La Teoria Keynesiana John Maynard Keynes

La Teoria Keynesiana

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John Maynard Keynes

è stato un economista britannico, padre della macroeconomia e considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo. I suoi contributi alla teoria economica hanno dato origine a quella che è stata definita “rivoluzione keynesiana”. In contrasto con la teoria economica neoclassica, ha sostenuto la necessità dell’intervento pubblico statale nell’economia con misure di politica di bilancio e monetaria, qualora una insufficiente domanda aggregata non riesca a garantire la piena occupazione. Ecco in PDF la teoria keynesiana:

https://www.thesolver.it/pdf/keynes.pdf

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L’austerità espansiva e i numeri (sbagliati) di Reinhart e Rogoff

L’austerità espansiva e i numeri (sbagliati) di Reinhart e Rogoff 

Vittorio Daniele – 20 Giugno 2013

 

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Se c’è un effetto positivo delle grandi crisi economiche, è certamente quello sulle idee e sulle teorie. Era già accaduto nel ’29 con la Grande depressione, e le sue drammatiche conseguenze sulle vite di milioni di persone, quando i presupposti della visione macroeconomica del tempo rivelarono la loro fallacia. Fu, poi, John Maynard Keynes, con la sua Teoria generale, a offrire un paradigma nuovo per interpretare le crisi economiche e strumenti macroeconomici per affrontarle. Qualcosa di analogo è accaduto anche stavolta, con la crisi finanziaria del 2007 e la Grande recessione che ne è seguita. Anche questi eventi hanno costituito una sorta di “banco di prova” per la macroeconomia. E anche stavolta, alcune idee e teorie non hanno retto alla prova dei fatti. È il caso dell’austerità espansiva, una tesi affermatasi negli anni Novanta del secolo scorso, sulla base di alcune ricerche empiriche, e incorporata nell’approccio economico dominante. In nuce, la tesi afferma che consolidamenti fiscali, diretti a stabilizzare o abbassare il rapporto debito pubblico/Pil e realizzati attraverso tagli alla spesa pubblica, possano stimolare consumi e investimenti privati. Si tratta di un effetto controintuitivo, significativamente definito “non-keynesiano”. Gli effetti espansivi delle politiche di austerità si giocano tutti, o quasi, sul ruolo delle aspettative. Se i tagli di spesa vengono percepiti come segnali di un futuro abbassamento delle imposte, i consumatori si aspetteranno un più elevato reddito permanente (reddito futuro atteso), per cui tenderanno ad aumentare i consumi correnti. Effetti analoghi, secondo alcuni economisti, si avrebbero anche in seguito a consolidamenti fiscali attuati attraverso aumenti delle imposte[1]. La storia è nota. Nel 2009, per cause diverse, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia entrano in recessione. A causa degli elevati debiti pubblici e dei vincoli europei, i governi non possono usare la politica fiscale per stimolare l’economia; la politica monetaria, centralizzata a livello europeo, non dipende dai singoli paesi. Di fatto, i governi si trovano ad affrontare la recessione senza una politica macroeconomica di stabilizzazione. Quale via per uscire dalla crisi? La tesi dell’austerità espansiva offre un’incoraggiante prospettiva. Se il consolidamento fiscale – un eufemismo per designare i tagli di spesa e gli aumenti delle imposte – può avere effetti espansivi, la via per uscire dalla crisi è già tracciata. Nella logica dell’austerità espansiva, forti riduzioni della spesa pubblica, riequilibrio dei conti e ripresa economica appaiono, infatti, obiettivi conciliabili. Fondo monetario internazionale (FMI), Commissione UE e BCE indicano le condizioni per la concessione degli aiuti ai paesi in difficoltà: Portogallo e Grecia sottoscrivono i Memorandum of understanding. La medesima ricetta si applica, ma con differenti posologie, date le differenti condizioni, a tutti i paesi in recessione. La sequenza è la stessa: un combinato disposto di tagli e inasprimenti fiscali – con alcune misure essenziali, mai perseguite con sufficiente determinazione dai governi, come la riduzione della patologica evasione fiscale. Obiettivi: ridurre o azzerare i disavanzi; ricondurre il rapporto debito-Pil in un sentiero di sostenibilità; aumentare la competitività. I risultati sono, ahimè, noti: contrazione del prodotto reale; aumento del debito pubblico sia in rapporto al Pil, sia in valori assoluti; crescita della disoccupazione; diminuzione del tenore di vita e dei livelli medi di consumo. Si vedano le Tabelle 1 e 2 che riportano i principali indicatori macroeconomici dei quattro paesi. –

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La Figura 1 illustra la relazione tra la variazione del saldo strutturale di bilancio nel periodo 2009-2013 e quella del Pil nello stesso periodo, in 20 paesi e in 13 della zona euro. Come è evidente, la correlazione tra le due variabili è altamente significativa. Spiccano, ai due estremi, i casi del Giappone e della Grecia, rispettivamente i paesi con minore e maggiore variazione nei saldi strutturali. Si osservino anche le posizioni di Spagna e Portogallo, in cui ampie restrizioni fiscali si sono accompagnate con significative cadute del prodotto. Dietro i dati, naturalmente, la vita di decine di milioni di persone. Per via di esemplificazione: la rabbia dei giovani indignados; il pensionato greco che, a causa dei tagli al sistema sanitario nazionale, non può più curarsi; l’impiegato portoghese licenziato e in fila alla mensa dei poveri; il disoccupato italiano che, in preda alla disperazione, minaccia di togliersi la vita[2]. Delle aspettative crescenti e progressive sull’aumento del reddito permanente atteso neanche l’ombra. Come prevedibile, nessun effetto espansivo sui consumi o sugli investimenti. I fatti dimostrano la fallacia della tesi. Lo stesso FMI ne prende atto, e in uno studio del 2013 rileva come i moltiplicatori fiscali durante la recessione siano stati maggiori di quelli stimati per il periodo pre-crisi: 1,5 invece che 0,5. Semplicemente: una contrazione fiscale di 1 euro ha avuto un impatto recessivo di 1,5 euro, invece che di 0,5, come precedentemente stimato dagli stessi teorici dell’austerità espansiva[3]. In breve, ci si è accorti che l’austerità è recessiva. A onor del vero, già nel 2010, in uno studio del FMI, si poteva leggere: “L’idea che l’austerità fiscale possa stimolare la crescita nel breve periodo trova poca conferma nei dati. I consolidamenti fiscali, tipicamente, hanno effetti recessivi nel breve termine sull’attività economica, portando a minore output e maggiore disoccupazione”[4] Nonostante ciò, il mito dell’austerità come via per uscire dalla crisi ha resistito. Un aspetto connesso, e ancora da verificare per i paesi europei, riguarda l’impatto delle politiche di aggiustamento fiscale sull’ineguaglianza. Gli studi mostrano, infatti, come tali politiche, e in particolare quelle basate su significative riduzioni di spesa, tendano ad accrescere l’ineguaglianza: in un campione di 17 paesi OCSE, un consolidamento fiscale dell’1% del Pil si è associato, in media, con aumento dello 0,6% nell’ineguaglianza nel reddito disponibile (misurata dall’indice di Gini) nell’anno successivo. Tale effetto si registra, in maniera cumulativa, nei 5-6 anni seguenti i consolidamenti[5]. Dopo aver suscitato un ampio dibattito, ed aver fornito sostegno empirico alle tesi pro-austerity di economisti e politici, anche il citatissimo lavoro di due importanti studiosi dell’Università Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, in cui si mostrava che i paesi con elevati debiti pubblici – cioè con debiti oltre il 90% del Pil – avessero avuto storicamente tassi di crescita negativi, ha subito una secca smentita. Lo studio, intitolato Growth in a time of debt[6], pubblicato nel 2010 sulla prestigiosa American Economic Review, non è stato smentito da sofisticate applicazioni econometriche ma, come nella favola di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, da Thomas Herndon, uno studente di dottorato dell’Università del Massachusetts Amherst che, utilizzando i dati di Reinahrt e Rogoff per un’esercitazione, si è accorto che qualcosa non quadrava nelle stime dei due economisti. Con il supporto di due suoi professori, Michael Ash e Robert Pollin, Herndon ha mostrato come i risultati precedenti fossero erronei, in quanto inficiati da problemi metodologici, omissioni di dati ed errori di calcolo. La conclusione è che i tassi di crescita medi dei paesi ad elevato debito non sono stati del -0,1%, come indicato da Reinhart e Rogoff, bensì del +2,2%[7]. Una differenza notevole! È chiaro: errori nelle procedure di calcolo sono incidenti spiacevoli ma scusabili; non così eventuali manipolazioni dei dati. Il punto, però, è un altro. E cioè che lo studio di Reinhart e Rogoff ha avuto un impatto mediatico enorme, con citazioni sui principali giornali (dal Financial Times, al The Economist al Wall Street Journal) e canali televisivi mondiali. I suoi risultati sono stati, poi, presi a sostegno delle misure di austerità. Growth in a time of debt è, per esempio, l’unico lavoro citato da Paul Ryan, politico conservatore americano, nella sua risoluzione, significativamente intitolata The Path to Prosperity, presentata alla House of Representatives del Congresso degli Stati Uniti, e da Olli Rehn,Vice Presidente della Commissione Europea, per sostenere le politiche di austerità europee. Per ironia della sorte, lo stesso Olli Rehn, appena qualche giorno prima della pubblicazione dello studio che mostrava gli errori nei calcoli di Reinhart e Rogoff, in una lettera indirizzata ai Ministri economici e finanziari della UE, al FMI e alla BCE, scriveva: “È largamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca accademica, che quando i livelli del debito pubblico superano il 90%, tendono ad avere un impatto negativo sull’andamento dell’economia, che si traduce in bassa crescita per molti anni”[8].

[1] In uno studio si può leggere: “Finally, we find that in large contractions the composition of the fiscal impulse matters. But, in contrast with the usual argument, the non-Keynesian effects of a large fiscal contraction are accentuated when it consists primarily in raising taxes.” F. Giavazzi, T. Jappelli, M. Pagano (1999), Searching for Non-Keynesian Effects of Fiscal Policy, CSEF Working Paper, No. 16, Centre for Studies in Economics and Finance, February, p. 17.

[2] Si veda per esempio M. McKee, M. Karanikolos, P. Belcher, D. Stuckler, Austerity: a failed experiment on the people of Europe, Clinical Medicine 2012, vol. 12. N. 4: 346-350.

[3] O. Blanchard, D. Leigh, Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers, International Monetary Fund, WP 13/1, 2013.

[4] Cfr. International Monetary Fund, World Economic Outlook 2010, Recovery, Risk, and Rebalancing. IMF, 2010, p. 113.

[5] IMF, World Economic and Financial Surveys. Fiscal Monitor, October 2012, p. 53 ss.

[6] C. Reinhart, K. Rogoff, Growth in a Time of Debt, American Economic Review: Papers & Proceedings 2010, 100:2, 1–9.

[7] T. Herndon, M. Ash, R. Pollin, Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogoff. PERI Working paper n. 322.

[8] Lettera di Olli Rehn – Brussels, 13.02.2013, ARES (2013) 18579 

 

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La Grecia ha ingannato Ue e Fmi. Sporchi traditori o Nuova teoria ?

 La Grecia ha ingannato Ue e Fmi. Sporchi traditori o Nuova teoria ?

“La Grecia ha violato un accordo con l’Unione europea e il fondo monetario internazionale assumendo circa 70mila funzionari nel 2010-2011.”

“Grecia: viola accordi, in 2 anni 70mila assunzioni nel pubblico
AGI – Agenzia Giornalistica Italia”

“la Grecia assume 70mila diepndenti pubblici in barba agli accordi …
Il Sole 24 Ore”

“La Grecia truffa la troika: assunti 70mila funzionari Violato l …
il Giornale”

Eccoli  tutti scatenati. Le maggiori testate  d’Italia si levano in coro. Sporchi traditori, fedifraghi, mentitori, ma come si permettono. Le maggiori testate  e i aggiori testoni, prezzolati e copioni. Dimostrando di non sapere scrivere, di non sapere quello che scivono, di saper fare solo copia incolla e, cosa più grave, di essere totalmente asserviti e non poter usare la loro testa.

Ne abbiamo avuto già tante dimostrazioni. E anche in questa occasione nessuno sa alzare la testolina e volgere lo sguardo un pò oltre. Magari a intravedere un lontano orizzonte di libertà.

Ricordate la “PAZZA IDEA” di Berlusconi ( stampare euro e tornare a essere uno stato sovrano )? Neppure tanto pazza. E con le repliche degli ultimi giorni sembra volere, certamente solo per cavalcare il malcontento a fini elettorali, continuare a sviluppare la sua “pazzia”. Tutti contro. Tutti in coro. Taca banda !!!

E ora la stessa cosa. Contro la Grecia. Ma a qualcuno non viene in mente che forse, sotto sotto, e neppure tanto, ci possa essere qualcosa di più serio ?  Che sotto le pressioni della massonica troika montiana possa esserci una idea nuova, diversa ? Non potrebbe trattarsi del, timido, tentativo di cercare di attuare la MMT Modern Money Theory ?

Vi rimando all’articolo dell’economista  Gennaro Zezza nella parte in cui dà una breve introduzione.

Allo stesso modo riporto una bellissima spiegazione, con la speranza che altri facciano lo stesso. Chissà,se anche i testoni delle grandi testate avranno qualche dubbio o ripensamento prima di riportare tradimenti e complotti contro i loro padoni ” da li beli brachi bianchi ” :

 

Un tempo la moneta aveva il valore del metallo di cui era composta: monete d’oro, d’argento, di bronzo, ad esempio. Quel valore, ovviamente, era pur sempre convenzionale, e restava garantito dall’effigie del Re o dell’Imperatore.

Poi arrivarono le banconote, e le banconote o le monete di metalli non pregiati avevano un valore che era convenzionalmente garantito dalle riserve d’oro detenute nei forzieri dalle banche centrali.

Nel 1944, con gli accordi di Bretton Woods, fu deciso che la moneta di riferimento convertibile in oro fosse il dollaro, valuta cardine per le altre monete.

Nel 1971 il presidente degli Stati Uniti Nixon decise di metter fine alla convertibilità del dollaro in oro.

Da quel momento, tutte le valute del mondo hanno avuto un valore solo in virtù di una convenzione, e non in rapporto al valore che esse avevano correlate all’oro, ad esempio (la qual cosa resta, comunque, una ulteriore convenzione garantita sempre dallo Stato).

L’evoluzione tecnologica negli ultimi 40 anni sta permettendo di creare e spostare moneta (sotto forma di bit elettronici e non solo come “cartamoneta”) in pochissimo tempo.

Le banche centrali potrebbero quindi creare tutta la massa monetaria che vogliono, in un solo istante.

La banca centrale degli Stati Uniti, per salvare le banche finanziarie sull’orlo della bancarotta, ha emesso 16 trilioni di dollari (16.000.000.000.000), non sotto forma di banconote ma come impulsi elettronici.

Si calcola infatti che soltanto una infinitesima massa monetaria mondiale sia sotto forma di moneta e banconote, il resto circola attraverso sistemi elettronici.

La Banca Centrale Europea di Mario Draghi, ad esempio, tra dicembre e gennaio ha immesso oltre mille miliardi di euro con prestiti per 3 anni all’1%, nella speranza dichiarata che le banche aiutassero così imprese e famiglie (in realtà le banche stanno reinvestendo questa enorme massa finanziaria in titoli di Stato, i cui rendimenti sono aumentati moltissimo a seguito della crisi del 2011).

Quindi è possibile immettere nel sistema economico tutta la moneta che vogliamo, senza preoccuparci più di nulla, neppure di lavorare?

No, naturalmente.

Il rischio principale sarebbe l’inflazione* o meglio la stagflazione (inflazione con stagnazione della produzione). Nella teoria comune, l’inflazione si ha quando vi è un aumento generalizzato dei prezzi, provocato da un eccesso di moneta circolante non corrispondente ad un pari aumento della produzione.

Cosa dicono a tal riguardo gli economisti della Modern Money Theory?

Gli economisti MMT mettono in dubbio che si crei inflazione attraverso immissioni di moneta della Banca Centrale, sia perché i fattori produttivi (ad esempio il lavoro) sono sotto-impiegati ma anche a seguito del ruolo del sistema creditizio privato che a seguito delle richieste di prestito immette moneta circolante per un valore multiplo rispetto alle riserve valutarie obbligatorie (si legga qui “La crescita monetaria non causa inflazione”, un articolo di John T. Harvey, professore di Economia alla Texas Cristian University, pubblicato su Forbes, dove si ridescrivono in chiave attuale i concetti classici di Moneta, Velocità di circolazione della Moneta, Prezzo e Produzione, in base alla formula M*V=p*Y)

A differenza degli economisti da cui prendono le mosse (Keynes prima di tutto, ovvero l’economista che con le sue ricette permise agli Stati Uniti di uscire dalla Grande Depressione e il cui insegnamento poi fu adoperato da tutti i paesi occidentali dopo il 1945), i post-keynesiani della MMT sostengono che sia opportuno adoperare questo sistema non solo nei momenti di recessione – ovvero quando l’economia è in crisi e si producono meno beni e servizi – ma che questo metodo possa e debba essere utilizzato anche quando l’economia è in fase di moderata espansione, ovvero con il raggiungimento costante del massimo impiego dei fattori produttivi.

Come è possibile immettere moneta senza generare iperinflazione?

Gli MMT sostengono che uno Stato a moneta sovrana (tutti, tranne i paesi dell’eurozona o quelli che scelgono tassi di cambio fissi o non liberamente fluttuanti) può puntare sulla piena occupazione, cioè permettere a tutti coloro che lo vogliano di lavorare e percepire uno stipendio, trovando lavoro nei servizi sociali, culturali, nell’insegnamento, la ricerca, eccetera (anche infrastrutture di vario genere). Si tratta di un percorso di salvataggio, con regole precise ora troppo lunghe da specificare, per coloro che perdono lavoro nel settore privato, e che vengono reimmessi nel settore privato in caso di richieste.

Secondo gli economisti MMT la produzione di beni e servizi derivante dalla piena occupazione riassorbirebbe il surplus monetario immesso per permettere loro di lavorare.**

Sono previste però una serie di importanti strumenti collaterali, che sono la vera chiave rivoluzionaria della MMT rispetto alle convinzioni comunemente accettate.

Se uno Stato a moneta sovrana può immettere teoricamente tutta la moneta che desidera generando questo surplus senza che si abbia iper-inflazione – è probabile che, in assenza di shock esterni, l’inflazione si attesti attorno al 5-6% annuo, un livello comunque non gravoso considerati i benefici di cui prima) per garantire piena occupazione, allora quello stesso Stato non avrà mai problemi ad onorare il pagamento dei servizi propri dello Stato: sanità, giustizia, difesa, ordine pubblico, ad esempio.

Non avrà dunque bisogno di imporre tasse per garantire questi servizi.

Abbiamo trovato dunque un mondo che può vivere senza tasse?

No.

Le tasse, secondo gli economisti MMT, servono per equilibrare il mercato della moneta attraverso un sistema di prelievo equo verso i cittadini: con esse si elimina una parte della moneta circolante nel caso ci sia il rischio di iper-inflazione. Tasse e spesa pubblica quindi non hanno più alcuna relazione con la necessità di garantire i servizi pubblici essenziali (che uno Stato a moneta sovrana potrà sempre garantire perché nulla gli impedisce di spostare il denaro dai propri conti correnti elettronici a quello delle varie amministrazioni), ma invece servono per garantire equità, meritocrazia, solidarietà in un sistema comunque non statico delle politiche monetarie.

Secondo gli economisti MMT le imposte sui consumi come l’Iva andrebbero drasticamente ridotte, quasi azzerate, così come le imposte sul lavoro, proprio per favorire la piena occupazione. Per drenare il denaro in eccesso ed evitare l’inflazione sarebbe il caso di colpire la proprietà immobiliare, perché difficile da evadere e colpisce patrimoni e rendite piuttosto che lavoratori ed imprenditori.

Inoltre la possibilità di emettere quantità di moneta teoricamente infinita per finanziare il settore pubblico non implica la necessità (come avviene ora in maniera drastica nei paesi dell’Eurozona) di chiedere il denaro necessario per queste eventualità ai sottoscrittori privati di titoli pubblici, accettando il tasso di interesse imposto dal mercato.

Questo significa che il mercato dei titoli pubblici non esisterà più in un paese MMT?

No. Significa che il mercato dei titoli pubblici è una misura facoltativa e non obbligatoria.

Significa invece che lo Stato si fa garante di pagare ai risparmiatori i tassi di interesse ritenuti congrui dallo Stato stesso, come remunerazione del capitale dei risparmiatori, e sempre in un’ottica di gestione della moneta circolante al fine di garantire piena occupazione ed evitare iper-inflazione.

Infine uno Stato a moneta sovrana con cambio di valuta libero non potrà mai fallire come l’Argentina (cambio fisso peso-dollaro) e come rischia di accadere alla Grecia e ai paesi dell’Eurozona che in questo momento devono garantire il loro debito pubblico in una moneta straniera perché privi di sovranità monetaria.

Stephanie Kelton, a Rimini, ha citato il solo caso del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando la decisione di non pagare il debito fu presa volontariamente per non sentirsi umiliati nei confronti dei vincitori del conflitto.

Quindi, in poche righe, nel mondo MMT:

– uno Stato a moneta sovrana non può fallire, ovvero può garantire sempre il debito contratto;
– uno Stato a moneta sovrana può raggiungere la piena occupazione;
– uno Stato a moneta sovrana adopera le tasse non per finanziare la propria spesa ma per evitare squilibri sociali e per evitare eccessi inflattivi acuti;

– uno Stato a moneta sovrana non ha necessità di finanziare la propria spesa pubblica ottenendo prestiti ai tassi di interesse stabiliti dai mercati privati.

* Si ha inflazione quando la quantità della moneta in circolazione aumenta più velocemente del valore dei beni e servizi prodotti: se nell’anno 1 abbiamo una quantità di moneta in circolazione di 100 euro e un valore di beni e servizi di 100 euro, e nell’anno 2 il valore di beni e servizi resta stabile a 100 mentre la quantità di moneta sale a 110, si avrà una inflazione del 10% (110-100)/100=10%, perché la moneta ha perso il suo “potere d’acquisto”, e quindi ha “meno valore”. Se invece nell’anno 2 il valore di beni e servizi disponibili è salito a 110, non vi sarà inflazione, perché come nell’anno precedente con 1 euro possiamo comprare 1 unità di prodotto (110:110=100:100) e quindi la moneta ha conservato intatto il suo potere d’acquisto.

**Si consideri l’esempio precedente: se nell’anno 1 la produzione di 100 si è avuta con una disoccupazione pari al 9% (come oggi in Italia), nell’anno 2 le politiche statali decidono di impiegare 10 euro per far lavorare questi disoccupati in settori ritenuti strategici. Il loro stipendio complessivo passerebbe da 0 (anno 1, senza lavoro) a 10 (anno 2, occupati). Se questi soldi fossero spesi per non produrre nulla, allora si rischierebbe di generare inflazione. Ma se invece i lavoratori fossero impiegati in settori come cultura, scuola, ambiente, tutela idro-geologica, sorveglianza, infrastrutture, ricerca, allora vi sarebbe un corrispondente aumento dei beni e servizi prodotti per cui la moneta immessa (10) sarebbe ricompensata e non si genererebbe inflazione, o almeno non oltre livelli considerati giustificabili.

 






 

 

 

 

 

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