-257.zip
_____________________________________

Proedimenti:

Collegate il vostro piccoletto PM1107 al Pc. Accedete alla vostra scheda SD e copiate in una dir i files della z4root e recovery manager.
In un’altra dir copiate il contenuto della recovery-RA-mooncake…. Questa contiene una directory META-INF e il file recovery.img
Nella root della SD copyate il file al n° 4, che sarebbe la cyanogenmod….. il sistema operativo nuovo.

Scollegate il piccoletto dal pc e installate e lanciate l’apk z4root.
Dalla schermata principale del programma cegliete Root Permanent.

Aspettate e in un paio di secondi ecco il pm1107 completamente roottato.
Senza riavviare, installate e lanciate l’apk  recoverymanager.
Al lancio questo vi chiederà il permesso di accedere al sistema e ovviamente accettate.

Da qui il gioca si fa duro, ma solo per chi non sa.
Il programma vi dice che non può accedere se non installate una recovery. Accettate di installare  una recovery  e

Scegliete la voce Install recovery e andate a selezionare la recovery.img di cui al punto 3.

A questo punto il vostro mostriciattolo si riavvia e senza alcun intervento vostro, vi ritrovere nella schermata di RECOVERY ANDROID.

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Avrete un bel menù con scritte bianche su sfondo nero, con diverse opzioni.
Niente panico. Con i tasti del volume + e volume – vi spostate tra le voci. NON CORRERE, SENZA FRETTA.
Naturalmente le voci più interessanti sono quella del backup, in modo da eventualmente ristinare il tutto e la possibilità di partizionare la vostra SD se disponete di una con parecchia capacità. Dopo questo:
Per prima cosa posizionatevu WIPE e confermate. SI CONFERMA PREMENDO LA CORNETTA VERDE come se si dovesse fare una chiamata. Con la cornetta rossa si torna indietro.
Pochi secondi e rieccovi sempre avant allo stesso menù a discesa.
Questa volta posizionatevi su FLASH ZIP FROM SD CARD e andate a selezionare la
cm7_2.3.7_Racer_full-257.zip che avevate messo nella root della SD. Aspettate
aspettate, circa 2 minuti. E’ poco, anche se vi potrà sembrare un’eternità.

Godetevi lo spettacolo e date il benvenuto alla nuova vita dello smart.
Il mio piccoletto mi ringrazia fortemente. I programmi cirtati li trovate e scaricate facilmente. Grazie Google.
Naturalmente potrete scegliere diverse mod. Ho provato la greenMod e la sense rom. Molto belle, ma quelle della cyanogen sono perfette e stupende.

THE SOLVER  vi offre la possibilità di scaricare i files dei punti 1,2,3
Download Tutto ZTE PM1107 Postemobile

Se avete bisogno di aiuto contatte il webmaster QUI

E  gradita la registrazione al sito.

Buon divertimento.

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